mercoledì 4 dicembre 2013

A proposito di CONCELEBRAZIONE

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA E MINISTERO PRESBITERALE
Goffredo Boselli





Se da oltre due decenni il rito della concelebrazione eucaristica è oggetto di dibattito in ambito teologico [1], da alcuni anni anche dal magistero della Chiesa provengono indicazioni circa la necessità di riflettere sull’attuale prassi della concelebrazione. Tra le propositiones formulate dal Sinodo sull’eucaristia del 2005, la propositio 37 dal titolo: Le grandi concelebrazioni, recita:

«I padri sinodali riconoscono l’alto valore delle concelebrazioni, specialmente quelle presiedute dal vescovo con il suo presbiterio, i diaconi e i fedeli. Si chiede, però, agli organismi competenti che studino meglio la prassi della concelebrazione quando il numero dei concelebranti è molto elevato» [2].

La questione è stata successivamente ripresa da papa Benedetto XVI nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007). Al n. 61, dal titolo: Le grandi concelebrazioni, si osserva:
«L’Assemblea sinodale si è soffermata a considerare la qualità della partecipazione nelle grandi celebrazioni che avvengono in circostanze particolari, in cui vi sono, oltre a un grande numero di fedeli, anche molti sacerdoti concelebranti. Da una parte, è facile riconoscere il valore di questi momenti, specialmente quando presiede il vescovo attorniato dal suo presbiterio e dai diaconi. Dall’altra, in tali circostanze possono verificar-si problemi quanto all’espressione sensibile dell’unità del presbiterio, specialmente nella preghiera eucaristica, e quanto alla distribuzione della santa comunione. Si deve evitare che tali grandi concelebrazioni creino dispersione. A ciò si provveda con strumenti ade-guati di coordinamento e sistemando il luogo di culto in modo da consentire ai presbiteri e ai fedeli la piena e reale partecipazione. Comunque, occorre tener presente che si tratta di concelebrazioni d’indole eccezionale e limitate a situazioni straordinarie» [3].

Riconoscendo «il valore di questi momenti», si osserva al tempo stesso che «in tali circostanze possono verificarsi problemi quanto all’espressione sensibile dell’unità del presbiterio, specialmente nella preghiera eucaristica». Il 10 marzo 2007 la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha convocato una sessione di lavoro con alcuni consultori ed esperti per riflettere sulle difficoltà emerse in merito alle grandi celebrazioni. Dal resoconto dei lavori pubblicato sulla rivista della medesima Congregazione «Notitiae», si annota che tra le problematiche emerse vi è stata quella relativa al numero dei concelebranti, per il quale si è fissato un criterio generale per una riflessione in materia, «la limitazione – almeno in alcuni casi – del numero dei concelebranti secondo precisi parametri» [4]. Si osserva inoltre che a riguardo delle grandi celebrazioni «sotto il profilo celebrativo varie sono le perplessità finora sollevate» [5] e la posizione dei concelebranti è uno degli «elementi su cui si è ribadita spesso l’attenzione» [6]. A questo riguardo è detto: «Si valutino con accortezza la posizione e la dislocazione dei concelebranti, in ottemperanza alla prescrizione, di profondo contenuto teologico, che essi siano vicini all’altare, ciò che viene spesso disatteso, con il rischio che alcuni sacerdoti, relegati a grande distanza dall’altare e sprovvisti di paramenti e libri, si improvvisino come concelebranti in senso pieno» [7].

A livello magisteriale si indicano dunque alcuni aspetti problematici che l’attuale prassi della concelebrazione pone, problematiche che sebbene circoscritte alle grandi concelebrazioni, e in particolare al numero dei concelebranti, sembrano tuttavia richiedere una più ampia riflessione teologica sull’attuale prassi della concelebrazione. A ben guardare, il fenomeno delle grandi concelebrazione è il riflesso su grande scala di una prassi ordinaria ormai ampiamente assunta all’interno della Chiesa cattolica. Sorgono allora spontanei alcuni interrogativi:

– sulla base di quali criteri teologici, ad esempio, limitare il numero dei celebranti in occasione di una grande celebrazione con la presenza di decina di migliaia di presbiteri, se nella prassi quotidiana delle comunità religiose, dei conventi e dei monasteri il concelebrare appare oggi l’unico modo per un presbitero di celebrare una eucaristia che non è chiamato a presiedere?

– che criterio assumere in circostanze straordinarie quando in quelle ordinarie il concelebrare è per i presbiteri un diritto ormai assunto, e quasi un obbligo morale interiore da assolvere?

Occorre giustificare in modo approfondito la ragione per la quale una regola liturgica valida nella prassi ordinaria non è più valida in una prassi liturgica straordinaria. Non è difficile dedurre che l’apparentemente semplice questione della limitazione del numero dei concelebranti è in realtà, già da sé sola, una questione teologica che investe la teologia e la prassi della concelebrazione, e di conseguenza il rapporto del presbitero con la celebrazione eucaristica. La questione del numero dei concelebranti è una questione teologica.

