Il Peccato originale spiegato dal Concilio
SESSIONE V (I7 giugno 1546)
Decreto sul peccato originale.
Perché la nostra fede cattolica, senza la quale è impossibile piacere a Dio (18), rimossi gli errori, resti integra e pura e perché il popolo cristiano non sia turbato da ogni vento di dottrina (19) dal momento che l’antico, famoso serpente (20), sempre nemico del genere umano, tra i moltissimi mali da cui è sconvolta la chiesa di Dio in questi nostri tempi, ha suscitato nuovi e vecchi dissidi, anche nei riguardi del peccato originale e dei suoi rimedi, il sacrosanto, ecumenico e generale concilio tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi tre legati della sede apostolica, volendo richiamare gli erranti e confermare gli incerti, seguendo le testimonianze delle sacre scritture, dei santi padri, dei concili più venerandi ed il giudizio e il consenso della chiesa stessa, stabilisce, confessa e dichiara quanto segue sul peccato originale.
1. Chi non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di Dio, ha perso subito la santità e la giustizia, nelle quali era stato creato e che è incorso per questo peccato di prevaricazione nell’ira e nell’indignazione di Dio, e, quindi, nella morte, che Dio gli aveva prima minacciato, e, con la morte, nella schiavitù di colui che, in seguito, ebbe il potere della morte e cioè il demonio (21); e che Adamo per quel peccato di prevaricazione fu peggiorato nell’anima e nel corpo: sia anatema.
2. Chi afferma che la prevaricazione di Adamo nocque a lui solo, e non anche alla sua discendenza; che perdette per sé soltanto, e non anche per noi, la santità e giustizia che aveva ricevuto da Dio; o che egli, inquinato dal peccato di disobbedienza, abbia trasmesso a tutto il genere umano solo la morte e le pene del corpo, e non invece anche il peccato, che è la morte dell’anima: sia anatema. Contraddice infatti all’apostolo, che afferma: Per mezzo di un sol uomo il peccato entrò nel mondo e a causa del peccato la morte, e così la morte si trasmise a tutti gli uomini, perché in lui tutti peccarono (22).
3. Chi afferma che il peccato di Adamo, uno per la sua origine, trasmesso con la generazione e non per imitazione, che aderisce a tutti, ed è proprio di ciascuno, possa esser tolto con le forze della natura umana, o con altro mezzo, al di fuori dei meriti dell’unico mediatore, il signore nostro Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio per mezzo del suo sangue (23), diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione (24); o nega che lo stesso merito di Gesù Cristo venga applicato sia agli adulti che ai bambini col sacramento del battesimo, rettamente conferito secondo il modo proprio della chiesa: sia anatema. Perché non esiste sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che possiamo essere salvi (25). Da cui l’espressione: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo (26) e l’altra: Tutti voi che siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo (27).
4. Chi nega che i fanciulli, appena nati debbano esser battezzati, anche se figli di genitori battezzati oppure sostiene che essi sono battezzati per la remissione dei peccati, ma che non contraggono da Adamo alcun peccato originale, che sia necessario purificare col lavacro della rigenerazione per conseguire la vita eterna, e che, quindi, per loro la forma del battesimo per la remissione dei peccati non debba credersi vera, ma falsa sia anatema. Infatti, non si deve intendere in altro modo quello che dice l’apostolo: Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e col peccato la morte, così la morte si è trasmessa ad ogni uomo perché tutti gli uomini hanno peccato (28), se non nel senso in cui la chiesa cattolica universale l’ha sempre inteso. Secondo questa norma di fede per tradizione apostolica anche i bambini, che non hanno ancora potuto commettere peccato, vengono veramente battezzati, affinché in essi sia purificato con la rigenerazione quello che contrassero con la generazione. Se, infatti, uno non rinasce per l’acqua e lo Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio (29).
