Il silenzio nella liturgia
Per
dire sì al Signore
Nel
seguente articolo, che riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30 gennaio
scorso, il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto
divino e la disciplina dei sacramenti affronta il senso del silenzio nella
liturgia romana. Il suo discorso si articola intorno a quattro assi portanti:
il silenzio come valore ascetico cristiano, il silenzio come condizione della
preghiera contemplativa, il silenzio previsto dalle norme liturgiche,
l’importanza del silenzio per la qualità della liturgia.
Molti
fedeli si lamentano giustamente per l’assenza di silenzio in alcune forme di
celebrazione della nostra liturgia.
È
quindi importante ricordare il significato del silenzio come valore ascetico
cristiano e come condizione necessaria per una preghiera profonda e
contemplativa, senza dimenticare che nella celebrazione della santa Eucaristia
sono ufficialmente previsti tempi di silenzio, al fine di mettere in evidenza
la sua importanza per un rinnovamento liturgico autentico.
In
senso negativo, il silenzio è l’assenza di rumore. Il silenzio virtuoso — o
meglio mistico — deve essere ovviamente distinto dal silenzio riprovevole, dal
rifiuto di rivolgere la parola, dal silenzio di omissione per codardia, egoismo
o durezza di cuore. Beninteso, il silenzio esteriore è un esercizio ascetico di
padronanza nell’uso della parola. L’ascesi è un mezzo indispensabile che ci
aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto ciò che l’appesantisce, vale a
dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore e che dunque
costituisce un ostacolo per la preghiera. Sì, è proprio nella preghiera che Dio
ci comunica la sua vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima
irrigandola con i flutti del suo amore trinitario, il Padre attraverso il
Figlio nello Spirito santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio.
I
libri sapienziali dell’Antico Testamento traboccano di esortazioni volte a
evitare i peccati della lingua (soprattutto la maldicenza e la calunnia).
I libri profetici, da parte loro, evocano il silenzio come espressione del
timore reverenziale verso Dio; si tratta allora di una preparazione alla
teofania di Dio, vale a dire alla rivelazione della sua presenza nel nostro
mondo. Il Nuovo Testamento non è da meno. Di fatto contiene la lettera di
Giacomo che è ancora indubbiamente il testo chiave riguardo al controllo della
lingua (cfr. Giacomo 3, 1-10). Gesù stesso ci ha messo in guardia contro le
parole malvagie, che sono l’espressione di un cuore depravato (cfr. Matteo 15,
19) e anche contro le parole oziose, di cui dovremo rendere conto (cfr. Matteo
12, 36).
In
realtà, il vero e buon silenzio appartiene sempre a chi vuole lasciare il
proprio posto agli altri, e soprattutto al totalmente altro, a Dio.
Il rumore esteriore invece caratterizza l’individuo che vuole occupare un posto
troppo importante, che vuole pavoneggiarsi o mettersi in mostra, o che vuole
colmare il suo vuoto interiore.
Nel
vangelo si dice che il Salvatore stesso pregava nel silenzio, soprattutto di
notte (cfr. Luca 6, 12), o si ritirava in luoghi deserti (cfr. Luca 5, 16;
Marco 1, 35). Il silenzio è tipico della meditazione della Parola di Dio; lo si
ritrova soprattutto nell’atteggiamento di Maria dinanzi al mistero di suo
Figlio (cfr. Luca 2, 19-51).
Il silenzio è soprattutto l’atteggiamento positivo di chi si prepara ad accogliere
Dio attraverso l’ascolto.
Sì,
Dio agisce nel silenzio. Da qui l’importante osservazione di san Giovanni della
Croce: «Il Padre dice una sola Parola: è il suo Verbo, il Figlio suo. La
pronunzia in un eterno silenzio ed è solo nel silenzio che l’anima può
intenderla» (Massime, 147). Bisogna quindi fare silenzio: e si tratta di una
attività, non di una oziosità. Se il nostro “cellulare interiore “ risulta
sempre occupato, perché stiamo “conversando” con altre creature, come può il
Creatore avere accesso a noi, come può “chiamarci”?
Dobbiamo
dunque purificare la nostra intelligenza dalle sue curiosità, la nostra volontà
dai suoi progetti, per aprirci completamente alle grazie di luce e di forza che
Dio vuole donarci in abbondanza: «Padre non sia fatta la mia, ma la tua
volontà». “L’indifferenza” ignaziana è dunque anch’essa una forma di silenzio.
