LA PASTORALE DELLA CHIESA,
QUANDO NON È PIÙ AL SERVIZIO DEL
PROGETTO DI DIO,
In discorsi di questo tipo, dicevo, di teologia non c’è quasi più nulla e di retorica ce n’è fin troppa. Autore di questo brano è l’uruguaiano Charriquiry, segretario della Pontificia commissione per l’America Latina; egli vive in Vaticano da tanti anni e dovrebbe avere qualche cognizione teologica: eppure, come si è visto, non esita a manipolare alcune nozioni che per il credente hanno un significato soprannaturale ben preciso (“Spirito di Dio”, “popolo di Dio”, “sensus fidei”), riducendole a espressioni socio-culturali che hanno un qualche interesse solo in un contesto ideologico di tipo populistico.
Il Regno di Dio
non può essere confuso con una qualsiasi utopia mondana, anzi la esclude proprio.
Per questo diciamo che non è buona pastorale quella che si rivolge ai cristiani
di oggi con prospettive di impegno del tutto contrarie a quelle che i cristiani
di ogni tempo hanno ricavato dagli insegnamenti e dai precetti degli Apostoli:
FINISCE PER SERVIRE UN QUALSIASI
PROGETTO UMANO
Antonio Livi
Negli ultimi
tempi, la pastorale della Chiesa cattolica - a tutti i livelli: dal sommo
Pontefice agli operatori della pastorale “di strada” - appare guidata dal convincimento che la
Chiesa debba proporsi al “mondo” vincendo le sue diffidenze con l’esplicita accettazione
di tutte le sue critiche teoriche e di tutte le sue alternative pratiche. Tale convincimento
induce i Pastori a promettere al mondo l’imminente avvento di una Chiesa tutta
nuova, priva ormai di quegli elementi negativi che la rendevano incomprensibile
e inaccettabile. La Chiesa infatti avrebbe smesso di rifarsi a un modello
tradizionale di pensiero (il dogma) e di azione (la pastorale) e sarebbe stata
capace di «re-inventarsi», come si suole dire. Il mondo avrebbe finalmente
visto nella Chiesa qualcosa di assolutamente “nuovo”, qualcosa di diverso
rispetto a tutta la sua tradizione dottrinale e istituzionale; e questo perché avrebbe
avuto il coraggio di una profonda autocritica (ritenendo evidentemente legittime
e giuste la critiche che da secoli gli rivolge il “mondo”), in base alla quale
avrebbe avviato una radicale riforma di se stessa.
Il primo effetto
di questa volontà di riforma è l’adozione di un nuovo linguaggio: per
dimostrare al mondo che la vecchia Chiesa, da esso giustamente respinta, non
c’è più e che al suo posto ce n’è una nuova, in ogni momento dell’azione
pastorale occorre dismettere definitivamente il linguaggio dei dogmi e delle
leggi canoniche, e cominciare a parlare con il medesimo linguaggio con cui i maîtres à penser dell’Occidente
tecnologico e secolarizzato esprimono la loro opzione per un “pensiero debole” e
i leaders della politica mondiale esprimono
l’accordo globalizzato sulla “political correctness”.
Questo
linguaggio, volutamente ambiguo, predilige come mezzo espressivo le metafore, e
come orizzonte di senso le utopie. Le metafore – che, come dice l’etimologia
stessa, portano il pensiero da una realtà all’altra - hanno una qualche utilità
comunicativa quando ai ricettori del messaggio risulta chiaro da quale realtà
si parte e a quale realtà si vuole giungere. Ma il linguaggio dei pensatori più
influenti dell’Occidente (pensiamo a Martin Heidegger), affine a quello dei
politici di ogni schieramento, nasconde intenzionalmente sia i presupposti che
le finalità del proprio discorso. E anche l’utopia – che, come dice
l’etimologia stessa, vagheggia una società immaginaria “che non può esistere in
alcuna parte” – è lo strumento retorico di cui si servono oggi tutti i leaders della politica mondiale quando
debbono guadagnarsi il consenso delle masse per i loro progetti di riforma, rievocando
di volta in volta la “pace perpetua” di Kant, oppure la “società senza classi”
di Marx, la “fine della storia” di Francis Fukuyama, il “nuovo ordine mondiale” di Gerald Ford, la
“salvezza ecologica del pianeta” secondo l’accordo mondiale sul clima siglato a Parigi nel dicembre del 2015.
