Un progetto che ci precede
È stata recentemente pubblicata la costituzione apostolica Vultum Dei quaerere sulla vita contemplativa femminile, recante la data del 29 giugno 2016. Nella sua presentazione,
avvenuta il 22 luglio scorso, è stata evidenziata la distanza temporale
che la separa dalla precedente costituzione apostolica in materia, la Sponsa Christi di
Pio XII, promulgata nel 1950 (66 anni fa!). Il Segretario della
Congregazione per gli IVC e le SVA, il francescano Mons. José Rodríguez
Carballo, nel presentare il documento, ha rilevato che le monache di
clausura negli ultimi decenni erano state trascurate a livello
legislativo, tanto da essere ancora sottoposte alle norme emanate da Pio
XII, e che quindi la nuova costituzione apostolica veniva a colmare una
“lacuna di cui si iniziavano a sentire sensibilmente le conseguenze”.
Ciò che i mezzi di informazione hanno rilanciato a proposito di questo
nuovo documento pontificio praticamente si riduce all’invito a non
“reclutare candidate alla vita contemplativa da altri Paesi, al solo
scopo di mantenere la sopravvivenza del monastero” (art. 3, § 6) e alla
raccomandazione di fare un uso prudente dei mezzi di comunicazione (n.
34).
Se devo essere sincero, non avevo intenzione di leggere la nuova
costituzione apostolica, dal momento che non mi riguarda direttamente;
ma poi, non resistendo alla curiosità, me la sono letta non una, ma due
volte. Sí, perché dopo averla letta una prima volta ed essere rimasto
perplesso su alcuni passaggi, mi è venuta la voglia di conoscere quale
fosse la normativa precedente; per cui mi sono andato a leggere la
costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII (21 novembre 1950), l’istruzione Venite seorsum del 15 agosto 1969 (sul sito della Santa Sede c’è solo il testo latino; per la traduzione italiana bisogna ricorrere all’Enchiridion Vaticanum) e l’istruzione Verbi Sponsa del 13 maggio 1999. Terminata la lettura di questi documenti, ho sentito il bisogno di tornare sulla Vultum Dei quaerere, per poter fare un confronto.
Il semplice elenco dei summenzionati testi dovrebbe essere sufficiente a
dimostrare che non è del tutto vero quanto affermato da Mons. Carballo
nella conferenza di presentazione: non corrisponde a verità che le
povere monache continuavano a osservare le norme del 1950, quasi che
dopo il Concilio Vaticano II non ci fossero stati altri interventi
legislativi. Già nel 1969 l’istruzione Venite seorsum (neppure citata nella nuova costituzione, tamquam non esset…) si proponeva di applicare le disposizioni del Concilio (e del motu proprio Ecclesiae Sanctae)
alla clausura delle monache; nel 1999 poi (e quindi successivamente
alla pubblicazione del nuovo Codice di diritto canonico e della
esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata) era stata emanata una nuova istruzione, la Verbi Sponsa,
che aveva adeguato le norme riguardanti la clausura al nuovo contesto.
Per cui non c’è mai stato un vuoto legislativo: le monache avevano a
disposizione il Codice di diritto canonico, le loro costituzioni e
l’istruzione Verbi sponsa per sapere come comportarsi. Anzi, mi
chiedo se proprio ci fosse bisogno di questo ulteriore intervento. Ma è
una domanda destinata a rimanere senza risposta, dal momento che non
conosco quale fosse la reale situazione dei monasteri di clausura. Le
osservazioni che seguono, pertanto, si fondano esclusivamente sulla
lettura dei testi, sul loro confronto e sulla mia personale esperienza
di vita religiosa (ma non su una diretta conoscenza della vita
claustrale che, ovviamente, mi manca).
La prima impressione che ho avuto nel leggere questi documenti è stata quella di trovarmi di fronte, nel caso dei primi tre (Sponsa Christi; Venite seorsum; Verbi Sponsa),
a dei testi, diversi fra loro, ma tutti “robusti” dal punto di vista
dottrinale e chiari e precisi sul piano normativo; nel caso della nuova
costituzione invece, ho avuto l’impressione di avere a che fare con una
specie di “pia esortazione”, che si mostra poi incerta e confusa in fase
legislativa. Ciò che mi ha maggiormente colpito nel leggere la
costituzione apostolica di Pio XII è stato il suo interessantissimo excursus storico; leggendo l’istruzione Venite seorsum
(che per me rimane il testo migliore), sono rimasto impressionato dalla
fondazione biblico-teologica della vita claustrale (basta scorrere le
note per rendersi conto della ricchezza di riferimenti); l’istruzione Verbi Sponsa — la quale, dopo aver riaffermato “i fondamenti dottrinali della clausura proposti dall’Istruzione Venite seorsum”,
si proponeva solo di aggiornare le norme della clausura papale (n. 2) —
mi ha dato l’impressione di essere ancora pienamente attuale e non
bisognosa di ulteriori revisioni.
