Sono lieta di poter pubblicare nell'originale italiano, per gentile concessione dell'Autore, questo articolo del Prof. Pietro De Marco, sociologo della religione che si distingue per la sua onestà intellettuale [
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apparso in francese sul n.116/Settembre 2012 della Rivista di riflessione politica e religiosa
Catholica. Ovviamente il taglio è storico-sociologico, ma rende ragione di molte implicazioni riverberatesi sulla teologia sull'ecclesiologia e dunque sulla corrispondente pastorale, sviluppatesi nel post-concilio, che più specificamente appartengono alle nostre riflessioni e analisi. Esse non possono che arricchirsi e acquistare maggior spessore dall'approfondimento degli scenari, dei soggetti e dei metodi che hanno impresso alla Chiesa del nostro tempo le mutazioni che viviamo con sofferente attenzione e consapevolezza.
Il lavoro prende in esame e sviluppa un dato rimarchevole, a più riprese
sottolineato da Bernard Dumont, lo studioso Direttore della Rivista:
« la singolarità di un'Assemblea conciliare svoltasi nel momento in cui i mezzi di comunicazione di massa e della manipolazione dell'opinione pubblica hanno oltrepassato una soglia completamente nuova, punto di convergenza tra una propaganda montata ad arte e la comparsa di nuovi strumenti tecnologici. Lungi dal diffidarne, gli attori del concilio (curia romana, vescovi, assistenti teologi, e, primo fra tutti, Giovanni XXIII), per incomprensione o compiacenza, sono entrati in questo ingranaggio, trasformando solo per questo le condizioni di una riflessione ecclesiale realmente autonoma ». Senza dimenticare che « senza dubbio in ragione dei legami mantenuti tra i diversi focolai ideologici e i centri di diffusione extra-ecclesiali, l’impressione dominante è quella di una sorta di imprigionamento della vita ecclesiale in strutture complesse delle quali appare ancora difficilissimo liberarsi. Tutto ciò ha funzionato in simbiosi con il mondo profano, in un permanente intreccio tra l'espressione delle sue esigenze e gli inviti interni ad allinearsi su di esse ».
La mia osservazione di massima è che il cosiddetto
spirito del concilio, visto come
paradigma esterno - che pure esiste, ha operato e opera tuttora - ha le proprie sorgenti,
in nuce o già evidenti, in alcuni punti già quasi tutti individuati dei documenti conciliari: e dunque all'interno del Concilio stesso, sia pure non nella sua totalità. Basta consultare i testi inseriti nella colonna in alto a destra del Blog, i documenti evidenziati e le relazioni del Convegno di Roma del 2010, anch'essi linkabili dalla colonna di destra del blog. Per non parlare degli studi e dei libri di Mons. Gherardini, alcuni stralci dei quali già presenti nel blog -che saranno presto incrementati-, rintracciabili digitando la parola-chiave Gherardini nella stringa della "ricerca".
Lo spirito del concilio è un « paradigma esterno » che si è costruito nei media e in certi ripetitori d’opinione come l’Istituto delle scienze religiose di Bologna. Esso si perpetua ma s'insabbia mentre nel popolo italiano sussiste un fondo religioso su cui esso non ha mai avuto presa reale.[Su quest'ultimo punto mi pare possano esprimersi perplessità]
[L'Autore si rivolge alle osservazioni del Prof. Dumont] Comincerei dalle premesse. Quello che Lei sottolinea, ovvero la presa dei media e dell’opinione pubblica sul Concilio nell’intero arco del suo svolgimento (e già prima), è anche a mio parere non solo un dato che nessuna ricostruzione storica (e socio-storica) può sottovalutare, ma anche una componente, una dimensione, della sua ermeneutica. In certo modo lo è già: il Concilio oltre il Concilio, fuori dell’aula e dei palazzi vaticani e romani dove hanno vissuto e operato i Padri conciliari, viene invocato dalla storiografia antiromana o ‘modernistica’ come la prova della sua immediata appartenenza/consentaneità positiva al mondo. Anche prodotti della ‘scuola bolognese’, come
L’altra Roma. Politica e S. Sede durante il Concilio Vaticano II 1959-1965 di Alberto Melloni, Il Mulino, Bologna, 2000, nel ricostruire l’attenzione delle ambasciate e delle cancellerie agli eventi romani, sottolineano l’appartenenza del Concilio ‘alla storia’. Nulla di nuovo in questo se non vi fosse implicito un paradosso: il rilievo del rapporto concilio-storia risiederebbe nell’influenza in sé positiva della storia, del mondo, sul Concilio (un Concilio ‘aperto’), non viceversa. Non va dimenticato che, per una serie di equivoci teoretici (nella stessa dottrina della
consecratio mundi) e di fortunate formule (l’autonomia delle realtà terrene, anzitutto), il mondo come mondo storico anzitutto (ma il significato di ‘mondo’ nella pubblicistica teologica è altamente equivoco), negli anni Sessanta è diffusamente considerato portatore, in sé e per sé, di valore e di verità. Così il mondo penetra e co-opera in un Concilio aperto, nonostante le resistenze di ‘settori’ della Chiesa e partiti di Curia.
