martedì 16 maggio 2017

x 1 Chiesa sempre + manager

La Chiesa del futuro è nelle mani dei manager

Buone pratiche per la gestione delle parrocchie, iniziative creative per coinvolgere i fedeli. Mentre Papa Francesco è a Milano, la Chiesa organizza una tre giorni sul suo futuro. Cronaca di una tre giorni di lavori sul management pastorale. Una questione più seria di quanto si creda



«Le Bibbie piccole sono per uomini grandi. Le Bibbie grandi sono per uomini piccoli». Così scherzano due sacerdoti, commentando un piccolo volume appoggiato sul tavolo al termine di una breve conferenza. Il loro vorrebbe essere un complimento, e lo è. Ma c’è un problema: il volumetto in questione non è una piccola Bibbia. Anzi, non è nemmeno un volumetto. È una custodia, e dentro riposa beato un iPhone.

La conferenza era del reverendo Stephen Fichter, parroco di una comunità del New Jersey e membro del Centro di Ricerca Applicata per l’Apostolato. Uno dei tanti interventi del primo Festival della Creatività del Management Pastorale, tenuto a Roma, presso la Pontificia Università Laterana, dal 23 al 25 marzo. Tre giorni di incontri, dibattiti e discussioni (con ospiti importanti del calibro di Don Antonio Spadaro, l’onorevole ed ex sottosegretario Gianni Letta e l’ex ministro Andrea Riccardi, per fare alcuni nomi) sul futuro della Chiesa e, soprattutto, sulla necessità di innovare la sua gestione.
Va detto subito: accostare “management” a “pastorale” fa impressione. E colpisce anche che nel corso degli incontri si parli di “buone pratiche”, “risorse umane”, “progettualità”, insieme a “Spirito Santo”, “anima” e “vocazione”. Si discute di carità e di salvezza, ma gli incontri sono “talk”, si chiedono idee nuove e si cerca con insistenza – nemmeno fosse il consiglio di amministrazione di una OTT in crisi – più creatività, che poi era il filo conduttore dell’incontro. Perfino il messaggio del rettore, monsignor Enrico Dal Covolo, sembra (qui si esagera) ricalcare lo stile di una presentazione in power point, tutta elenchi puntati e mappe concettuali.

«La creatività è l’epifania dello Spirito Santo in noi», dice al pubblico. E si declina secondo una serie di “misteri della gioia”, che poi sarebbero i punti attraverso i quali, come in un articolo di Business Insider (o, si parva licet, di LinkPop), si snoda il processo creativo declinato nell’immaginario cattolico. Si comincia con l’Ispirazione, in cui «le idee si presentano come un’Annunciazione», con riferimento alla Madonna. Va accolta «con umiltà e coraggio», perché occorre essere disposti a uscire dalla propria «zona di comfort». Proprio così: la comfort zone.

Seguono la Risonanza e poi l’Elaborazione, cioè il momento in cui l’idea «prende forma, assume un volto». Questo avviene senza clamore, magari – testuale – «in un garage», o «in uno stanzino parrocchiale». È troppo intravedere la mitologia, made in Silicon Valley, del garage e delle esperienze imprenditoriali di successo sorte dal nulla? O lo smartphone nella custodia a forma di Bibbia?
Forse sì. Perché il quarto “mistero della gioia” è l’Obbedienza: «se il carisma supera la gerarchia, si generano mostri». È un punto essenziale: innovare è necessario, ma nel quadro di un contesto istituzionale dato. Quello va mantenuto: non a caso si passa dalla Madonna a Don Lorenzo Milani, per il quale, come è noto, «l’obbedienza “non è più una virtù”». Ma lui parlava di un’obbedienza «passiva», infeconda. Questa, al contrario, è creativa, innovativa, condivisibile e open source. Ma non disruptive. Deve saper cambiare e saper coinvolgere, ma non sconvolgere. Soprattutto, deve diffondere la parola di Gesù, che anche dopo millenni è sempre la stessa.

