di Luisella Scrosati
L’Arcidiocesi di Cebu,
nelle Filippine, lo scorso 17 dicembre ha emanato una circolare con alcune
direttive sulla disposizione dell’arredo liturgico nelle chiese (clicca
qui). La circolare richiama continuamente a una non ben precisata
Conferenza liturgica della Commissione sulla Liturgia della Conferenza
Episcopale delle Filippine. Le indicazioni relative ad altare, ambone, candele,
etc. si situano chiaramente in una linea che, potremmo chiamare, minimalista.
Basti pensare a quella che riguarda la presenza del crocefisso sull’altare: in
barba alla raccomandazione di Benedetto XVI ed al suo esempio, «il crocefisso»,
dice la circolare, «può essere messo vicino all’altare… Non si esorta a porre
un piccolo crocefisso sull’altare, se c’è già un crocefisso visibile nella
chiesa o cappella. Se invece non c’è un crocefisso nella chiesa o cappella,
allora si può mettere un piccolo crocefisso sull’altare, con il corpo rivolto
verso i fedeli e non verso il sacerdote».
Questa
direttiva sembra ignorare, se non addirittura rigettare, l’insegnamento
e la prassi ripresa da Benedetto XVI. L’Ufficio delle
Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, spiegò in illo tempore le
ragioni della scelta del Pontefice di porre il crocefisso al centro dell’altare
(clicca
qui). Non si trattava di avere da qualche parte del santuario un’immagine
di Gesù crocefisso, quanto piuttosto di ridare un centro alla liturgia,
ri-orientarla, a motivo della grande diffusione degli altari “verso il popolo”.
Il Maestro delle Celebrazioni Pontificie, mons. Guido Marini, si premurava di
spiegare che «la posizione del sacerdote “verso il popolo”, pur non essendo
obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le
cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il
significato antico di preghiera “orientata” e suggerì di ovviare alle
difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocefisso
(cf. Teologia della
Liturgia, p. 88). Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il
suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben
visibile, pena la sua scarsa efficacia».
Come non
detto. Fa certamente impressione come, da un po’ di tempo a questa parte, la
fine di un pontificato
per certe persone significhi l’archiviazione dell’insegnamento di quel
Pontefice. Si veda come si sta liquidando senza troppi scrupoli, il magistero
di Giovanni Paolo II sulla famiglia. Quello però che più colpisce è
l’indicazione relativa alla posizione del tabernacolo per la custodia delle
Sacre Specie: «nella costruzione delle nuove chiese, il posto del tabernacolo
non dovrebbe trovarsi all’interno del santuario, ma a fianco, vicino al
santuario o in una cappella separata». La storia della custodia eucaristica è
certamente complessa e non uniforme, ma essa mostra che c’è una direzione
chiara e progressiva che guida i vari cambiamenti relativi al posto dove
custodire il Santissimo Sacramento (clicca qui).
Per i primi secoli c’è qualche indicazione sulla custodia nelle case dei
fedeli; già le Costituzioni apostoliche, però, databili verso la fine del IV
secolo, indicano il passaggio della custodia delle Sacre Specie nelle chiese,
in appositi luoghi, chiamati Pastophoria. Gradualmente scomparve l’uso di
conservare il Santissimo nelle case private e si affermò quello di custodirlo
nelle chiese.