Bisogna riconoscere che la nuova costituzione apostolica contiene
numerosi elementi assenti nei documenti precedenti; e quindi potrebbe
dare l’impressione di una maggiore completezza. Ma, se si analizza
attentamente la natura di tali novità, ci si accorgerà che si tratta di
elementi comuni a ogni forma di vita consacrata: essi erano già presenti
nei numerosi documenti post-conciliari rivolti ai consacrati, fra i
quali sono da annoverare anche le monache di clausura. L’obiettivo dei
precedenti documenti era quello di considerare esclusivamente gli
elementi specifici della vita contemplativa (la clausura, l’autonomia
dei monasteri con la possibilità di federarsi fra loro, il lavoro e lo
specifico apostolato). Gli elementi presi in esame da Vultum Dei quaerere
sono dodici: formazione, preghiera, Parola di Dio, Eucaristia e
Riconciliazione, vita fraterna in comunità, autonomia, federazioni,
clausura, lavoro, silenzio, mezzi di comunicazione e ascesi. Va
riconosciuto che era forse opportuno trattare alcune di queste
tematiche, anche se poi il modo in cui lo si è fatto potrebbe non
risultare sempre del tutto soddisfacente (come, p. es., a proposito dei
mezzi di comunicazione).
Nella presentazione della vita claustrale (che però, come accennato, si
confonde spesso con la semplice vita consacrata) si rilevano alcune
sottolineature tipiche dell’attuale teologia della vita religiosa: ho
notato un’insistenza (che personalmente trovo eccessiva, se messa in
rapporto con altre prospettive che sono state o trascurate o del tutto
ignorate) sulla sua dimensione profetica (nn. 2; 3; 4; 5; 6; 16; 23; 35;
36; art. 13); mentre ho percepito una specie di riluttanza a
riconoscere l’oggettiva superiorità della vita claustrale (n. 4: «Le
comunità di oranti, e in particolare quelle contemplative … non
propongono una realizzazione piú perfetta del Vangelo ma, attuando le
esigenze del Battesimo, costituiscono un’istanza di discernimento e
convocazione a servizio di tutta la Chiesa»). Ho riscontrato una certa
compiacenza a ripetere affermazioni oggi di moda: «La vita monastica,
elemento di unità con le altre confessioni cristiane» (n. 4), il che è
vero solo per quanto riguarda i rapporti con l’Ortodossia; i monasteri
considerati come “scuole di preghiera” (nn. 17; 21; 36) o la
raccomandazione a condividere il frutto della meditazione sulla parola
di Dio (n. 19; art. 5, § 2), cose difficilmente realizzabili, e in ogni
caso discutibili, se si tiene conto della clausura. Non potevano mancare
i ricorrenti slogan di Papa Francesco: le “periferie” (n. 6);
l’“autoreferenzialità” (n. 29); la “mondanità” (n. 35); la “cultura
dello scarto” (n. 36). Chiedo: è davvero necessario che, in qualsiasi
contesto, debbano sempre venir fuori le medesime tematiche? Era proprio
cosí importante raccomandare alle monache di clausura: «Abbiate cura di
preservarvi “dalla malattia dell’autoreferenzialità”»? A parte il fatto
che non so che cosa capiranno (io, personalmente, faccio fatica); ma, in
fin dei conti, è un peccato tanto grave?
Nel documento si insiste molto — e giustamente — sulla formazione. Ma
anche qui lo si fa concedendo molto alle tendenze del momento: si parla
di “formazione permanente”, dentro la quale dovrebbe inserirsi la stessa
formazione iniziale (art. 3, § 1); di “formazione delle formatrici”
(art. 3, § 3); di partecipazione a “corsi di formazione” fuori del
monastero (art. 3, § 4); di case comuni di formazione (art. 3, § 7).
Cose che si fanno in tutti gli istituti, ma di cui si fa tuttora fatica a
scorgere la reale utilità.
Non saprei esprimere un giudizio sugli aspetti giuridici dell’autonomia e
delle federazioni. Per chi, come me, appartiene a un Ordine religioso
centralizzato non è facile capire quali siano i meccanismi giuridici che
regolano la vita dei monasteri. Certo, meraviglia che ciò che finora
era solo una possibilità sia ora diventato un obbligo. L’istruzione Verbi Sponsa affermava
chiaramente: «La scelta di aderirvi o meno [alle federazioni] dipende
dalla singola comunità, la cui libertà dev’essere rispettata» (n. 27);
adesso viene disposto: «Inizialmente tutti i monasteri dovranno far
parte di una federazione» (art. 9, § 1). Non so quale sia stato il
motivo che ha portato a questo cambiamento; suppongo si tratti della
situazione di molti monasteri che non riescono piú, per la scarsità
delle monache e per la loro età avanzata, a essere completamente
autonomi. Ma certo si tratta di una evoluzione che fa riflettere.