5. Chi nega che per la grazia del signore nostro Gesù Cristo, conferita nel battesimo, sia rimesso il peccato originale, o anche se asserisce che tutto quello che è vero e proprio peccato, non viene tolto, ma solo cancellato o non imputato (30) sia anatema. In quelli infatti che sono rinati a nuova vita Dio non trova nulla di odioso, perché non vi è dannazione per coloro (31) che col battesimo sono stati sepolti con Cristo nella morte (32), i quali non camminano secondo la carne (33), ma spogliandosi dell’uomo vecchio e rivestendosi del nuovo (34), che è stato creato secondo Dio, sono diventati innocenti, immacolati, puri, senza macchia, figli cari a Dio, eredi di Dio e coeredi di Cristo (35); di modo che assolutamente nulla li trattiene dall’ingresso nel cielo.
Questo santo sinodo confessa che tuttavia nei battezzati rimane la concupiscenza o passione. Ma, essendo questa lasciata per la lotta, non può nuocere a quelli che non acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, chi avrà combattuto secondo le regole, sarà coronato (36).
Il santo sinodo dichiara che mai la chiesa cattolica ha inteso che venga chiamato "peccato" la concupiscenza, qualche volta chiamata dall’apostolo peccato (37), per il fatto che nei rinati alla grazia non è un vero e proprio peccato, ma perché ha origine dal peccato e ad esso inclina. Chi pensasse il contrario sia anatema.
6. Questo santo sinodo dichiara tuttavia, che non è sua intenzione comprendere in questo decreto, dove si tratta del peccato originale, la beata ed immacolata vergine Maria, madre di Dio, ma che si debbano osservare a questo riguardo le costituzioni di papa Sisto IV (38), di felice memoria, sotto pena di incorrere nelle sanzioni in esse contenute che il sinodo rinnova.
Secondo decreto: Sulla lettura della s. scrittura e la predicazione.
1. Lo stesso sacrosanto sinodo, aderendo alle pie costituzioni dei sommi pontefici e dei concili approvati, le fa sue; e volendo completarle, perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la sacra scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi.
Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi. Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida.
2. Nelle chiese metropolitane o cattedrali, se la città è importante e popolosa, ed anche nelle collegiate che si trovassero in un centro importante, - anche di nessuna diocesi, - purché vi sia numeroso clero, qualora non si trovi prebenda, dotazione o stipendio da destinare a questo scopo, si consideri ipso facto destinata per sempre a ciò la prima prebenda che in qualsiasi modo si renda vacante, salvo il caso di rinunzia e qualora vi sia annesso un altro onere incompatibile. Se non vi fosse in queste stesse chiese alcuna prebenda o fosse insufficiente, il metropolita o il vescovo stesso, con l’assegnazione dei frutti di un beneficio semplice (di cui però bisogna soddisfare gli oneri), o col contributo dei beneficiati della sua città e diocesi, o anche in altro modo, come si potrà fare più facilmente, col consiglio del capitolo provveda in maniera tale, che si abbia la lettura della sacra scrittura. Ciò però, avvenga in modo che qualsiasi altra lettura, istituita o consuetudinaria non sia, per questo motivo, omessa.
3. Quelle chiese i cui proventi annuali fossero limitati, o dove il clero e il popolo fosse tanto scarso, da non potersi tenere opportunamente la lezione di teologia, abbiano almeno un maestro, scelto dal vescovo col consiglio del capitolo, che insegni gratuitamente la grammatica ai chierici e agli altri scolari poveri, perché, con l’aiuto di Dio, possano poi passare agli studi della sacra scrittura. Il maestro di grammatica riceva i frutti di un beneficio semplice fino a che eserciterà tale ufficio senza che, tuttavia, il beneficio stesso sia distolto dal proprio scopo, o un adeguato compenso dalla mensa capitolare o vescovile o il vescovo stesso escogiti qualche altro mezzo adatto alla sua chiesa e diocesi, perché questa pia, utile e così fruttuosa disposizione, sotto qualsiasi pretesto, non venga trascurata.
4. Anche nei monasteri dove possa essere convenientemente realizzata, si tenga tale lettura della sacra scrittura. Se gli abati fossero negligenti, i vescovi quali delegati della sede apostolica, li costringano a farlo con i mezzi opportuni.
5. Nei conventi dei regolari, in cui gli studi possono essere facilmente coltivati la lezione di sacra scrittura abbia ugualmente luogo, essa sia assegnata dai capitoli generali o provinciali ai maestri più degni.