Ma, indipendentemente dalla interpretazione teologico-fondamentale ed ecclesiologica data dalla pubblicistica ‘modernista’, il fatto della osmosi tra Concilio e spazi pubblici europei e mondiali è decisivo per l’ermeneutica del Concilio perché costruisce e divulga all’esterno, spesso con anticipo e indipendentemente dalle risoluzioni conciliari, l’immagine del suo significato. Ho in mente quello che amo chiamare lo scalino che si definisce stabilmente dal 1962 al 1965 tra intentio e contenuto dei diversi documenti, da un lato, e recezione pubblica. Nella recezione interpretativa operano congiuntamente (si ‘compongono’ come due forze) la ordinaria selezione giornalistica della notizia, di ciò che negli accadimenti è ‘notizia’ per un giornalista, e il lavoro capillare di ciò che Lei chiama i ‘foyers ideologici e i centri di diffusione’ anzitutto intraecclesali (la costellazione dei ‘vaticanisti’ e giornalisti religiosi cattolici, speso prestigiosi) e, di concerto, extra-ecclesiali. Ciò che è giornalisticamente notizia dal Concilio si colora e si qualifica attraverso l’opera del giornalismo religioso, specializzato. (Una ricerca ancora da condurre, con buon metodo sociologico, per campioni, data l’estensione del materiale.)
Ma ciò che conta, per noi, è che il paradigma esterno che si costruisce, si diffonde e si affina nella mediasfera, e si consolida e guadagna nuovamente livelli superiori di riflessione (dall’articolo e la conferenza al saggio di rivista specialistica al libro), già nei lunghi intervalli tra i ‘periodi’. Il paradigma esterno, prodotto per il ‘mondo’ (per dire così) e per effetto del ‘mondo’, diviene un vero e proprio canone interpretativo del corpus conciliare, e ognuno dei foyers internazionali, spesso in concorrenza tra loro, tenderà a darne la propria versione. Dico in concorrenza, perché ad esempio tra il lavoro di I-doc Internazionale e l’allora ‘Centro di Documentazione’, o l’ambiente fiorentino della rivista ‘Testimonianze’, non vi sono rapporti se non superficiali o strumentali (occasionali alleanze). Ma l’ambiente di ‘Testimonianze’ è in sintonia col giornalismo e la pubblicistica conciliare (da Gozzini a La Valle a Citterich). Mentre il CdD vede Bologna in rapporto con molti centri di studio, istituzioni ecclesiastiche, con l’intelligencija di prestigiosi monasteri europei. I-doc ha prevalentemente cultura sociologica e una proiezione latinoamericana, sull’America di Medellin. Sottolineo en passant quanto potrà offrirci per la comprensione del post-concilio la ricostruzione storica della sociologia cattolica prodotta ed insegnata da ecclesiastici – coerente sostituto o parametro ‘modernista’ della teologia, dato il primato del mondo - entro e fuori le facoltà teologiche; cosa sia stata e come abbia operato.
