I vescovi di oggi? Tal quali quelli del 1790 con la Rivoluzione Francese
Ai giorni nostri diversi vescovi e politici cattolici avallano più o meno apertamente la rivoluzione antropologica in corso e leggi irricevibili per il credente, immaginando di modernizzare la Chiesa, portarla “al passo coi tempi”, mettendo così a tacere l’accusa di oscurantismo. Convinti che sarà un bene. Ne erano convinti anche i vescovi “riformisti” del 1790, agli albori della Rivoluzione Francese, quando consentirono l’approvazione della Costituzione civile del clero: certi che fosse un bene. E invece fu la catastrofe.
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di Danilo Rossi
Vuoi per metodi d’insegnamento vuoi per comodità mentale, spesso siamo stati abituati a credere che le rivoluzioni avvengano così, quasi all’improvviso.
Tutto va bene, poi per qualche motivo arriva il malcontento e quindi arriva la rivoluzione, con ciò che comporta. Molto semplice, molto logico. Ma non è così.
Le rivoluzioni, gli stravolgimenti arrivano da lontano: prima sono pensieri, poi divengono sussurri, parole ed infine urla. Non a caso un nobile un giorno disse a Luigi XVI: “Sotto Luigi XIV si stava zitti. Sotto Luigi XV si sussurrava. Ma sotto di voi si urla!”. Certo, non tutto è preordinato e lineare: si inizia con un’idea, a cui cammin facendo se ne aggiungono altre; si muta strategia e metodo per meglio farle accettare: ma tutto per arrivare ad un fine che, bene o male, è già disegnato.
Se aveste detto ad un vescovo, nella Francia del 1789: “Gli Stati generali vorrebbero espropriare i beni della Chiesa, sopprimere il 30% delle diocesi, far eleggere i vescovi dai fedeli e farli giurare sulla Costituzione, scristianizzare la nazione e massacrare quelli che s’oppongono”: tranne casi patologici avreste viso un’espressione d’orrore sul volto dell’interlocutore, quando non una fuga a gambe levate.
Le riforme vanno distillate lentamente, per gradi, in modo da farle accettare all’interlocutore. Si parte da un’idea assolutamente condivisibile, da cui poi far derivare – come logiche conseguenze – ulteriori e più estremi cambiamenti: una volta iniziato il percorso, è sempre più difficile tirarsi indietro. Finché, alla fine di una serie di piccoli passi, la strada percorsa è molta.
E’ il problema della diga: per quanto imponente e ben costruita, anche una piccola falla le è fatale. Pian piano s’allarga fino a far crollare l’intero edificio.
Per il bene della chiesa
Questo accadde in generale anche nella Rivoluzione francese, e più in particolare nelle singole “rivoluzioni” che – sommate – diedero il risultato generale di quella.
Guardiamo alla Costituzione civile del clero: le basi di questo stravolgimento vengono da lontano. Vengono certamente dall’ateismo e dall’anticlericalismo di una parte minoritaria dell’elite culturale e sociale, ma la sua vittoria non sarebbe stata possibile senza l’acquiescenza e la morbidezza di una maggioranza che all’origine si poteva definire più riformista che rivoluzionaria: sicuramente la borghesia agiata fatta di avvocati, alti funzionari dello Stato, proto-industriali e grandi commercianti, che ad un crescente potere economico desideravano unire il riconoscimento come forza politica. Ma anche i primi due “ordini”, clero e nobiltà.
Come valutare questa acquiescenza? Sarebbe molto lungo e complesso trattarne le cause: ma non si può negare che un suo ruolo lo ebbe il desiderio di conciliarsi con lo “spirito del mondo”, che allora era lo spirito dei lumi, tradotto nella ricerca del consenso, dell’applauso, dell’essere giudicati come “moderni” e conformi allo spirito del tempo.
Non a caso, François Furet così commenta il dibattito dell’Assemblea circa la Costituzione civile del clero: “Un discussione di politici, giuristi e proceduristi tra un cattolicesimo debole, asservito e quasi laicizzato, ed una Rivoluzione arroccata al proprio nuovissimo potere, che ricalcava il modello assolutista”.
Ad un diabolico Talleyrand (ricordiamolo: vescovo egli stesso), che si fece portavoce di tali cambiamenti, faceva da contraltare un disarmante Jean Boisgelin de Cucè arcivescovo di Aix-en-Provence, che all’Assemblea esclamava frasi come queste: “Una riforma del clero non può che consistere nel ritorno alle regole della Chiesa primitiva […] non saremo certo noi vescovi ad ostacolare questo ritorno a tali regole, che solo il tempo ha potuto indebolire con una lunga serie di abusi […]”. Era il 1790, e pare il 2016. Misteri della storia, che sempre si ripropone nelle dinamiche: perché cambieranno anche i tempi e la mentalità, ma non l’uomo.