Il presente contributo non intende dare una risposta immediata e definitiva agli interrogativi posti dalla prassi delle grandi concelebrazioni e alla relativa questione della limitazione del numero dei concelebranti, quanto piuttosto offrire alcuni dati che possano essere utili per una riflessione sul tema. È infatti compito proprio, sebbene non esclusivo, della teologia liturgica riflettere e apportare il proprio contributo a questioni direttamente poste dal magistero della Chiesa nel campo della liturgia, offrendo così elementi necessari per quel discernimento che compete agli organismi competenti in vista di un’eventuale normativa liturgica ad hoc. Al tempo stesso, il lettore, specie se presbitero, può essere stimolato a riflettere su un rito liturgico che lo coinvolge in prima persona. Affrontare il tema della concelebrazione eucaristica in questo quaderno risponde, dunque, alla volontà di riflettere sul rapporto tra liturgia e presbiteri a partire da un preciso rito liturgico qual è la concelebrazione, rito che rappresenta il crocevia di questioni attinenti all’ecclesiologica, alla teologia eucaristica e alla teologia del ministero ordinato.
L’interrogativo che sta alla base delle difficoltà create dalle concelebrazioni con un grande numero di presbiteri e al quale è necessario dare una risposta sulla base della quale individuare poi un criterio per stabilire un numero massimo di concelebranti è, a mio parere, il seguente:
– i presbiteri sono sempre e in ogni circostanza tenuti a concelebrare quelle eucaristie che non sono chiamati a presiedere? In altre parole: un presbitero può celebrare l’eucaristia senza necessariamente porre gesti ministeriali e pronunciare formule sacramentali, mantenendo tuttavia una propria visibilità ministeriale all’interno dell’assemblea liturgica e per questo non celebrare semplicemente more laicorum?

La questione del numero dei concelebranti è in realtà strettamente legata all’alternativa tra il presiedere l’eucaristia o il concelebrarla di fronte alla quale oggi i presbiteri sono posti. Da qui la domanda: – vi è per i presbiteri una reale via di uscita all’alternativa tra presiedere l’eucaristia o concelebrarla?

Per rispondere a questi interrogativi articolerò il presente contributo in due parti. Nella prima parte presenterò una sintesi della questione del numero dei concelebranti nei testi della riforma liturgica, individuando in essi già una precisa indicazione. Nella seconda parte cercherò di mostrare come la grande tradizione della Chiesa, dal III al XX secolo, fornisca una possibile risposta al nostro interrogativo di fondo, se vi è un altro modo possibile per i presbiteri di celebrare l’eucaristia che non sono chiamati a presiedere. Nella conclusione indicherò come da questa lezione della storia la teologia possa trarre argomenti per proseguire e approfondire la sua riflessione critica sulla prassi della concelebrazione eucaristica nella Chiesa cattolica dopo il Vaticano II.

1. La questione del numero dei concelebranti nei testi della riforma liturgica conciliare

La riforma liturgica conciliare ha fissato un numero massimo di concelebranti? A livello di normativa liturgia, il testo fondamentale circa il rito della concelebrazione eucaristica è il Ritus servandus in concelebratione Missæ del 7 marzo 1965. Al n. 4 dei Prænotanda, dal titolo: De numero concelebrantium, si legge:
«Nei singoli casi, il numero dei concelebranti sarà stabilito tenendo conto della chiesa e dell’altare dove si svolge la concelebrazione, in modo tale che i concelebranti possano stare intorno all’altare, anche se non tutti toccano materialmente la mensa dell’altare»[8].

Il Ritus servandus non stabilisce, dunque, un numero massimo di concelebranti, ma indica un criterio: la vicinanza dei concelebranti all’altare, che essi possano stare attorno all’altare (circum altare stare possint) pur non toccando materialmente la mensa.
Da un confronto delle successive versioni del Ritus servandus si costata che il paragrafo relativo al numero dei concelebranti è stato progressivamente modificato. Nello schema che precede la redazione finale del Ritus servandus – lo schema n. 53, De concelebratione Missæ, del 20 dicembre 1964 – al n. 4 (De numero concelebrantium), al termine del paragrafo sopra riportato relativo alla prossimità dei concelebranti all’altare, è riportata una norma che non compare nella redazione finale: «I concelebranti, tuttavia, non saranno più di cinquanta. In casi particolari, la questione sarà sottoposta alla Sede Apostolica (Concelebrantes tamen plus quam quinquaginta. In casibus peculiaribus, res Apostolicæ Sedi proponatur)».