Ma, anche quando i foyers si saranno estinti o trasformati e arroccati in posizione difensiva, il paradigma esterno, resosi autonomo, prosegue (o si afferma lentamente, magari moderandosi) nella letteratura teologica come nei periodici popolari, nella predicazione come nelle thèses di dottorato della Facoltà. Coincide sostanzialmente con ciò che viene invocato come “spirito del Concilio”; la coincidenza è rivelatrice poiché, come la nozione (o il lessico) dello ‘spirito’ evoca una distinzione-opposizione con la ‘lettera’ (lo ‘spirito’ precede la lettera, la ‘anima’, le sopravvive: così vogliono i luoghi comuni), così in effetti il paradigma esterno sceglie, subito, entro la ‘lettera’ del corpus conciliare ciò che serve alla propria formulazione e affermazione, è canone a se stesso, si perpetua (e si estenua) come una traditio chiusa. È nota la terminologia, tipicamente italiana, che giustificherà il consolidamento (in saggi, convegni, grandi opere) del paradigma generato sui bordi mediatici del Concilio: si trattava di discernere, separare dal resto, elaborare nelle loro conseguenze, le ‘parti traenti’ o ‘portanti’ del Concilio, sia depositate in enunciati (comunque da vagliare e purificare dal peso del compromessi prodotti nelle commissioni) sia postulate come intentio patrum.
Non voglio insistere su questo punto (che è un mio tema di studio e che richiede studio); ma una conseguenza mi pare evidente, e stringente per la Chiesa, oggi. Il
paradigma esterno,
- costituito nel dettato conciliare a partire da una selezione pregiudiziale di testi e di significati (quest’ultima selezione – ‘ciò che il Concilio sarà e dovrà essere’ - precede gli stessi lavori del Concilio), e
- sviluppato in ambienti peri-conciliari, e forme mediatiche (quelle di allora), determina dopo cinquant’anni, indebolito e spesso banalizzato o, per dirla à la Bauman, allo stato liquido, la recezione diffusa, ‘modale’, del Vaticano II.
Nella sua geometria variabile assume la forma polemica dei gruppi di base, quella velata, nicodemitica, della maggior parte dei libri dotti, la cantilena, il cant, dei linguaggi ‘ecclesiali’. Il Centro, cioè Roma, alcuni episcopati, alcuni ambienti teologici ed ecclesiastici, ne sono sempre stati o se ne rendono, se ne vogliono, liberi. Non senza difficoltà e contraddizioni. Ma il lavoro, immane, di risalire lo scalino che separò il
paradigma esterno e la sua ufficializzazione mondana, dall’aula conciliare, per rientrare nella
mens dei Padri e nel significato autentico dei testi, è in gran parte da compiere.
Nell’azzardare le cose dette ho di fatto risposto già alla prima domanda. Può interessare un lettore francese, ma anche un italiano ormai (in virtù dell’oblio che cala sugli eventi), qualche ricordo e valutazione sull’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, il suo lancement, il lavoro intellettuale e di studio che vi si svolgeva, tra il 1964 e i primi anni Settanta. Non sono un buon conoscitore della vicenda della diocesi di Bologna nell’età di Lercaro; non sembri un paradosso, dato che ho frequentato la città e la chiesa bolognese negli anni del prestigio e della fine dell’episcopato. Ma il Centro di Documentazione era un ambiente di studio molto assorbente e relativamente autosufficiente. La maggioranza dei borsisti non era bolognese; io tornavo a Firenze il sabato. Ma molto di più contava il genere di studio; allora prevalentemente storiografico (con asse sul Concilio di Trento, l’età tridentina, s.Carlo Borromeo e questioni contestuali, preriforma, riforma protestante, riforma cattolica). Il nume tutelare era Hubert Jedin, ma anche Delio. L’ambiente monastico di Monteveglio, attorno a Giuseppe Dossetti, contribuiva, e vi era osmosi col nostro lavoro, agli studi patristici e storico-liturgici). La costellazione italiana ed europea di amici e colleghi era costituita prevalentemente da storici (della teologia, della chiesa), dai patrologi ai contemporaneisti. In sé, e salvo eccezioni (l’impegno di singoli), il lavoro sistematico del Centro non era destinato alla chiesa bolognese, né commissionato da questa. Gli stretti rapporti erano personali e riservati ai bolognesi (Alberigo, Prodi). Inoltre, Giuseppe Alberigo aveva dell’Istituto una