6. Anche nei ginnasi pubblici, dove questa lezione, più necessaria di tutte le altre non fosse stata ancora istituita, sia attivata dalla pietà e dalla carità dei religiosissimi principi e delle repubbliche, per la difesa e l’incremento della fede cattolica e per la conservazione e propagazione della sana dottrina. E dove fosse stata istituita ma fosse trascurata, la si rimetta in auge.
7. E perché sotto l’apparenza della pietà non venga diffusa l’empietà, lo stesso santo sinodo stabilisce che nessuno debba essere ammesso a tale ufficio di lettore, sia in pubblico che in privato, se prima non è stato esaminato dal vescovo del luogo circa la sua vita, i suoi costumi, la sua scienza, e approvato. Ciò, tuttavia, non si applica ai lettori dei monasteri.
8. Gli insegnanti di sacra scrittura, nel tempo in cui insegnano pubblicamente nelle scuole, e così pure gli studenti godano ed usufruiscano di tutti i privilegi concessi dal diritto di percepire i frutti delle loro prebende e dei loro benefici anche durante la loro assenza.
9. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi (39), lo stesso santo sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti.
10. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il concilio generale (40), a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione. Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa.
11. Anche gli arcipreti, i pievani, e tutti coloro che abbiano cura d’anime nelle parrocchie o altrove, personalmente o per mezzo d’altri se ne fossero legittimamente impediti, almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste.
Se poi qualcuno di loro fosse negligente anche se pretendesse di essere esente dalla giurisdizione del vescovo per qualsiasi motivo o anche se le chiese fossero ritenute in qualsiasi modo esenti, o forse annesse o unite a qualche monastero, situato magari fuori diocesi, purché in realtà si trovino nella diocesi, non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro (41) Se però, pur ammoniti dal vescovo, per tre mesi mancassero al loro ufficio, vi siano costretti con le censure ecclesiastiche, o in altro modo secondo la decisione dello stesso vescovo. Se a lui sembrasse opportuno, potrà anche esser dato ad altri un onesto compenso sui frutti del beneficio perché compia questo dovere, fino a che il titolare si ravveda e adempia il suo dovere.
12. Nelle chiese parrocchiali soggette a monasteri non dipendenti da alcuna diocesi, qualora gli abati e i superiori dei religiosi fossero negligenti in ciò che abbiamo detto, vi siano costretti dai metropoliti, nelle cui province si trovano le stesse diocesi, i quali si considereranno, in questa occasione, delegati della sede apostolica.
Né valgano ad impedire l’esecuzione di questo decreto la consuetudine, l’esenzione, l’appello o il reclamo, cioè il ricorso, fino a che il giudice competente, con procedimento sommario e tenendo solo conto della verità del fatto, non abbia esaminato e deciso l’argomento.
13. I religiosi di qualunque ordine, se non sono stati esaminati e approvati dai loro superiori circa la vita, i costumi e la scienza, e se non consta di questa loro licenza, non potranno predicare neppure nelle chiese dei loro ordini. Essi devono presentarsi con essa personalmente ai vescovi e chiedere la loro benedizione, prima di dare inizio alla predicazione (42).
14. I religiosi nelle chiese, che non appartengono al loro ordine, oltre alla licenza dei loro superiori, sono tenuti ad avere anche quella del vescovo; senza di essa, non potranno in nessun caso predicare nelle chiese che non sono del loro ordine (43). Questa licenza i vescovi la concedano gratuitamente.
15. Se un predicatore seminasse errori o scandali in mezzo al popolo, anche se predica in un monastero del proprio o di un altro ordine, il vescovo gli proibisca la predicazione. Se predicasse delle eresie proceda contro di lui secondo il diritto o l’uso del luogo, anche se il predicatore pretendesse di essere esente per un privilegio generale o speciale. In questo caso il vescovo proceda con autorità apostolica e come delegato della sede apostolica. I vescovi impediscano che un predicatore sia molestato per false informazioni o comunque calunniosamente, e che possa a giusto motivo di lamentarsi di essi.
16. I vescovi inoltre abbiano cura che nessuno dei regolari viva fuori del convento e dell’obbedienza del proprio ordine, o che un sacerdote secolare (a meno che sia loro noto e possano approvarne i costumi e la dottrina) predichi nella loro città o diocesi, anche col pretesto di qualsiasi privilegio, fino a quando dagli stessi vescovi non sia stata consultata a questo proposito la santa sede apostolica, da cui, a meno che non si sia taciuta la verità o non si sia detta una menzogna, è difficile che gli immeritevoli possano estorcere tali privilegi.