Sia chiaro, Boisgelin non era un rivoluzionario, e nemmeno un pazzo: protestò contro i modi ed i metodi dell’Assemblea. Più tardi, inorridito dalle persecuzioni, prenderà egli stesso la via dell’esilio e farà pubblica ammenda al Pontefice per il suo comportamento di quegli anni. Però era un uomo del suo tempo, e del suo ceto ovvero l’alto clero: affezionato alla popolarità, agli applausi, a sembrare “al passo coi tempi”. Insomma, tenevano assai a ben comparire nei salotti dove i filosofi dei lumi – allora così alla moda – tenevano banco. E a loro modo di vedere lo facevano “per il bene della Chiesa”: pensavano che, tolte di mano le armi ai critici, la fede sarebbe rifiorita. Tolti gli “abusi”, tornati ad una vaga ed indistinta “chiesa primitiva”, molti sarebbero tornati al gregge cui in fondo erano sempre stati legati, ma da cui s’erano allontanati. Rimossi gli ostacoli, chissà quali magnifiche sorti e progressive si sarebbero avviate. Non fu così. Par di sentire Paolo VI: “Col Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno.”
Inizia la discesa…
La Costituzione civile del clero nacque in realtà da un proposito assai più modesto: ché, come abbiamo detto, presentarla da subito nella sua interezza avrebbe causato rigide opposizioni. Il mandante è da cercare nello “spirito dei lumi”, di cui erano imbevute le elites culturali ed economiche del tempo, specie nella Francia degli enciclopedisti. Uno spirito intriso fino alle midolla di razionalismo, che considerava una barbara superstizione da demolire per il bene del genere umano. Gli esecutori materiali, le classi elevate della società: molti nobili, quasi tutti i borghesi e diversi alti prelati. Anche i più moderati di costoro non negavano – pena l’essere additati come retrogradi – le “molteplici nefaste influenze” che la Chiesa avrebbe avuto sul progresso civile e sociale della Francia.
Sia ben chiaro: che la Chiesa godesse di diversi privilegi è innegabile; che alcuni di questi privilegi fossero obsoleti lo è altrettanto. Ma mentre per i riformisti la lotta a questi privilegi era l’ingenuo fine, per i rivoluzionari esso era solo un paravento, una scusa. Questi – in una mescolanza di ritrovato gallicanesimo e mai sopito giansenismo – si proponevano una Chiesa più libera, più moderna, più conforme allo spirito dei tempi e meno vincolata alla Sede di Pietro; quelli invece si proponevano la distruzione della Chiesa. Ma per ora erano minoranza. Se questo spirito dei lumi non avesse pervaso gran parte di dei primi, ciò che avvenne non sarebbe accaduto.
Il 2 novembre 1789 l’Assemblea aveva approvato (568 voti contro 346) la proposta di Talleyrand che la Chiesa – a causa del grave deficit del bilancio statale e della crisi economica in cui versava la Francia – “mettesse a disposizione” della nazione i propri beni. Le parole sono importanti: “mettere a disposizione” è un termine fumoso, e può significare molte cose. Questo è fondamentale: usare termini vaghi, in cui ciascuno possa vedere ciò che fa al caso suo, sia esso una scusa per ricredersi o un motivo per ritenere raggiunto il proprio scopo.
Dovessi inventarmi un paragone più moderno: è come se alla parola “aborto” si sostituisse “interruzione di gravidanza” : i pro vi vedrebbero comunque raggiunto lo scopo, ed i contro “a la pàge” potrebbero comunque spergiurare che l’adozione è esclusa. Ma questi inganni potevano aver successo nel XVII o XVIII secolo, non in epoche assai più avanzate e civili.
“Mettere a disposizione” : era la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici. Anche questo passo era stato preceduto da interventi “preparatori”: su tutti, l’euforia collettiva della notte del 4 agosto 1789, dove gli ecclesiastici proposero (mons. Fare, vescovo di Nancy) e votarono l’abolizione dei diritti feudali e delle decime. Abolire le decime significava poggiare le entrate ecclesiastiche solo sulla proprietà fondiaria della Chiesa, una proprietà spesso lasciata in totale gestione ed uso a contadini, mezzadri, piccoli allevatori e fittavoli, e che quindi tornava a buon pro dei più poveri. Togliere anche questa proprietà – oltre ad indebolire le classi meno agiate che si volevano favorire a parole – significava avere a propria discrezione la sopravvivenza del clero.
Infatti la nazionalizzazione dei beni comportò la presa in carico – in senso economico – del clero da parte della nazione, che s’impegnava a versare a ciascun membro del “primo ordine” un congruo trattamento economico. In tal modo il clero diventava a tutti gli effetti membro del corpo dei funzionari dello Stato.