Nutro qualche perplessità a proposito della clausura. A parte il fatto
che nel documento si parla di quattro forme (n. 31: «La clausura è stata
codificata in quattro diverse forme e modalità [cf VC 59; can. 667]:
oltre a quella comune a tutti gli Istituti religiosi, ve ne sono tre
caratteristiche delle comunità di vita contemplativa, dette papale,
costituzionale e monastica»), mentre, nella conferenza di presentazione,
Mons. Carballo parla di tre («vengono ridefiniti i tre tipi di clausura
già contemplati in certo modo da Vita consacrata 59, cioè
clausura papale, costituzionale e monastica»), personalmente ritengo che
non sia corretto parlare, a proposito delle monache di clausura, né di
quattro né di tre forme di clausura: per loro esistono esclusivamente la
“clausura papale” e la “clausura costituzionale”; il loro unico punto
di riferimento è il § 3 del can. 667, dove appunto si parla di questi
due tipi di clausura. E in quel paragrafo viene enunciato anche il
criterio per l’adozione dell’uno o dell’altro tipo:
«I monasteri femminili ordinati interamente alla vita contemplativa, devono osservare la clausura papale, ossia regolata dalle norme stabilite dalla Sede Apostolica. Gli altri monasteri femminili osservino la clausura rispondente alla propria indole e definita nelle costituzioni».
Mi sembra che il testo sia sufficientemente chiaro: i monasteri interamente dediti alla vita contemplativa devono (si
noti, “devono”) osservare la clausura papale; gli altri (ossia quelli
che, accanto alla vita contemplativa, legittimamente esercitano qualche
attività apostolica) osserveranno la clausura costituzionale (cioè
definita nelle loro costituzioni). Mi lascia pertanto assai perplesso la
disposizione di Vultum Dei quaerere:
«Ogni monastero, dopo un serio discernimento e rispettando la propria tradizione e quanto esigono le Costituzioni, chieda alla Santa Sede quale forma di clausura vuole abbracciare, qualora si richieda una forma diversa da quella vigente» (art. 10, § 1).
Che significa “quale forma di clausura vuole abbracciare”? Il criterio
non è la “volontà” soggettiva del monastero (ciò che in questo momento
piace alle monache), ma la sua fisionomia oggettiva (se cioè il
monastero è esclusivamente dedito alla contemplazione o se invece si
dedica anche a qualche forma di apostolato). È ovvio che c’è sempre la
possibilità di cambiare; ma si può cambiare solo perché cambia la
fisionomia del monastero, non perché cambiano i gusti delle monache.
Questo mi sembra che sia il punto piú debole del documento, che
d’altronde riflette una mentalità oggi piuttosto diffusa nella vita
religiosa (e se ne possono constatare le conseguenze...): siamo noi che
dobbiamo “inventare” la nostra vita religiosa, dimenticando che essa è
innanzi tutto un dono che riceviamo e al quale dobbiamo semplicemente
adeguarci. Tale mentalità si manifesta in un altro elemento ricorrente
nella costituzione apostolica: l’adozione, anche per i monasteri di
clausura, del “progetto comunitario” (art. 3, § 1; art. 6, § 1; art. 7, §
2; art. 13). A quanto mi risulta, finora i documenti della Santa Sede
sulla vita religiosa non ne avevano mai parlato (ho trovato un fugace
accenno solo ne La vita fraterna in comunità,
n. 32); ma negli istituti religiosi è una pratica che ha avuto una
larga diffusione negli ultimi decenni (penso che l’origine sia l’America
Latina). Il progetto comunitario è stato presentato come uno strumento
di rivitalizzazione delle comunità, praticamente come una panacea a
tutti i mali della vita religiosa. Nella mia Congregazione fu adottato
dal Capitolo generale del 1988 e poi si è trascinato fino a nostri
giorni diventando una pratica burocratica come tante altre (il Superiore
che all’inizio di ogni anno manda al Provinciale il progetto
comunitario, riducendosi a fare uso del “copia e incolla”). Ma ciò che è
sbagliato è la mentalità che c’è dietro: l’idea che ogni anno la
comunità debba “reinventare” la propria vita religiosa, come se il
vangelo, il diritto canonico e le costituzioni non bastassero. Ora si
vuole che anche i monasteri di clausura si adeguino a una pratica di
cui, sinceramente, finora non s’è visto alcun frutto nelle altre
comunità religiose. Quand’è che riusciremo a liberarci dalle categorie
della progettualità, della creatività, della fantasia, dell’invenzione
(non sono forse altrettante forme di “autoreferenzialità”?), che hanno
arrecato non pochi danni alla vita religiosa, e impareremo ad accogliere
e a conformarci a un progetto che ci precede, un progetto che non è
nostro, ma ci è stato dato da Dio, dalla Chiesa, dai nostri fondatori?
Q
Nessun commento:
Posta un commento