La nostra
rivista di apologetica teologica, intendendo contribuire alla coscienza delle
finalità proprie della Chiesa cattolica, ritiene di dover avvertire tutti i cosiddetti
“operatori della pastorale” che l’ambiguità del metaforico e il miraggio delle
utopie sono quanto di più contrario alle esigenze dell’evangelizzazione, dato
che la verità del Vangelo esige di essere comunicata con un linguaggio tale che
gli “ascoltatori della Parola” comprendano di essere chiamati alla conversione e alla fede («Convertitevi e
credete al Vangelo!») attraverso la rivelazione dei «misteri del Regno di Dio»:
un Regno che essi debbono pregare perché venga, e verrà certamente con la
Parusia, sapendo allo stesso tempo che è già «in mezzo a loro». Insomma, per
chi comprende l’essenza vera del Vangelo (quella teologica), dovrebbe essere evidente
che la metafora e l’utopia sono strumenti linguistici inadatti alla catechesi e
all’evangelizzazione. E invece ecco che la pastorale di oggi ha scelto di affidarsi
a metafore e utopie, che riempiono quotidianamente i discorsi di coloro che riprendono
e ripetono le modalità espressive (perfino gli slogan) di Papa Francesco. Lo
scopo è di “promuovere” le riforme della Chiesa da lui avviate o progettate o
semplicemente annunciate, presentandole all’opinione pubblica come suggerite tutte
e sempre dallo “Spirito”. Si insiste a parlare di “Spirito”, termine
volutamente ambiguo perché vicino semanticamente al principio primo
dell’idealismo hegeliano (ispiratore del pensiero religioso di influenti
teologi come Hans Küng e Karl Rahner) e non sempre riconducibile a ciò che la
fede cattolica insegna sullo Spirito Santo, terza Persona della Santissima
Trinità «che procede dal Padre e dal Figlio e ha parlato per mezzo dei Profeti»
(Simbolo Niceno-costantinopolitano). Lo
Spirito Santo, quello della fede cattolica, ha sempre assistito la Chiesa di Cristo, fornendo agli Apostoli, a
partire dal giorno della Pentecoste, il coraggio della testimonianza e lo zelo
dell’evangelizzazione, assieme al carisma dell’infallibilità nel custodire e
interpretare la divina rivelazione. Dal punto di vista propriamente teologico,
insomma, non ha molto senso parlare di “una nuova Pentecoste” in riferimento al
pontificato di Bergoglio e attribuire a una diretta illuminazione dello Spirito
Santo ogni sua iniziativa riformatrice, specie se viene presentata come “rivoluzionaria”,
ossia come intesa a operare un rottura con la Tradizione, arrivando ad accantonare
o addirittura ad abolire gli insegnamenti e le decisioni pastorali dei Papi
precedenti. Emblematico, a questo proposito, il caso delle encicliche Humanae vitae di Paolo VI e Familiaris consortio di Giovanni Paolo
II, ignorate o contestate durante i lavori del Sinodo dei vescovi sulla
famiglia conclusosi nell’ottobre del 2015, quando non pochi padri,
individualmente o nei diversi gruppi linguistici, chiedevano di introdurre
nella prassi sacramentaria dei cambiamenti che avrebbero comportato, non una
riforma, ma una vera e propria rivoluzione nella pastorale della Chiesa. Coloro
che all’interno e all’esterno del Sinodo hanno sostenuto la richiesta di abolire
la precedente disciplina dei sacramenti (cardinali come Walter Kasper e
Reinhard Marx, vescovi come Bruno Forte, teologi veri come Giovanni Cavalcoli e
teologi presunti come Enzo Bianchi) argomentavano sulla base di debolissime ragioni socio-culturali,
senza curarsi delle forti ragioni
dogmatiche che sorreggono la prassi tradizionale. Costoro ebbero comunque
subito il consenso dell’opinione pubblica più sprovveduta, sicché, forti di
questo appoggio mediatico, non esitarono a presentarsi come interpreti
autorevoli e autorizzati del Papa stesso.