La
preghiera è una conversazione, un dialogo con Dio uno e trino: se, in certi
momenti, ci si rivolge a Dio, in altri si fa silenzio per ascoltarlo.
Non sorprende quindi che si debba considerare il silenzio come una componente
importante della liturgia.
Certo,
i riti orientali — che non sono di competenza della mia Congregazione — non
prevedono tempi di silenzio durante la divina liturgia.
In Occidente, invece, in tutti i riti (romano, romano-lionese, certosino,
domenicano, ambrosiano, e così via) la preghiera silenziosa del prete non viene
sempre affiancata dai canti del coro o dei fedeli. La messa latina quindi
include da sempre tempi di assoluto silenzio. Il concilio Vaticano II ha
mantenuto un tempo di silenzio durante il sacrificio eucaristico. Così la
costituzione sulla liturgia Sacrosanctum concilium, al numero 30 ha decretato
che «per promuovere la partecipazione attiva si osservi anche, a tempo debito,
un sacro silenzio».
L’Ordinamento
generale del messale romano di Paolo VI, ripubblicato nel 2002 da Giovanni
Paolo II, ha precisato i numerosi momenti della messa in cui bisogna osservare
il silenzio: «La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole
celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera,
il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a
meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la
preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa
celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo
dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano
prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione» (n. 45).
Il
silenzio dunque non è affatto assente dalla forma ordinaria del rito romano,
quantomeno se si seguono le sue prescrizioni e ci si ispira alle sue
raccomandazioni. Inoltre, al di fuori dell’omelia, occorre bandire qualsiasi
discorso o presentazione di persone durante la celebrazione della santa messa.
Di fatto bisogna evitare di trasformare la chiesa, che è la casa di Dio
destinata all’adorazione, in una sala da spettacolo in cui si va ad applaudire
attori più o meno bravi in base alla loro capacità più o meno grande di
comunicare, secondo un’espressione che si sente spesso nei media.
Bisogna
sforzarsi di capire le motivazioni di questa disciplina liturgica sul silenzio
e impregnarsene. Alcuni autori particolarmente qualificati possono aiutarci in
questo ambito e riuscire a convincerci della necessità del silenzio nella liturgia.
In primo luogo monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche
pontificie, che esprime il principio generale in questi termini: una liturgia
«ben celebrata, con il linguaggio che le è proprio, in diverse sue parti, deve
prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la
parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene
ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento. Il silenzio
richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un
momento celebrativo e il successivo. È da considerarsi piuttosto come un vero e
proprio momento rituale, complementare alla
parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto».
Il cardinale Joseph Ratzinger, nella sua celebre opera Lo spirito della
liturgia, osservava già che «il grande mistero che supera ogni parola c’invita
al silenzio. E il silenzio, è evidente, appartiene anche alla liturgia. Occorre
che questo silenzio sia pieno, che non sia semplicemente assenza di discorso o
di azione. Ciò che ci aspettiamo dalla liturgia è che ci offra questo silenzio
sostanziale, positivo, in cui possiamo ritrovare noi stessi. Un silenzio che
non è una pausa in cui mille pensieri e desideri ci assalgono, ma un
raccoglimento che ci porta pace interiore, che ci lascia respirare e scoprire
l’essenziale».
Si tratta dunque di un silenzio in cui guardiamo semplicemente Dio, in cui
lasciamo che Dio ci guardi e ci avvolga nel mistero della sua maestà e del suo
amore.
Sempre
il cardinale Ratzinger menzionava alcuni momenti di silenzio particolari. Ecco
un esempio: «Anche il momento dell’offertorio si può svolgere in silenzio.
Questa pratica in effetti si confà alla preparazione dei doni e non può che
essere feconda, purché la preparazione sia concepita non solo come un’azione
esteriore, necessaria allo svolgimento della liturgia, ma anche come un
percorso essenzialmente interiore; si tratta di unirci al sacrificio che Gesù
Cristo offre al Padre» (ivi). Vanno biasimate in tal senso le processioni di
offerte, lunghe e rumorose, che includono danze interminabili, in alcuni Paesi
africani. Si ha l’impressione di assistere a esibizioni folcloristiche, che
snaturano il sacrificio cruento di Cristo sulla croce e ci allontanano dal
mistero eucaristico.
Occorre
pertanto insistere sul silenzio dei laici durante la preghiera eucaristica,
come precisa monsignor Guido Marini: «Quel silenzio non significa inoperosità o
mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino
nell’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la
salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel
quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così
che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita».
Card.
Robert Sarah
L’Osservatore
Romano, 30 gennaio 2016
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