Dicevamo: la proposta della Costituzione civile del clero nacque da una “scusa” assai più modesta. Visto che gli ecclesiastici erano ormai dipendenti dello Stato, il Comitato ecclesiastico dell’Assemblea venne incaricato di ridisegnare le diocesi ricalcandole sui nuovi confini dei dipartimenti civili. Non gran cosa, in fondo. Ma il presidente del Comitato conte Treilhard aveva ben altra missione: da subito (23 novembre 1789) propose al Comitato una bozza di “Costituzione civile del clero”, in cui la questione dei confini delle diocesi era la meno significativa delle riforme. Ben più importante, vi si proponeva in un colpo solo l’elezione dei vescovi da parte dei fedeli, la riaffermazione delle libertà gallicane ed il giuramento di fedeltà alla Costituzione da parte degli ecclesiastici.
Questo era troppo anche per i membri ecclesiastici del Comitato, che riuscirono a bloccare il progetto. Teilhard allora chiese all’Assemblea di raddoppiarne i membri: i nuovi arrivati ovviamente condividevano la visione del presidente e quindi la bozza venne presentata all’aula, che dopo un fiacco dibattito la approvò il 12 luglio 1790. Durante la discussione in Assemblea, gran parte degli ecclesiastici abbandonò i lavori. La disillusione era finalmente arrivata, ed era solo all’inizio. Il completo risveglio avrebbe richiesto ben altro tributo. Gran parte del clero si accorse finalmente che non c’era alcuna intenzione di aiutare o migliorare la Chiesa: si voleva solo annientarla. Per la prima volta, nell’aula risuonò la parola “scisma”. Eppure, accadde l’incredibile.
…che diventa rovinosa
Luigi XVI era, di suo, un brav’uomo. Certo non aveva un’intelligenza rapida e pronta: per capire le questioni aveva bisogno di tempo e calma. Per deliberare poi, la sua estrema indecisione richiedeva molteplici pareri: faceva suo quello che andava per la maggiore tra i suoi consiglieri. Tentennava insomma, e la Storia gli ha affibbiato un appropriato soprannome.
Già durante la discussione in aula, s’era sentito chiamato in causa da Boisgelin circa la convocazione di un Concilio nazionale: sondata l’Assemblea e capito che la maggioranza non avrebbe gradito, aveva fatto sapere di non gradire la proposta. Bisogna pur capirlo il pover’uomo: da poco (6 ottobre 1789) i parigini erano andati a bussargli all’uscio di casa a Versailles con tanto di fucili, e l’avevano fatto traslocare in città alle Tuileries: sia mai che l’aria di campagna l’avesse invogliato a fare una cavalcata fino ai confini del Regno per rifugiarsi dal cognato Asburgo. Logico quindi che fuggisse lo scontro. Visto che però era sinceramente devoto, aveva avviato dei contatti con Roma per capire che fare con quest’altra tegola che gli pioveva addosso. Sì, perché per la Costituzione l’Assemblea votava le leggi, ma il re doveva ratificarle.
Pio VI il 10 luglio 1790 con un apposito Breve aveva fatto sapere a Parigi che considerava scismatico il documento. Conosceva però l’individuo: gli fece sapere di fidarsi del parere dei due ecclesiastici del suo Consiglio, ovvero mons. Champion de Cicé, arcivescovo di Bordeaux e mons. Lefranc de Pompignan, arcivescovo di Vienne. Che avrebbe dovuto fare il Pontefice? Andar lui a Parigi a capire come andavano le cose? Faceva affidamento sui vescovi locali, che meglio conoscevano la situazione e che a suo parere avrebbero ben potuto individuare le giuste mosse per cercare di sventare il piano.
Eppure, accadde l’incredibile.
Lefranc era fuori dai giochi: anziano e malato, morirà a dicembre dello stesso anno.
Con Champion de Cicè invece si andava “sul sicuro”: era amico e protettore dell’ enciclopedista Turgot. Belle frequentazioni per un arcivescovo: come se un Pontefice andasse a lezioni da un pastore evangelico pentecostale. A suo tempo aveva disposto nella sua diocesi preghiere pubbliche per il successo degli Stati Generali. Visto però il Breve pontificio, ed essendo uno dei tanti che avrebbe voluto incontrare il pubblico favore con le terga ben salde sulla seggiola, si limitava a sussurrare a Luigi che purtroppo non c’era altro da fare che firmare.
Cupio dissolvi? Cecità oltre ogni limite? Buona fede a livelli patologici? Più facilmente, un miscuglio di tutto ciò. Era in buona compagnia, intendiamoci.