È proprio questa
eco favorevole dell’opinione pubblica a favorire oggi l’utilizzo, da parte di
molti pastori, di argomenti ideologici che negli ambienti civili si sono
meritati l’epiteto di “populismo”. Negli ultimi tempi abbiamo avuto fin troppi
esempi di questo nuovo linguaggio pastorale fatto di ambigue metafore e di
fuorvianti prospettive utopistiche, dove di teologia non c’è quasi più nulla e
di retorica ce n’è fin troppa. E la deriva retorica si estende ormai a tutti i
mezzi di comunicazione sociale ufficialmente cattolici. Lo notavo leggendo
queste considerazioni sulla rivista culturale dell’Università Cattolica di Milano:
«Sono passati appena
due anni, ma sono stati di un’intensità tale che il solco del pontificato di
Papa Francesco sembra già ben tracciato. Non mancheranno ulteriori sorprese
dello Spirito, quelle sorprese che il Papa accoglie e discerne nei suoi lunghi
tempi di preghiera e delle quali s fa portatore per il bene della Chiesa e del
suo servizio agli uomini. Considero che siamo all’alba di una rivoluzione
evangelica, e non c’è nulla di retorico in questa affermazione [sic]. […] Quale sorpresa dello Spirito
passare in così breve tempo da un certo clima di assedio, sofferto dalla Chiesa
in una sorta di malinconico declino, all’esplosione di gioia e di speranza che
suscita il pontificato di Francesco, vento da lontano, portatore delle sofferenze
e delle speranze dei popoli latino-americani - che raccolgono quasi il 50% dei
cattolici di tutto il mondo – e dell’esperienza di maturità della loro Chiesa
manifestata ad Aparecida. Questa attrazione non è il risultato del carisma
mediatico del Papa; c’è qualcosa di molto più profondo che Lui fa emergere dai
bisogni e dai desideri della gente. Si sgretolano mura di pregiudizi e
resistenze, si pongono domande e attese anche tra coloro che credevano di aver
chiuso i conti con la fede e con la Chiesa; per molti, poi, è tempo di destarsi
da una fede addormentata, per altri è un rifiorire, per tutti è la ritrovata
fierezza della dignità e bellezza di essere cristiani. La libertà, la forza e
la determinazione di Papa Francesco si fondano, da una parte, nella coscienza
serena e lieta di lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio e, dall’altra,
dall’amore che gli manifesta il popolo di Dio, ispirato dal suo istinto
evangelico, dal sensus fidei, ma che
gli esprimono anche, oltre i confini ecclesiastici, i popoli della terra, che in
soli due anni lo hanno reso un leader mondiale nel drammatico scenario in cui
viviamo» (Guzmàn M. Charriquiry Lecour,
«Francesco e l’alba di una rivoluzione evangelica», in Vita e Pensiero, 2015, n. 3, p. 11).
In discorsi di questo tipo, dicevo, di teologia non c’è quasi più nulla e di retorica ce n’è fin troppa. Autore di questo brano è l’uruguaiano Charriquiry, segretario della Pontificia commissione per l’America Latina; egli vive in Vaticano da tanti anni e dovrebbe avere qualche cognizione teologica: eppure, come si è visto, non esita a manipolare alcune nozioni che per il credente hanno un significato soprannaturale ben preciso (“Spirito di Dio”, “popolo di Dio”, “sensus fidei”), riducendole a espressioni socio-culturali che hanno un qualche interesse solo in un contesto ideologico di tipo populistico.