17. I raccoglitori di elemosine (44), che con espressione popolare, sono detti ‘questuanti’, di qualsiasi condizione essi siano, non presumano in nessun modo di poter predicare, sia personalmente, che per mezzo di altri. Chi facesse il contrario, ne sia assolutamente impedito con opportuni rimedi dai vescovi e dagli ordinari dei luoghi, non ostante qualsiasi privilegio.
Decreto di indizione della futura sessione.
Questo sacrosanto sinodo stabilisce e determina che la futura sessione si tenga e celebri il giovedì, feria quinta dopo la festa di S. Giacomo apostolo.
Note
18. Eb 11, 6.
19. Ef 4, 14.
20. Cfr. Ap 12, 9; 20, 2.
21. Eb 2, 14.
22. Rm 5, 12.
23. Cfr. Rm 5, 9-10.
24. 1 Cor 1, 30.
25. At 4, 12.
26. Gv 1, 29.
27. Gal 3, 27.
28. Rm 5, 12.
29. Gv 3, 5.
30. Cfr. AGOSTINO, Contra duas epistolas Pelagianorum I, 13 (26) (CSEL 60, 445).
31. Cfr. Rm 8, 1.
32. Cfr. Rm 6, 4.
33. Rm 8, 1 (solo nella vulgata).
34. Cfr. Col 3, 9-10; Ef 4, 24.
35. Rm 8, 17.
36. II Tm 2, 5.
37. Cfr. Rm 7, 14, I7, 20.
38. Cc. 1 e 2, III, 12, in Exstrav. comm. (Fr 2, 770); C. 12. D. XXXVII (Fr 1, 139).
39. Cfr. Statuta ecclesiae antiqua, c. 3 (Les Statuta ecclesiae antiqua, nuova ed. critica a cura di Ch. Munier, Paris, 1960, 79) che corrisponde al c. 6 DLXXXVIII (Fr 1, 307).
40. Conc. Lateranense IV, c. 10.
41. Lam 4, 4.
42. Cfr. Conc. Lateranense V, sess. XI (COD, 634-638).
43. Cfr. Conc. Lateranense IV, c. 3.
44. Cfr. Conc. Lateranense IV, c. 62; c. 11, V, 2, in VI (Fr 2, 1074); c. 2, V, 9, in Clem. (Fr. 2. 1190).
1. Chi non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di Dio, ha perso subito la santità e la giustizia, nelle quali era stato creato e che è incorso per questo peccato di prevaricazione nell’ira e nell’indignazione di Dio, e, quindi, nella morte, che Dio gli aveva prima minacciato, e, con la morte, nella schiavitù di colui che, in seguito, ebbe il potere della morte e cioè il demonio (21); e che Adamo per quel peccato di prevaricazione fu peggiorato nell’anima e nel corpo: sia anatema.
2. Chi afferma che la prevaricazione di Adamo nocque a lui solo, e non anche alla sua discendenza; che perdette per sé soltanto, e non anche per noi, la santità e giustizia che aveva ricevuto da Dio; o che egli, inquinato dal peccato di disobbedienza, abbia trasmesso a tutto il genere umano solo la morte e le pene del corpo, e non invece anche il peccato, che è la morte dell’anima: sia anatema. Contraddice infatti all’apostolo, che afferma: Per mezzo di un sol uomo il peccato entrò nel mondo e a causa del peccato la morte, e così la morte si trasmise a tutti gli uomini, perché in lui tutti peccarono (22).
3. Chi afferma che il peccato di Adamo, uno per la sua origine, trasmesso con la generazione e non per imitazione, che aderisce a tutti, ed è proprio di ciascuno, possa esser tolto con le forze della natura umana, o con altro mezzo, al di fuori dei meriti dell’unico mediatore, il signore nostro Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio per mezzo del suo sangue (23), diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione (24); o nega che lo stesso merito di Gesù Cristo venga applicato sia agli adulti che ai bambini col sacramento del battesimo, rettamente conferito secondo il modo proprio della chiesa: sia anatema. Perché non esiste sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che possiamo essere salvi (25). Da cui l’espressione: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo (26) e l’altra: Tutti voi che siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo (27).