visione moderna e ambiziosa; non una supplenza alle ‘carenze’ (reali o presunte) italiane ma una ricerca di livello immediatamente internazionale, secondo le richieste che alle scienze religiose venivano (o si riteneva che venissero) dalla chiesa universale. Vi era come il disegno di opporre la formula del Centro a quella delle Facoltà ecclesiastiche, anzitutto delle teologiche romane ma non solo; una competizione in programmi di formazione, in dotazione di libri, in temi e metodi di ricerca, e la convinzione di non essere inferiori a nessuno dei centri europei (francesi, belgi, tedeschi) ove si faceva teologia. Per parafrasare il titolo di un libro famoso di Eugenio Garin (La filosofia come sapere storico) allora concepivamo la teologia come ‘sapere storico’ e, praticando il sapere storico, ci sentivamo più avanti delle Facoltà teologiche, con i loro insegnamenti manualistici e dottrinali. la formazione dei giovani studiosi si completava, comunque, presso un maestro europeo. Il cemento, per dire così, del gruppo era certamente quello della riforma della chiesa, ma con distacco rispetto alle forme del ‘dissenso’ cattolico degli anni postconciliari, in genere con le forme militanti. La ‘chiesa dei poveri’ (Lercaro) doveva edificarsi dalla sua riforma in capite et membris, non dalla effervescenza sociale e ideologica, allora accentuatamente a sinistra. Non va dimenticata la distanza che separava l’ideologia del Centro dalla tradizione del cattolicesimo politico, ‘popolare’ e, in genere, dalla cultura del cosiddetto ‘movimento cattolico’ e del laicato di azione cattolica (che allora erano, anche storiograficamente, ignorati). La frattura nella vita di Dossetti operava da paradigma storiografico.
Queste caratteristiche (che, ripeto, riguardano – quelle storiografiche in particolare – i secondi anni Sessanta, poco più) mi permettono di aggiungere qualcosa alla tipologia dei centri promotori del paradigma ‘dinamico’ del Concilio e del suo ‘spirito’. L’istituto, come altri in Europa, si presentava come portatore di una rinnovata ma rigorosa ortodossia. Se volessi individuare delle componenti ‘modernistiche’, ovvero delle espressioni di quella latenza modernistica cattolica che circola nel Novecento e si avvale dello ‘spirito’ del Concilio (in sé, il Concilio, estraneo al Modernismo storico) per riaffermarsi – penserei ad alcuni intellettuali e studiosi miei coetanei, che abbandonarono presto il Centro e nei quali la componente antiromana, antidogmatica, ‘critica’ e spiritualistica ha poi prevalso. E, azzardo, i componenti attuali dell’ISR sono probabilmente più vicini al paradigma ‘critico’ e antiromano, antidogmatico e spiritualistico, di quanto non fosse la generazione dei maestri. Il lancement e il successo (si è parlato di ‘egemonia’) del Centro/Istituto dipesero, nella logica delle cose dette, nell’aver dato forma dotta a quello che chiamo il paradigma esterno, tentando di mostrare, con piena convinzione e conforto di altre intelligenze (è il senso della vasta e documentata Storia del Concilio Vaticano II), che esso era in realtà fondato nella storia interna e nei testi del Concilio stesso. Insomma il prestigio del Centro/Istituto è derivato da un lavoro da intellettuale ‘organico’ e ‘ortodosso’ rivolto ad un esteso ‘movimento’ (e sentimento, presente anche nelle gerarchie) ‘conciliare’ militante. Espressione dotta, tra le più agguerrite, del paradigma esterno l’Istituto è oggi eccentrico alla profonda discussione e revisione del paradigma ‘conciliare’ (e delle sue applicazioni) che si è aperta nella Chiesa di Benedetto XVI. Il paradigma ‘conciliare’ è in piena involuzione; palese il suo degrado polemico, la sua banalizzazione e impoverimento, e la incapacità dei suoi ‘custodi’ di opporsi a questo processo. Il lavoro (storiografico) del Centro è utile come - e nei limiti - di ogni lavoro accademico, ma nonostante la sua ‘politicità’ è più organico a niente. L’assenza di formazione teologica (non quella, pretesa, post-teologica), la persistenza di un ‘uso politico’ (ecclesiastico) della storia e la vis antiromana, non danno alle sue intelligenze la possibilità, né scientifica né pratica, di ritornare al centro della riflessione cattolica. Rebus sic stantibus.