Una pastorale
che venga praticata con questo linguaggio potrà forse ottenere che i fedeli cattolici
nutrano una simpatia ancora maggiore per
la persona del Papa attuale, ma dubito che possa aumentare in essi la devozione che è dovuta - non per motivi meramente
umani ma per ragioni soprannaturali - sia
a Jorge Mario Bergoglio che a chiunque svolga di volta in volta il ministero di
Romano Pontefice, successore del principe degli Apostoli e massima autorità di
magistero e di governo nella Chiesa di Cristo. Per far sì che cresca nei fedeli la devozione al Papa qua talis e di conseguenza la docilità
alle sue direttive pastorali, non servono i rilevamenti di sociologia religiosa,
in base ai quali si afferma che Bergoglio riscuoterebbe sempre maggiore
consenso presso i non cattolici, i non cristiani e i non credenti: servirebbe
piuttosto richiamare la verità di fede (una verità tradizionale, e pertanto anche
attuale) in forza della quale sappiamo per certo che il Papa, chiunque egli
sia, è il Vicario di Cristo in terra che
da Cristo stesso ha ricevuto il mandato
e la grazia di pascere le pecore del suo gregge per portare tutti, uno per uno,
alla salvezza eterna.
La missione
della Chiesa è sempre e solo quella voluta da Cristo, al quale san Giovanni
Paolo II i riferiva volentieri con il titolo di Redemptor hominis. E Cristo, a chi non rifiuta la sua verità e la
sua grazia, ha promesso l’ingresso nel suo Regno, che non è opera dell’uomo e non
risponde a logiche temporalistiche, come Egli stesso ha afferma perentoriamente
davanti al procuratore romano, rappresentante allora del potere politico:
«Pilato allora
rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Tu sei il re dei
Giudei? Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul
mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi
sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto? Rispose Gesù: “Il mio
regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei
servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il
mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque ti sei re?”.
Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo
sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è
dalla verità, ascolta la mia voce”» (Vangelo
secondo Giovanni, 33-37).
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«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi
hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l'esito del loro
tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e
sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è
bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia, non da cibi che non hanno mai
recato giovamento a coloro che ne usarono. Noi abbiamo un altare del quale
non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio del
Tabernacolo. Infatti i corpi degli animali, il cui sangue vien portato nel
santuario dal sommo sacerdote per i peccati, vengono bruciati fuori
dell'accampamento. Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il
proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche
noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo
obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo
quella futura. Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio
di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Lettera agli Ebrei, 7-15). «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai
si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non
l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che
godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non
possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno:
perché passa la scena di questo mondo!» (Prima
Lettera ai Corinti, 29-31).
Nessuna
interessata acrobazia ermeneutica dovrebbe essere usata per convincere i credenti
a “mettere tra parentesi” queste verità della fede cristiana, inducendoli a identificare la
promessa divina del Regno di Dio con una qualche utopia umana. E nemmeno lo
dovrebbero le tante interpretazione ideologica della costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II (nn. 40
ss.), come quelle della “teologia politica” di Johann Baptist Metz o della
“teologia della liberazione” di Gustavo Gutiérrez. Quindi davvero non ha senso,
da un punto di vista correttamente pastorale, andar dicendo che la Chiesa,
grazie alla riforme di papa Bergoglio, si è posta al servizio del mondo per
contribuire a edificare sulla terra e nel tempo presente una società umana
perfetta, senza ingiustizie e divisioni, come quella utopisticamente vagheggiata
per un indeterminato futuro terrestre da coloro che, pur considerandosi
discepoli di Henri de Lubac, non hanno mai letto Le Drame de l’humanisme athée, opera pubblicata dal teologo gesuita
già nel 1944 e che poi ha avuto tante nuove edizioni.