A nome di tutti i vescovi francesi (tranne 4), Boisgelin de Cucè pubblicò una “Esposizione dei principi” per protestare ma in cui, per dirla con Mathiez “tendeva più a dimostrare l’impossibilità di eseguire la riforma ecclesiastica senza l’avallo e la collaborazione della Chiesa francese, che non ad affermarne l’irricevibilità”. In privato l’arcivescovo consigliava moderazione al re, e soprattutto di non esasperare gli animi prima della Festa della Federazione (14 luglio 1790) “per non turbare la coscienza di quei vescovi che sono anche deputati all’Assemblea (come lui, NdA), che dovranno prestare giuramento di fedeltà alla nazione…”.
Luigi aveva chiesto al Pontefice di approvare la legge: nessuno dei suoi consiglieri gli aveva detto che il Papa non poteva approvarla. Scrisse a Pio VI: “La mia intenzione pubblicamente dichiarata è di prendere le misure necessarie per l’esecuzione della legge”: i suoi consiglieri sia ecclesiastici che laici – in particolare il conte di Montmorin, che verrà massacrato nel 1792 – da un lato lo incoraggiavano circa il buon esito della richiesta, dall’altro gli prospettavano la grave posizione in cui si sarebbe messo davanti all’Assemblea.
Il 1 Agosto 1790 lo stesso Boisgelin (in un carteggio rinvenuto nell’armadio di ferro delle Tuileries nel 1792) in pratica rassicurava il re sul lieto fine della supplica a Roma, ridotta a mere “forme di diritto canonico”: “laddove manchino le regolari forme canoniche, il Pontefice vi può supplire. Lo può, lo deve fare e lo farà, perché in questo senso vanno le richieste che Vostra Maestà gli ha fatto…” . Estenuato e pressato, il 24 Agosto 1790 Luigi XVI firmò. La Costituzione civile del clero divenne operativa.
Era un buon cattolico, Luigi: quando il Papa respingerà la normativa, farà voto di servirsi solo di preti “refrattari”. Tutti i vescovi tranne 4, davanti all’alternativa tra prestare giuramento diventando scismatici e la fedeltà a Roma, emigrarono. Compresi i campioni che avevano consigliato il re di firmare, lasciandolo solo a pelare la patata bollente di un’Assemblea che, ormai, stava diventando sempre più tracotante. Poco più di un anno dopo, i preti refrattari verranno ripagati con l’esilio. In capo a 2 anni, i massacri di settembre e l’avvio della ghigliottina. Circa 30.000 sacerdoti verranno uccisi, imprigionati o espulsi.
Parallelismi
Basta leggere i giornali, et voilà i Bosgelin ed i Champion. Il mondo è pieno di prelati che, per un applauso, cedono allo spirito del mondo. D’altra parte, c’è pieno anche di politici alla Luigi XVI. Non è una novità che la democrazia si basi sul consenso. Non a caso Churchill diceva: “La democrazia è un pessimo sistema, ma tutti gli altri sono peggiori”. Davanti ad un mondo che si va scristianizzando, è facile immaginare cosa bisogna fare per ottenere consenso ed applausi. Cedere. Ma non si illudano costoro: l’obiettivo non è modernizzare o migliorare la Chiesa o la società. E’ demolirle. Per fare posto ad una massa di pecore senza principi o remore, addomesticabile, prona ai voleri ed alle indicazioni del potente di turno. Salvo poi innalzare la ghigliottina anche per quelli di cui ci si è serviti per raggiungere lo scopo. Se prima rotolarono le teste di vescovi e preti “refrattari”, non molto dopo toccò anche agli stessi “costituzionali”.
Voglio dire: la coscienza è uno strumento terribile. Nelle mani di un cattolico poi è qualcosa di inesorabile: ti indirizza, ti blocca, ti sprona. Ti indica ciò che è giusto, rendendoti indifferente all’interesse, al guadagno, all’applauso. E questo non va.
Il potere non può tollerare queste indipendenze, questi ostacoli. Ha bisogno di gente davanti alla tv o negli stadi, gente docile cui bastino i moderni “panem et circenses”.
Questi prelati e questi politici che si dicono cattolici dovrebbero imparare dalla Storia: non sarà loro permesso di conciliare Cristo ed il mondo. La Storia è madre e maestra. Luigi XVI nel proprio testamento si pentì di aver firmato la Costituzione civile del clero. San Tommaso Moro, venuto a conoscenza che il suo accusatore John Rich, in cambio della falsa testimonianza per condannarlo, era stato nominato procuratore del Galles esclamò: “E’ già un cattivo affare perdere la propria anima per tutto l’oro del mondo. Ma per il Galles, poi!”. E per un applauso?
http://www.papalepapale.com/develop/i-vescovi-di-oggi-tal-quali-quelli-del-1790-con-la-rivoluzione-francese/
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