Nel periodo
carolingio, la custodia nelle chiese divenne l’unica prassi e si stabilizzò in
diverse forme: la
colomba eucaristica (soprattutto in Francia e Gran Bretagna), il
propitiatorium, i tabernacoli a muro, la riserva nelle sacristie o anche le
“casette del sacramento” (Sakramentshäuschen),
che erano in realtà delle torri interne alle chiese. A determinare questo
passaggio dalle case alle chiese e poi, nelle chiese, verso modalità sempre più
curate, non semplicemente funzionali alla custodia dell’Eucaristia per la
Comunione degli ammalati, fu il progressivo approfondimento del grande mistero
dell’Eucaristia, spinto anche dalle controversie medievali (si pensi a quella
tra Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie); non ultimo, la grande massa di
popolazioni barbariche che si stavano convertendo al cristianesimo consigliò
maggiore cura nella custodia dell’Eucaristia, per evitare profanazioni. L’altro
grande punto di svolta si situa alla metà del XVI secolo quando, recependo
probabilmente un’indicazione dell’allora vescovo di Verona, la diocesi di
Milano ordinò di posizionare il tabernacolo sopra l’altare maggiore. La prassi
si diffuse gradualmente, sotto la spinta del grande San Carlo Borromeo.
Anche in questo caso è importante
capire le cause che favorirono questo cambiamento: la crisi protestante
comportò una diffusa messa in discussione della dottrina sulla presenza
sostanziale di Cristo nell’Eucaristia. La Chiesa si trovò quindi in dovere di
promuovere una più profonda pietà eucaristica; e più di ogni catechesi –
occorre ricordarlo anche per la pastorale contemporanea – furono i gesti a plasmare
la fede e la pietà: portare il tabernacolo sull’altare maggiore comunicava ai
fedeli, più di tante parole, la realtà della presenza di Cristo anche al di
fuori dell’azione liturgica. Dopo il Concilio Vaticano II si sono susseguiti
molti documenti e interventi, non sempre felici.
E, in effetti,
il risultato è sotto gli occhi di tutti: la pietà eucaristica è sempre più in
diminuzione, come già
si faceva notare nell’Instrumentum
Laboris del Sinodo del 2005: «Sarebbe da verificare se la
rimozione del tabernacolo dal centro dell'area presbiterale ad un angolo non
evidente e degno o in una cappella appartata […] non possa in qualche modo
contribuire alla diminuzione della fede nella presenza reale» (n. 41). È quanto
di più logico ci possa essere. Come si può pensare che le persone mettano
l’Eucaristia al centro della propria vita, se poi non la trovano al centro
delle proprie chiese? Anzi, non la trovano nemmeno nella chiesa? E che le cose
stiano proprio così, lo dimostra l’esortazione post-sinodale Sacramentum
Caritatis (2007), che al n. 69 afferma: «La sua corretta posizione [del
tabernacolo, n.d.r.], infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo
nel Santissimo Sacramento. È necessario pertanto che il luogo in cui vengono
conservate le specie eucaristiche sia facilmente individuabile, grazie anche
alla lampada perenne, da chiunque entri in chiesa. A tale fine, occorre tenere
conto della disposizione architettonica dell'edificio sacro: nelle chiese in
cui non esiste la cappella del Santissimo Sacramento e permane l'altare
maggiore con il tabernacolo, è opportuno continuare ad avvalersi di tale
struttura per la conservazione ed adorazione dell'Eucaristia, evitando di
collocarvi innanzi la sede del celebrante. Nelle nuove chiese è bene
predisporre la cappella del Santissimo in prossimità del presbiterio; ove ciò
non sia possibile, è preferibile situare il tabernacolo nel presbiterio, in
luogo sufficientemente elevato, al centro della zona absidale, oppure in altro
punto ove sia ugualmente ben visibile». Le parole sono chiare; e la
disobbedienza della Commissione Liturgica filippina pure.
Nel 1846, il
beato cardinale Newman, ancora anglicano, in visita a Milano (si noti che a
Milano tutte le chiese
avevano il portone centrale spalancato) ebbe a dire: «È davvero stupendo vedere
questa divina Presenza che dalle varie chiese quasi guarda fuori nelle strade
aperte, così che a S. Lorenzo abbiamo veduto che la gente si levava il cappello
dall'altra parte della strada quando passava». Se tornasse oggi, e non solo a
Cebu, piangerebbe come la Maddalena: «Hanno portato via il mio Signore»!
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