Le altre parole, però, sono cambiate. E in questo contesto il linguaggio aziendale prevale, con i suoi slogan, i crowdfunding e i suoi think global, act local. Perché? Per Don Antonio Spadaro, ospite del Festival e direttore di Civiltà Cattolica, l’accostamento è, spiega a Linkiesta, «una provocazione. Uno shock gnoseologico». L’obiettivo è far notare come il «management debba essere vissuto come un momento di servizio, per creare strutture che funzionino». Lo stesso Monsignor Dal Covolo, interrogato da Linkiesta, invita a «concentrarsi sull’aggettivo “pastorale”», perché «“manager” evoca sì il mondo delle aziende, delle ong, delle onlus. Ma la Chiesa non è questo (come ha ribadito più volte Papa Francesco)». Noi, dice, «seguiamo la linea dei Santi». E per fare bene il Bene, «cioè per “pascere il gregge del Signore”, è necessario avere anche competenze gestionali. Soprattutto oggi».

Perché “soprattutto oggi”? Come fa notare a Linkiesta Charles Zech, direttore di facoltà presso il Villanova Center for Church Management, in Pennsylvania, anche lui ospite e relatore del Festival, perché «le vocazioni sono diminuite». Ci sono meno sacerdoti. Le parrocchie vengono accorpate, i preti devono guidare gruppi di fedeli più numerosi, hanno più impegni e meno tempo. L’attività pastorale ne risente. «Una volta i giovani preti imparavano dai più anziani come si gestiva una parrocchia». Ora, non avendo più né personale né tempo a disposizione, è diventato necessario «rivolgersi a persone dotate di queste competenze», cioè ai manager.

E allora sarebbe una buona idea «cambiare la formazione dei giovani preti, cioè insegnare loro rudimenti di business, di management, di microeconomia», e poi inglobare, nella squadra, anche «laici qualificati. Sia pagandoli, sia come forma di volontariato». Questo è il compito (uno dei compiti, per l’esattezza) della sua business school ed è anche il compito della Scuola Internazionale di Management Pastorale, omologo italiano che riprende e completa il modello statunitense: non solo church management, ma anche progettazione strategica, gestione delle risorse umane ma non solo, fondamenti di impresa sociale. La Chiesa dovrà essere un ospedale da campo, sì, ma organizzato.

Funzionerà? A guardare alcuni esempi provenienti dall’America, sembra di sì. Secondo una ricerca della ricercatrice della Georgetown University Mary Gautier, dopo l’inserimento nel team parrocchiale di persone laiche ma qualificate nel management, il livello di gradimento da parte dei fedeli è cresciuto. Queste sono alcune tabelle:
Lo conferma anche Stephen Fichter: la sua esperienza di parroco del New Jersey, racconta, è un modello di good practice. Quando è arrivato le casse erano in perdita («un rosso di 1748 dollari»). Ha dovuto ridurre il personale, azzerare gli sprechi («Per fare un esempio: mi sono trovato di fronte a una stampante, un dinosauro, che costava 69 dollari al mese d’affitto») e introdurre un clima di «austerity» nella parrocchia. Tagliando sul riscaldamento «mi obbligavo a portare sempre il maglione, ma almeno le visite che ricevevo erano più brevi».  

Dopodiché ha creato un «team giovane e dinamico, con due suore e tre collaboratori. Discuto le mie idee con loro, mi aiutano e mi assistono». In più, «mi rivolgo sempre ai parrocchiani e chiedo il loro feedback». Tutto è cambiato, adesso. Sul conto «ci sono 500mila dollari». Che per la pragmatica mentalità americana, condizionata anche dall’assenza dell’8x1000, possono diventare opere di bene.