Con la Sua terza domanda cambiamo scenario. Ovvero guardiamo a quel ‘contesto’ odierno di cui i foyers intellettuali protagonisti della stagione postconciliare non hanno più il polso. Il quadro ecclesiastico-ecclesiale, l’ecclesiosfera italiana, ha conosciuto un mutamento di rotta significativo con il papato di Giovanni Paolo II (considero molto appropriata la metafora di papa Wojtyla come timoniere). Il papa ha dato forza, con l’energia di combattente ma ancor più con la forza del suo carisma, alla opposizione romana e curiale contro l’affermarsi ideologico e prendere corpo istituzionale dello ‘spirito del Concilio’. Chi depreca (e consento sull’essenziale) l’involuzione della riforma liturgica nelle sue forme ordinarie dimentica, o non ha avuto esperienza, di ciò che la ‘realizzazione del Concilio nella vita della fede delle comunità cristiane’ stava preparando almeno nei progetti ‘riformatori’. Dal soggettivismo liturgico alla teologia in situazione alla democratizzazione di diocesi e parrocchie al sacerdozio indifferenziato, tutto mascherato e solo alluso sotto i paludamenti del verbiage post-conciliare. La fine degli anni Settanta (come clima diffuso, effervescenza, coinè ideologica) ha favorito l’opera di riparazione e ricostruzione di Roma. I cattolici italiani hanno appreso nuovamente a) la legittimità (anzi doverosità) della loro presenza pubblica ‘come cattolici’, non come imitatori altrui, e della forma positiva, istituita, della fede e della chiesa; b) il diretto ruolo di guida della gerarchia in materia di fede e di morale. Nell’arco degli anni Ottanta la mediazione (tra cattolici e gerarchia) esercitata dal cattolicesimo politico (la DC) e il ruolo guida dell’intelligencija conciliare sulle ‘comunità’ e sulle culture cattoliche si sono indebolite, per ragioni diverse ma con effetti complementari. Con la cd. fine della Prima repubblica (1993-94) il governo della CEI prende in mano il possibile disorientamento cattolico (i cattolici, dai variamente praticanti ai non praticanti, sono la maggioranza del paese), non si affianca alle minoranze ‘popolari’ (resti della classe politica DC) nell’opposizione radicale e moralistica alla nuova formazione guidata da Silvio Berlusconi. Gli spostamenti dell’elettorato già democristiano (e già socialista ‘riformista’) verso una nuova formazione di centrodestra chiede alla chiesa di seguire con attenzione la conversione politica del suo ‘popolo’. La costellazione conflittuale delle forme cattoliche pubbliche di esistenza e azione, religiosa e politica, dopo il 1993-94 non poteva che essere guidata dalla lucidità di sguardo di un uomo di chiesa. Non supplenza contingente, ma ritorno esplicito ad una funzione della gerarchia, necessaria e sempre praticata a partire dal consolidamento dello stato liberale (comunque ‘laico’ continentale). La maggioranza cattolica, che vive spesso ai margini delle parrocchie (anche per le responsabilità di una pastorale pensata per ristrette comunità ‘conciliari’), esige oggi una alimentazione cattolica di principi e valori dal centro della ecclesiosfera.
Se questo è vero (la concomitanza di due timonieri, uno per la chiesa universale, l’altro per quella italiana) perché l’immagine statica che Lei, da conoscitore delle cose italiane, può farsi della nostra situazione? Cerco una approssimazione alla risposta.
L’episcopato italiano è diviso, anche se non in termini conflittuali. L’azione ‘politica’ del Cardinale (con scherzosa ammirazione Ruini venne chiamato qualche volta, ad esempio dopo la vittoria nel referendum sulla procreazione assistita, Mazarin) è stata più subìta che capita o approvata. Inoltre, se la condizione minoritaria della Chiesa attrae, quella maggioritaria, più realistica, pesa ma si impone. Un vescovo in Italia è ancora la guida religiosa di una popolazione, purché lo voglia. Operare e decidere pastoralmente rivolgendosi contemporaneamente a tipi di credenti diversissimi (per ceto, cultura, religiosità e intensità di pratica, posizione politica) è complicato, e anche il clero ha risposte, condotte e opinioni molto diverse; spesso lavora per proprio conto, con le proprie convinzioni, nell’isolamento della parrocchia, al massimo di un vicariato.