4. Chi nega che i fanciulli, appena nati debbano esser battezzati, anche se figli di genitori battezzati oppure sostiene che essi sono battezzati per la remissione dei peccati, ma che non contraggono da Adamo alcun peccato originale, che sia necessario purificare col lavacro della rigenerazione per conseguire la vita eterna, e che, quindi, per loro la forma del battesimo per la remissione dei peccati non debba credersi vera, ma falsa sia anatema. Infatti, non si deve intendere in altro modo quello che dice l’apostolo: Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e col peccato la morte, così la morte si è trasmessa ad ogni uomo perché tutti gli uomini hanno peccato (28), se non nel senso in cui la chiesa cattolica universale l’ha sempre inteso. Secondo questa norma di fede per tradizione apostolica anche i bambini, che non hanno ancora potuto commettere peccato, vengono veramente battezzati, affinché in essi sia purificato con la rigenerazione quello che contrassero con la generazione. Se, infatti, uno non rinasce per l’acqua e lo Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio (29).
5. Chi nega che per la grazia del signore nostro Gesù Cristo, conferita nel battesimo, sia rimesso il peccato originale, o anche se asserisce che tutto quello che è vero e proprio peccato, non viene tolto, ma solo cancellato o non imputato (30) sia anatema. In quelli infatti che sono rinati a nuova vita Dio non trova nulla di odioso, perché non vi è dannazione per coloro (31) che col battesimo sono stati sepolti con Cristo nella morte (32), i quali non camminano secondo la carne (33), ma spogliandosi dell’uomo vecchio e rivestendosi del nuovo (34), che è stato creato secondo Dio, sono diventati innocenti, immacolati, puri, senza macchia, figli cari a Dio, eredi di Dio e coeredi di Cristo (35); di modo che assolutamente nulla li trattiene dall’ingresso nel cielo.
Questo santo sinodo confessa che tuttavia nei battezzati rimane la concupiscenza o passione. Ma, essendo questa lasciata per la lotta, non può nuocere a quelli che non acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, chi avrà combattuto secondo le regole, sarà coronato (36).
Il santo sinodo dichiara che mai la chiesa cattolica ha inteso che venga chiamato "peccato" la concupiscenza, qualche volta chiamata dall’apostolo peccato (37), per il fatto che nei rinati alla grazia non è un vero e proprio peccato, ma perché ha origine dal peccato e ad esso inclina. Chi pensasse il contrario sia anatema.
6. Questo santo sinodo dichiara tuttavia, che non è sua intenzione comprendere in questo decreto, dove si tratta del peccato originale, la beata ed immacolata vergine Maria, madre di Dio, ma che si debbano osservare a questo riguardo le costituzioni di papa Sisto IV (38), di felice memoria, sotto pena di incorrere nelle sanzioni in esse contenute che il sinodo rinnova.
Secondo decreto: Sulla lettura della s. scrittura e la predicazione.
1. Lo stesso sacrosanto sinodo, aderendo alle pie costituzioni dei sommi pontefici e dei concili approvati, le fa sue; e volendo completarle, perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la sacra scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi.
Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi. Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida.
2. Nelle chiese metropolitane o cattedrali, se la città è importante e popolosa, ed anche nelle collegiate che si trovassero in un centro importante, - anche di nessuna diocesi, - purché vi sia numeroso clero, qualora non si trovi prebenda, dotazione o stipendio da destinare a questo scopo, si consideri ipso facto destinata per sempre a ciò la prima prebenda che in qualsiasi modo si renda vacante, salvo il caso di rinunzia e qualora vi sia annesso un altro onere incompatibile. Se non vi fosse in queste stesse chiese alcuna prebenda o fosse insufficiente, il metropolita o il vescovo stesso, con l’assegnazione dei frutti di un beneficio semplice (di cui però bisogna soddisfare gli oneri), o col contributo dei beneficiati della sua città e diocesi, o anche in altro modo, come si potrà fare più facilmente, col consiglio del capitolo provveda in maniera tale, che si abbia la lettura della sacra scrittura. Ciò però, avvenga in modo che qualsiasi altra lettura, istituita o consuetudinaria non sia, per questo motivo, omessa.