Salvate le parrocchie, però, restano da salvare i parrocchiani. È qui che si gioca l’altra partita della “creatività”. Lasciando da parte argomenti come celibato e sacerdozio femminile, «troppo al di sopra della mia portata, cerco di presentare ai giovani Gesù in un modo che, spero, sia anche cool», spiega. «Durante il momento dell’omelia, utilizzo anche presentazioni power point. È un linguaggio visuale, immediato e, per loro, molto familiare». Certo, gli altri, i fedeli più anziani, «manifestano qualche perplessità». Ma pazienza.
C’è anche altro, però. Oltre alla questione della gestione delle risorse, della crisi delle vocazioni e dei feedback, la modernità obbliga a rivedere tutta la comunicazione. Ad esempio, serve avere familiarità con tutti i mezzi, anche i social (che però, fa notare padre Spadaro, «sono ambienti», non media). O si richiede di avvicinare i fedeli ripensando anche gli spazi di comunità, come ad esempio l’oratorio, che per don Alfredo Cennini anche lui docente per la Summer School della Scuola Internazionale di Management Pastorale, «deve assumere una dimensione onirica», dove il prete possa costruire la sua capacità attrattiva e di leadership e «far sognare i giovani».
«La creatività è l’epifania dello Spirito Santo in noi». Si declina secondo una serie di “misteri della gioia”, che poi sarebbero i punti attraverso i quali si snoda il processo creativo declinato nell’immaginario cattolico. Si comincia con l’Ispirazione, in cui «le idee si presentano come un’Annunciazione», con riferimento alla Madonna. Va accolta «con umiltà e coraggio», perché occorre essere disposti a uscire dalla propria «zona di comfort». Proprio così: la comfort zone.
E ancora: c’è chi ha deciso, come a Novara, che la diocesi può diventare un acceleratore di start-up, perché non si può parlare di fede senza parlare di lavoro. Oppure che si può fare musica cattolica di qualità, (non le chitarrine, per intendersi), e farlo su larga scala, con video su Youtube e album su iTunes. O ancora, coniugare lavori pagati a lavori volontari, contando sulla buona volontà e sulla professionalità, o addirittura rivolgendosi a uno sponsor per ottenere alcuni finanziamenti. Per ogni scelta nuova c’è un rischio, qualcuno che storce il naso, la possibilità di fare un errore. Ma come si diceva sopra, appunto, serve lasciare la comfort zone.

Insomma, il management e tutto il suo linguaggio, alla fine, sono solo uno strumento per qualcos’altro. L’uso del suo linguaggio appare più una necessità e un’appropriazione che una subordinazione culturale (anche se dire che San Paolo fu il primo fundraiser, come è successo, fa un po’ sorridere) Lo sostiene, tra gli altri, Giulio Carpi, direttore della Scuola Internazionale di Management Pastorale. «La gestione delle risorse è una buona risposta al problema del calo delle vocazioni. Non la risposta». O meglio, «è un fenomeno che non nasce da lì e non si ferma lì». Se non ci sono più nuovi preti è perché la società è cambiata. Perché la cristianità sta cambiando geografia. E – va aggiunto – perché, a quanto pare, lo Spirito Santo ha piani diversi.

E dove va, allora, tutto questo fenomeno? Se si gratta sotto il think global, act local, sotto la cultura d’azienda, sotto il modello della good practice, una risposta forse si trova. Ad esempio, va verso l’idea di chiesa locale. Flessibile, adattabile a ogni latitudine, che sa adattarsi ai diversi contesti sociali e culturali, alle varie identità. Una realtà in cui la Chiesa, come spiega nel suo intervento l’ex ministro e fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, «sarà multipolare, frastagliata e uniforme». Più vicina ai poveri, per i poveri, lontana dal modello ereditato dall’impero romano (e del Concilio di Trento) che ha portato all’esigenza del controllo: «Non è la cosa più importante della nostra fede. È molto più importante annunciare il Vangelo». Pascere il gregge, non contarlo. Altrimenti, si sa, ci si addormenta.

In un’epoca in cui le istituzioni faticano, «occorre insistere sulle periferie». Perché la Chiesa adesso «deve svolgere un ruolo di supplenza». Se serve una chiesa locale, che sappia mettere a frutto il suo patrimonio, ben venga. Se servono figure preparate perché la pastorale funzioni, ben vengano anche loro. La chiamano co-collaborazione, ma se ci si riferisse a un’azienda o a un partito, questo discorso sarebbe tradotto con un termine ormai noto: disintermediazione. Non della dottrina, sia chiaro, ma della gestione delle strutture, delle iniziative, dei territori. Insomma, della sostanza vera, concreta. Quella che, se viene toccata, fa cambiare tutto. È così che, allora, si comprende che parlare di management, di amministrazione, è riduttivo. Qui non si fanno calcoli e bilanci. Qui si mette in campo (o si prova, sbagliando e immaginando) la Chiesa del futuro. Perché questo – dicono in giro – è un esperimento profetico.

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