“Quando eravamo femmine”.
Il nuovo libro
di Costanza Miriano
Ho avuto una grossa difficoltà nello scrivere Quando eravamo femmine. Cioè una in più oltre a quelle solite – la casa gelata di notte, i colpi di sonno tra l’una e le due, la fame atavica verso le tre, la difficoltà nell’approvvigionamento notturno di beni atti a fornire le condizioni minime alla scrittura, quali il chococaviar Venchi, il salame e la Coca light. La difficoltà aggiuntiva di questo libro è stata che io avrei voluto raccontare tutta la sorellanza che ho scoperto da quando le persone che conosco e incontro sono aumentate di circa mille volte rispetto ai tempi in cui avevo un numero di amici normali (i tempi in cui nella mia rubrica i nomi erano salvati come Elisabetta, Luca, Giovanni e non Crisitinagenovamammadicinque o Ericareliquiamilano o Federicachiesanuova).
Avrei voluto raccontare parte della bellezza conosciuta praticamente in tutta Italia, da Catania a Rovereto (o Pinerolo? È più a nord?), ma era troppa, troppa roba, e troppo pochi i neuroni rimasti liberi dopo le giornate trascorse a lavorare, a star dietro ai figli, a fare tutte le cose che noi mamme sappiamo bene e che tutte facciamo, mettendoci insieme però anche un’esagerazione di mail messaggi telefonate. E così tante sere sono finite in un nulla di fatto, a contemplare lo schermo – rigorosamente bianco – e poi a dormire sfinita con lo sterno sul tavolo e lo spigolo del tavolo in fronte.
Ecco, non so cosa ne sia venuto fuori, sono ancora troppo vicina alla tela: devo allontanarmene per vedere da lontano l’effetto che fa. Il desiderio era quello di scrivere un libro corale che facesse parlare insieme alla mia le voci di tante donne ascoltate, incontrate, conosciute. Non ne ho raccontate le storie perché spesso sono vicende appena adombrate, vagamente intuite, solo accennate. Quello che spero di avere riportato è il timbro di tante voci che non si riconoscono nei modelli di donna oggi prevalenti, e che qui ho cercato di raccontare alle mie bambine.
Ogni donna ha bisogno di una sguardo che la definisca: qualcuno che le dica che è bella. Ma quello che definisce ogni donna non è la risposta alla domanda (“quanto sono bella, io?”), quanto piuttosto la nostra scelta: chi vogliamo che risponda a quella domanda? Chi vogliamo che ci dica che siamo belle? In fondo, nella più intima verità di noi stesse, quello che ci definisce è “a chi voglio piacere io?”. Ognuna di noi vuole piacere a qualcuno, anche quelle apparentemente più autonome, perché l’indipendenza è un’illusione (io manco ci provo, a fare finta). Quindi, ripeto, a chi voglio piacere io?
Quello che ho sperimentato è che quando la mia risposta è “a Dio”, quando chiedo al Signore di restituirmi lo sguardo di amore che desidero sono più piena, più felice, dipendo di meno dagli altri e riesco ad amarli in modo più libero, non come chi si aggrappa, ma come chi si apre generosamente, perché sa che la sua pienezza non è messa in crisi da niente.
Siamo complicate, ogni tanto la nostra complicazione prende il comando.
Talora sbarelliamo, è vero, sono pronta ad ammetterlo serenamente.
Altre volte produciamo pensieri inconsulti, e, certo, pochi minuti prima saremmo state pronte a giurare, sinceramente, che noi non saremmo mai state capaci di pensieri tanto folli, di parole tanto meschine, di azioni tanto irragionevoli. Eppure dieci minuti dopo le abbiamo fatte. Il fatto è che siamo piene di contraddizioni. Come tutti gli esseri umani, ma un po’ più dei maschi. Un maschio se vuole ti asfalta. Una femmina cerca di diventare la tua miglior nemica.
La soluzione non è scandalizzarci delle nostre contraddizioni, tanto non serve a niente. Non serve neppure dire “io non cambierò mai”, perché è vero, non cambieremo mai. Non da sole. La soluzione è ricomporre le nostre contraddizioni appoggiandole in Dio. Maria è la donna della contraddizione ricomposta. È lui che pareggia i conti col nostro cuore ferito, deluso, in attesa. Per questo per noi donne, soprattutto da una certa età in poi, è fondamentale mettere in moto una vita spirituale che ci protegga da noi stesse, dal dolore, che ci renda feconde davvero, che ci renda capaci di far vivere tutti quelli che ci sono affidati.
Secondo me le donne non diventano sacerdoti perché il sacerdozio a cui sono chiamate è quello del cuore: offrire ogni giorno sull’altare il nostro cuore stanco, imparare a ballare il ballo dell’obbedienza nel quotidiano, imparare a dire i sì di cui hanno bisogno tutti quelli che possiamo chiamare alla vita, ma a dirli con il sorriso e con la gioia di chi sa di essere piena e totalmente amata.
Quando questa pienezza ci manca non è colpa degli uomini cattivi, né del lavoro nel quale ci verrebbe impedito di realizzarci: è che l’abbiamo cercata nel posto sbagliato. In questo libro provo anche a ragionare con le mie bambine su parecchie bugie che ci hanno detto sulla liberazione sessuale, sul lavoro, sull’accoglienza alla vita. Bugie che ci hanno lasciate più sole e più tristi di prima. Ovviamente non possono mancare consigli fondamentali quali quelli sull’assoluta necessità di stendere dei punti luce sugli zigomi (c’è anche un patetico tentativo di dare una valenza spirituale alla stesura del primer prima del fondotinta).
È il tempo di tornare regine, di riprendere il nostro ruolo altissimo: noi siamo quelle che danno la vita, biologica e non. Noi siamo quelle che aiutano la vita quando è più debole. Noi siamo quelle che stabiliscono che timbro ha la vita di un’epoca, di un paese intero. Questo è il meglio della nostra vocazione, e da un certo punto della nostra storia abbiamo avuto un po’ troppa fretta di dimenticarcene. Forse non ci siamo rese conto di quanto abbiamo perso noi, e di quanto rischiamo di far perdere a quelli che dipendono da noi, perché intorno a una donna realizzata e felice la vita fiorisce, mentre intorno a una donna che lascia il controllo alla pazza di casa la morte trionfa. Ecco, questo vorrei spiegare alle mie bambine, questo, soprattutto, ho imparato da tante donne veramente feconde – che siano madri o no – incontrate in tutta Italia (e ormai anche fuori), donne unite da una profonda sorellanza. Donne spesso silenziose agli occhi del mondo e unite da una compagnia lieta, forte, capace di alleanza e generosità, con cui incoraggiarsi le une con le altre quando il ballo dell’obbedienza si fa stanco, i piedi incespicano per la stanchezza, gli occhi si chiudono o si annebbiano dal pianto. Donne capaci, quando serve, anche di dirsi qualcosa di veramente scomodo. “Hai la pelle mista, ma ti voglio bene lo stesso”.
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