3. Quelle chiese i cui proventi annuali fossero limitati, o dove il clero e il popolo fosse tanto scarso, da non potersi tenere opportunamente la lezione di teologia, abbiano almeno un maestro, scelto dal vescovo col consiglio del capitolo, che insegni gratuitamente la grammatica ai chierici e agli altri scolari poveri, perché, con l’aiuto di Dio, possano poi passare agli studi della sacra scrittura. Il maestro di grammatica riceva i frutti di un beneficio semplice fino a che eserciterà tale ufficio senza che, tuttavia, il beneficio stesso sia distolto dal proprio scopo, o un adeguato compenso dalla mensa capitolare o vescovile o il vescovo stesso escogiti qualche altro mezzo adatto alla sua chiesa e diocesi, perché questa pia, utile e così fruttuosa disposizione, sotto qualsiasi pretesto, non venga trascurata.
4. Anche nei monasteri dove possa essere convenientemente realizzata, si tenga tale lettura della sacra scrittura. Se gli abati fossero negligenti, i vescovi quali delegati della sede apostolica, li costringano a farlo con i mezzi opportuni.
5. Nei conventi dei regolari, in cui gli studi possono essere facilmente coltivati la lezione di sacra scrittura abbia ugualmente luogo, essa sia assegnata dai capitoli generali o provinciali ai maestri più degni.
6. Anche nei ginnasi pubblici, dove questa lezione, più necessaria di tutte le altre non fosse stata ancora istituita, sia attivata dalla pietà e dalla carità dei religiosissimi principi e delle repubbliche, per la difesa e l’incremento della fede cattolica e per la conservazione e propagazione della sana dottrina. E dove fosse stata istituita ma fosse trascurata, la si rimetta in auge.
7. E perché sotto l’apparenza della pietà non venga diffusa l’empietà, lo stesso santo sinodo stabilisce che nessuno debba essere ammesso a tale ufficio di lettore, sia in pubblico che in privato, se prima non è stato esaminato dal vescovo del luogo circa la sua vita, i suoi costumi, la sua scienza, e approvato. Ciò, tuttavia, non si applica ai lettori dei monasteri.
8. Gli insegnanti di sacra scrittura, nel tempo in cui insegnano pubblicamente nelle scuole, e così pure gli studenti godano ed usufruiscano di tutti i privilegi concessi dal diritto di percepire i frutti delle loro prebende e dei loro benefici anche durante la loro assenza.
9. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi (39), lo stesso santo sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti.
10. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il concilio generale (40), a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione. Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa.
11. Anche gli arcipreti, i pievani, e tutti coloro che abbiano cura d’anime nelle parrocchie o altrove, personalmente o per mezzo d’altri se ne fossero legittimamente impediti, almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste.
Se poi qualcuno di loro fosse negligente anche se pretendesse di essere esente dalla giurisdizione del vescovo per qualsiasi motivo o anche se le chiese fossero ritenute in qualsiasi modo esenti, o forse annesse o unite a qualche monastero, situato magari fuori diocesi, purché in realtà si trovino nella diocesi, non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro (41) Se però, pur ammoniti dal vescovo, per tre mesi mancassero al loro ufficio, vi siano costretti con le censure ecclesiastiche, o in altro modo secondo la decisione dello stesso vescovo. Se a lui sembrasse opportuno, potrà anche esser dato ad altri un onesto compenso sui frutti del beneficio perché compia questo dovere, fino a che il titolare si ravveda e adempia il suo dovere.
12. Nelle chiese parrocchiali soggette a monasteri non dipendenti da alcuna diocesi, qualora gli abati e i superiori dei religiosi fossero negligenti in ciò che abbiamo detto, vi siano costretti dai metropoliti, nelle cui province si trovano le stesse diocesi, i quali si considereranno, in questa occasione, delegati della sede apostolica.
Né valgano ad impedire l’esecuzione di questo decreto la consuetudine, l’esenzione, l’appello o il reclamo, cioè il ricorso, fino a che il giudice competente, con procedimento sommario e tenendo solo conto della verità del fatto, non abbia esaminato e deciso l’argomento.