Poco giunge, all’osservatore esterno, di questo lavoro dei cleri diocesani, lavoro non esibito e contradditorio: tra istanze di evangelizzazione, rispetto della laicità e del pluralismo, bioetica pubblica e emergenze sociali, elevata fiducia nella chiesa da parte della ‘gente’ e crescita degli indici di socializzazione, persistenze ‘progressiste’ e novità ‘tradizionalistiche’. In più, i vescovi si sanno sotto gli occhi di Roma. L’immobilité très majoritaire che Lei osserva è forse solo apparenza; i bisogni di una ‘chiesa di popolo’ divisa, le molte ‘emergenze’ collettive, i numerosi avversari pubblici (la sfida anticlericale è costante contro Roma e contro la CEI) inducono molta Chiesa italiana ad operare ‘coperta’ e nell’incertezza. Non escludo, naturalmente, anche delle sorde resistenze: la lezione dei due ultimi pontificati, in controtendenza rispetto al paradigma ‘conciliare’ divulgato dall’intelligencija, è difficile da assimilarsi e per qualche vescovo, e parte del clero e del laicato ‘qualificato’, indigeribile.
Da questa considerazione mi è comodo anticipare la risposta alla Sua quinta domanda. Lei troverebbe comunque una conferma, da quanto ho appena detto, alla Sua diagnosi di una chiesa come ‘società bloccata’, di una pesanteur che ostacola la ‘libertà interiore’ entro la chiesa. Un ‘modernista’ ma anche uno ‘spiritualista’ lévinasiano potrebbe consentire, salvo rendersi conto dopo un attimo di divergere su tutto (chi generi il blocco e di cosa; cosa e di chi sia libertà interiore di cui si parla ecc.). Credo di capire, e su questo consento fortemente, che la libertà interiore impedita sia oggi, anzitutto, quella dei simpliciores che allo ‘spirito del Concilio’ hanno preferito la secolare, seppur aggiornata, formazione cattolica, catechistica e spirituale, devozionale e morale; ma anche, e più esplicitamente, la libertà degli oppositori dòtti, sacerdoti e laici, teologi e spirituali, al dominio di quello ‘spirito’ e del suo paradigma.
Il caso italiano, con la sua chiesa di popolo, è un buon luogo di verifica. Persiste un ‘popolo cattolico’ valutabile, a seconda della estensività dei criteri socio-religiosi di cattolicità, tra il 60% e l’80% e oltre, della popolazione, dunque molto più esteso rispetto al mondo dei praticanti regolari, e differenziato per modelli di religiosità, per grado di appartenenza e di conformità etica all’insegnamento della Chiesa. Questo popolo non ‘virtuoso’ sembra sovente più respinto che attratto dalle remote come dalle recenti ‘applicazioni’ del Concilio (dall’architettura sacra alle liturgie allo stile religioso dei parroci); in più non è aiutato, non nel tessuto delle parrocchie, a seguire con libertà le sue propensioni rituali, devozionali, intellettuali. Ma per lui la possibilità di trovare ambienti ospitali è altrettanto ampia, specialmente negli ordini religiosi. Il mondo francescano non è solo Assisi, ma è anche Medjugorie. Si tratta della nota ‘offerta’ differenziata del cattolicesimo, della sua complexio oppositorum, che lo ‘spirito del concilio’ rigorista non è riuscito ad estinguere, fermato (delegittimato) in questo anzitutto dal pontificato di Giovanni Paolo II, dalla sua passione mariana, dai suoi nuovi santi, la cui numerosità e varietà costituisce il paradigma di tutto ciò che è cattolicamente possibile venerare e imitare.
Questo può non bastare alla Sua (e mia) preoccupazione: vi è qualcosa come un
ius sactorum che possa proteggere il semplice credente dagli oltranzismi ‘conciliari’ di un parroco, di un giornalista, di un predicatore? No; per lo ‘spirito del Concilio’ i santi, espulsi dalle nuove chiese, non sono un paradigma, non vincolano più la chiesa. La mia prognosi (fausta) guarda, però, al clima intellettuale e spirituale di una ‘nuova serietà’ cattolica in formazione, in grado di contrastare sul suo terreno quello che Lei vede come “une sorte d’
establishment assurant la paralysie de l’institution ecclésiale italienne”.
Recentemente le critiche di Antonio Livi a Enzo Bianchi (priore della comunità di Bose) hanno prodotto o ospitato una violenta censura a Antonio Livi, poi a Sandro Magister, da parte di Avvenire e di Iesus, rispettivamente. Reazioni nervose e offensive che, però, non dichiarano la forza di un establishment ma il suo declino.
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