Non mancano
nemmeno Pastori coraggiosi e zelanti che tentano di arginare la deriva secolaristica
con interventi autorevoli che mirano a ribadire gli insegnamenti tradizionali
della Chiesa e a mostrare l’improponibilità di ogni forma di ermeneutica della
“rottura”, sia quando si continua a interpretate il Magistero del Vaticano II
come un nuovo inizio assoluto, in opposizione alla Tradizione precedente, sia quando
si pretende di ridimensionare o addirittura abolire il magistero ordinario dei
papi del post-Concilio, considerati traditori dello “spirito conciliare” e
restauratori dell’ancien régime dogmatico
e giuridicistico. Si tratta del già menzionato cardinale Sarah, ma anche del
cardinale Burke, e soprattutto del prefetto della congregazione per la dottrina
della fede, il cardinale Gerhard Müller, del quale mi preme segnalare, per la
sua grande opportunità, un’importante lettera i dirizzata ai vescovi del Cile e
un’intervista concessa alla rivista teologica cilena Humanitas.
Noi della
redazione di Fides Catholica, come
teologi sempre fedeli a Cristo e al suo Vicario in terra, ci sentiamo
obbligati, per senso di responsabilità apostolica, a contribuire ad arrestare
la deriva secolaristica che sta inquinando la pastorale cattolica. Per questo
continuiamo a interpretare rettamente – con quel sicuro criterio ermeneutico
che la Chiesa stessa ha fornito a tutti i fedeli - il magistero ordinario e
universale del Papa, unendoci logicamente ai Pastori che ne respingono le
interpretazioni manipolatorie e strumentali. Tale opera di chiarimento
dottrinale ed epistemico (dico “epistemico” perché la questione dell’ermeneutica
della Tradizione, della Scrittura e del Magistero è centrale) è stato svolto da
tutti gli autori dei contributi pubblicati su Fides Catholica fin dalla nascita della rivista. Io stesso ho
dedicato a questo tema il saggio intitolato Dogma
e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla
famiglia, realizzato in collaborazione con Stefano Carusi ed Enrico Maria
Radaelli. In questo stesso fascicolo Serafino Lanzetta illustra gli
intendimenti e gli esiti della sua ricerca scientifica sul carattere
“pastorale” del Vaticano II. Siamo consapevoli di essere una voce (rigorosamente
teologica) che a malapena riesce a fari sentire nel frastuono delle voci (esclusivamente
ideologiche) che dominano la scena pubblica, sia all’interno che all’esterno
della comunità dei credenti. Ma continuiamo a fornire il nostro contributo di
apologetica della vera fede nei limiti delle concrete possibilità che la Provvidenza
ci concede, sapendo che è proprio Essa, la divina Provvidenza, e fare “il
resto”, cioè tutto. Ci conforta in questa convinzione un brano della Scrittura
Santa che sembra potersi riferire proprio alla nostra situazione presente:
«Io sono il
Signore tuo Dio che ti tengo per la destra e ti dico: "Non temere, io ti
vengo in aiuto". Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele;
io vengo in tuo aiuto - oracolo del Signore - tuo redentore è il Santo di
Israele. Ecco, ti rendo come una trebbia acuminata, nuova, munita di molte
punte; tu trebbierai i monti e li stritolerai, ridurrai i colli in pula. Li
vaglierai e il vento li porterà via, il turbine li disperderà. Tu, invece,
gioirai nel Signore, ti vanterai del Santo di Israele. I miseri e i poveri
cercano acqua ma non ce n'è, la loro lingua è riarsa per la sete; io, il
Signore, li ascolterò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò. Farò scaturire
fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un
lago d'acqua, la terra arida in sorgenti. Pianterò cedri nel deserto, acacie,
mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti; perché vedano
e sappiano, considerino e comprendano a un tempo che questo ha fatto la mano
del Signore, lo ha creato il Santo di Israele» (Libro di Isaia, 41,13-20).
Antonio Livi
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