13. I religiosi di qualunque ordine, se non sono stati esaminati e approvati dai loro superiori circa la vita, i costumi e la scienza, e se non consta di questa loro licenza, non potranno predicare neppure nelle chiese dei loro ordini. Essi devono presentarsi con essa personalmente ai vescovi e chiedere la loro benedizione, prima di dare inizio alla predicazione (42).
14. I religiosi nelle chiese, che non appartengono al loro ordine, oltre alla licenza dei loro superiori, sono tenuti ad avere anche quella del vescovo; senza di essa, non potranno in nessun caso predicare nelle chiese che non sono del loro ordine (43). Questa licenza i vescovi la concedano gratuitamente.
15. Se un predicatore seminasse errori o scandali in mezzo al popolo, anche se predica in un monastero del proprio o di un altro ordine, il vescovo gli proibisca la predicazione. Se predicasse delle eresie proceda contro di lui secondo il diritto o l’uso del luogo, anche se il predicatore pretendesse di essere esente per un privilegio generale o speciale. In questo caso il vescovo proceda con autorità apostolica e come delegato della sede apostolica. I vescovi impediscano che un predicatore sia molestato per false informazioni o comunque calunniosamente, e che possa a giusto motivo di lamentarsi di essi.
16. I vescovi inoltre abbiano cura che nessuno dei regolari viva fuori del convento e dell’obbedienza del proprio ordine, o che un sacerdote secolare (a meno che sia loro noto e possano approvarne i costumi e la dottrina) predichi nella loro città o diocesi, anche col pretesto di qualsiasi privilegio, fino a quando dagli stessi vescovi non sia stata consultata a questo proposito la santa sede apostolica, da cui, a meno che non si sia taciuta la verità o non si sia detta una menzogna, è difficile che gli immeritevoli possano estorcere tali privilegi.
17. I raccoglitori di elemosine (44), che con espressione popolare, sono detti ‘questuanti’, di qualsiasi condizione essi siano, non presumano in nessun modo di poter predicare, sia personalmente, che per mezzo di altri. Chi facesse il contrario, ne sia assolutamente impedito con opportuni rimedi dai vescovi e dagli ordinari dei luoghi, non ostante qualsiasi privilegio.
Decreto di indizione della futura sessione.
Questo sacrosanto sinodo stabilisce e determina che la futura sessione si tenga e celebri il giovedì, feria quinta dopo la festa di S. Giacomo apostolo.
Note
18. Eb 11, 6.
19. Ef 4, 14.
20. Cfr. Ap 12, 9; 20, 2.
21. Eb 2, 14.
22. Rm 5, 12.
23. Cfr. Rm 5, 9-10.
24. 1 Cor 1, 30.
25. At 4, 12.
26. Gv 1, 29.
27. Gal 3, 27.
28. Rm 5, 12.
29. Gv 3, 5.
30. Cfr. AGOSTINO, Contra duas epistolas Pelagianorum I, 13 (26) (CSEL 60, 445).
31. Cfr. Rm 8, 1.
32. Cfr. Rm 6, 4.
33. Rm 8, 1 (solo nella vulgata).
34. Cfr. Col 3, 9-10; Ef 4, 24.
35. Rm 8, 17.
36. II Tm 2, 5.
37. Cfr. Rm 7, 14, I7, 20.
38. Cc. 1 e 2, III, 12, in Exstrav. comm. (Fr 2, 770); C. 12. D. XXXVII (Fr 1, 139).
39. Cfr. Statuta ecclesiae antiqua, c. 3 (Les Statuta ecclesiae antiqua, nuova ed. critica a cura di Ch. Munier, Paris, 1960, 79) che corrisponde al c. 6 DLXXXVIII (Fr 1, 307).
40. Conc. Lateranense IV, c. 10.
41. Lam 4, 4.
42. Cfr. Conc. Lateranense V, sess. XI (COD, 634-638).
43. Cfr. Conc. Lateranense IV, c. 3.
44. Cfr. Conc. Lateranense IV, c. 62; c. 11, V, 2, in VI (Fr 2, 1074); c. 2, V, 9, in Clem. (Fr. 2. 1190).
Nessun commento:
Posta un commento