Una settimana fa venivano barbaramente assassinate ad Aden, nello Yemen, quattro Missionarie della Carità, Sr. Anselm, Sr. Judit, Sr. Marguerite e Sr. Reginette. Ci si è giustamente lamentati che la notizia non abbia avuto l’eco che avrebbe meritato sui mezzi di informazione. Ma c’è da meravigliarsi? C’è ancora qualcuno che crede all’indipendenza e all’obiettività della stampa? È ovvio che “passano” solo le notizie funzionali agli interessi dei poteri che controllano le varie catene mediatiche. Si fosse trattato di un nuovo caso di pedofilia ecclesiastica, ci avrebbero ricamato sopra per settimane; ma sono morte solo quattro suorine, per di più nere: che volete che sia? con tutti i morti che ci sono ogni giorno in quei paesi, volete che interessi a qualcuno? No, non deve interessare a nessuno. Per fortuna, ci sono ancora alcuni canali di informazione che riescono a sfuggire, almeno parzialmente, alla censura. Beh, attraverso quei canali, la notizia della morte delle Suore di Madre Teresa è giunta a chi doveva giungere e direi che ha avuto anche la risonanza che meritava.
Anche nella piccola comunità cristiana di Kabul, naturalmente, la notizia ha fatto impressione. Non solo perché ci troviamo in una situazione analoga (pochi cattolici immersi in una realtà islamica al 100% e con una guerra civile in corso), ma anche perché qui pure c’è una piccola comunità di Missionarie della Carità, con una composizione molto simile a quella delle religiose trucidate nello Yemen: una ruandese, una keniota, una indiana e una filippina. E anche loro esposte a possibili attacchi, non certo da parte della povera gente che aiutano, ma da parte di gruppi che usano l’Islam esclusivamente come paravento per i loro obiettivi politici.
Non sono le uniche religiose presenti nella nostra Missione: oltre loro, ci sono altre due piccole comunità che, con la loro semplice e disinteressata testimonianza, rendono presente la Chiesa in un ambiente, almeno apparentemente, del tutto impermeabile al cristianesimo. Impossibilitato come sono a svolgere qualsiasi tipo di attività pastorale esterna, queste suore sono le mie braccia e i miei piedi; meglio, i miei “angeli”. Ovviamente, anche a loro è interdetto qualsiasi tipo di “proselitismo”; ma non è per questo che sono qui: sono venute per servire Cristo negli ultimi, negli scarti della società, in quelli di cui nessuno si prenderebbe cura. E il loro lavoro è molto apprezzato, non solo dalla gente comune, ma dallo stesso governo. E io sono onorato di essere qui a loro servizio: di poter annunciare loro la parola di Dio, di poter celebrare per loro l’Eucaristia, di poter dare loro l’assoluzione. Se volete, un lavoro di retroguardia il mio, ma prezioso per chi si trova sulla breccia a combattere ogni giorno la buona battaglia. Qualcuno potrebbe pensare: ma chi ve lo fa fare? a che serve star lí a rischiare la pelle, quando non c’è alcuna prospettiva di evangelizzazione e di sviluppo per la Chiesa? Potrei rispondere con San Paolo: Caritas Christi urget nos.
La tragica morte delle quattro Missionarie della Carità mi ha ispirato alcune riflessioni, senza alcuna pretesa, che vorrei condividere con voi.
La Chiesa di oggi è una Chiesa dei martiri. Può sembrare strano: ci lamentiamo tutti dello stato comatoso in cui versa la Chiesa odierna; abbiamo l’impressione che si stia approssimando al suo definitivo tramonto; eppure mai come oggi (forse neppure nei primi secoli) ci sono tanti cristiani che versano il sangue per la loro fede. Ci si aspetterebbe che solo una Chiesa forte possa esprimere dei martiri; e invece… Ma la cosa non deve meravigliare piú di tanto, perché è sempre stato cosí. Ricordo il compianto Padre Fasola, che ci spiegava il motivo per cui il martirio della piccola Agnese ebbe, a suo tempo, tanta risonanza: perché praticamente salvò, col suo sangue, una Chiesa Romana altrimenti destinata a scomparire. Le piccole “Agnesi” dei nostri giorni forse, col loro sacrificio, salveranno una Chiesa che pare aver perso la bussola in un mondo che, a sua volta, sembra completamente impazzito.
Questa Chiesa dei martiri non è la Chiesa europea o americana (e neppure quella, tanto esaltata, latinoamericana), che sembrerebbe aver perso la testa rincorrendo il mondo; ma la Chiesa “di periferia”, non tanto quella delle baraccopoli ai margini delle grandi città, che fa tanto chic oggigiorno, quanto piuttosto quella dei paesi dimenticati da tutti, utili solo per essere sfruttati economicamente, politicamente e strategicamente, i paesi africani e asiatici. Un tempo, almeno finché questi popoli furono considerati “sottosviluppati”, era tanto di moda parlare di Africa e Asia; ora che essi hanno cominciato a farsi sentire, ci siamo accorti che anche loro hanno una testa, che però non sempre condivide le nostre ideologie; e perciò abbiamo iniziato a guardarli dall’alto in basso (ricordate la reazione del Card. Kasper durante il dibattito acceso in occasione dei due ultimi Sinodi?). Ed è proprio in questi paesi che la Chiesa sta avendo una inattesa fioritura. La stragrande maggioranza delle Missionarie della Carità (ma non solo) proviene dalle giovani Chiese (ve la immaginate voi una delle nostre ragazze che si mete a fare il lavoro delle Suore di Madre Teresa?). Questo non significa che i cristiani africani e asiatici siano tutti santi: sono peccatori come noi, e forse più di noi. Non avranno la cultura che abbiamo noi; ma hanno una cosa che noi abbiamo perso: la fede. Ed è questa fede, semplice e incrollabile, che permette loro di dedicare l’intera vita al servizio dei “più poveri fra i poveri” e, se necessario, a sacrificarla per Cristo. Mentre in Occidente i cristiani si baloccano con la comunione ai divorziati risposati, l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio (o almeno, suvvia, il cardinalato) alle donne, grazie a Dio nel resto del mondo ci sono cristiani che, in silenzio, servono gli ultimi e versano il sangue per la loro fede. Dio li benedica!
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