In un primo tempo, dunque, il Consilium aveva fissato a 50 il numero massimo di concelebranti, riservando alla Sede Apostolica, e neppure all’ordinario del luogo, la valutazione di casi specifici.
A. Bugnini, nel suo libro: La riforma liturgica, sul tema del numero dei concelebranti scrive:   «Sul numero dei concelebranti c’è stata una grande evoluzione. All’inizio il papa ne aveva dato come indicazione tra i 20 e i 25. Mancando l’esperienza, si temeva che un numero maggiore non consentisse uno svolgimento ordinato e dignitoso della celebrazione. Fuori Roma si insisteva perché il numero non fosse limitato. Il numero 50 teneva conto delle due esigenze. La soluzione definitiva lascia aperto il problema, limitandosi a stabilire che il numero venga fissato “nei singoli casi”…»[9].

Bugnini riporta di seguito il n. 4 del Ritus servandus e in nota aggiunge:
«È stata la soluzione che ha permesso di concelebrare a centinaia di sacerdoti e di vescovi, in occasione di congressi, sinodi e conferenze. Poco per volta il problema scomparve, tanto che non se ne parla più nelle norme definitive, entrate nel Messale»[10].

Se, in effetti, nell’Ordinamento generale del Messale Romano non viene fatto cenno al numero dei concelebranti, vi si trovano tuttavia delle precise indicazioni che possono apportare dei chiarimenti alla questione. Al n. 207 si legge:
«In presbiterio si preparino le sedi e i sussidi per i sacerdoti concelebranti»[11].

Se la norma prevede che le sedi dei concelebranti debbano essere in presbiterio, sono dunque le dimensioni del presbiterio stesso a stabilire il numero massimo di concelebranti: quanti il presbiterio ne può contenere. Al n. 215, si legge inoltre:
«Dopo che il celebrante principale ha recitato l’orazioni sulle offerte, i concelebranti si avvicinano all’altare disponendosi attorno ad esso, in modo però da non intralciare lo svolgimento dei riti, da permettere ai fedeli di vedere bene l’azione sacra e al diacono di avvicinarsi facilmente all’altare per svolgere il suo ministero» [12].

Secondo l’Ordinamento generale va da sé che i concelebranti avvicinandosi all’altare possano disporsi intorno ad esso (ad altare accedunt et circa illud consistunt) secondo il criterio e lo norma stabilita dal Ritus servandus sopra riportato.

L’evoluzione appare dunque chiara: si è passati dalla volontà di papa Paolo VI di limitare il numero dei concelebranti a 20 o 25, ai 50 della prima redazione del Ritus servandus, per poi giungere alla redazione finale dello stesso Ritus servandus, il quale non fissa un numero massimo ma indica il criterio di fondo: la prossimità dei concelebranti all’altare, «i concelebranti possano stare intorno all’altare (concelebrantes circum altare stare possint [13], criterio che è stato in seguito ripreso dall’Ordinamento generale del Messale Romano.

Questi sono i dati della normativa liturgica oggi in vigore, e attestano che sebbene non sia stato stabilito un numero massimo di concelebranti si è tuttavia indicato un criterio chiaro e preciso: che i concelebranti possano stare attorno all’altare.

Occorre ora proseguire la riflessione domandandosi la ragione per la quale la riforma liturgica ha deciso di non fissare un numero massimo di concelebranti, eliminando la norma che aveva inizialmente stabilito nelle prime redazioni del Ritus servandus. Come già annotato, A. Bugnini osserva che «fuori Roma si insisteva perché il numero non fosse limitato» [14], aggiungendo che la soluzione finale «ha permesso di concelebrare a centinaia di sacerdoti e di vescovi, in occasione di congressi, sinodi e conferenze» [15]. Sembra esserci dunque stata una certa pressione per non limitare il numero dei concelebranti, una limitazione che non avrebbe in effetti permesso le grandi concelebrazioni specie «in occasione di congressi, sinodi e conferenze».

Se si fosse fissato un numero massimo di concelebranti (sia esso 20 o 25 secondo l’indicazione di Paolo VI, oppure 50 come indicato nella penultima redazione del Ritus servandus) non sarebbe stato raggiunto uno dei principali scopi della riforma e dell’estensione del rito della concelebrazione voluta dal Concilio e attuata dalla riforma liturgica. In effetti, una delle principali ragioni della riforma del nostro rito fu quella di risolvere l’impasse creato dalla pratica delle cosiddette «messe private», rispetto alla visione comunitaria dell’eucaristia indicata dal movimento liturgico, prima, e fatta propria dal Concilio, in seguito. Durante i lavori del Concilio e successivamente della riforma liturgica, la riflessione circa il rito della concelebrazione fu condizionata dalla volontà di garantire ai presbiteri la possibilità di celebrare quotidianamente l’eucaristia senza dover celebrare privatim, soprattutto in circostanze particolari come i ritiri spirituali per presbiteri, i congressi, i santuari, ma anche le comunità sacerdotali stabili come i monasteri, i conventi, le case religiose e i seminari. Circostanze e situazioni nelle quali, fino a quel momento, si assisteva a un susseguirsi di «messe private».

Durante i lavori del Concilio e della riforma liturgica, gli esperti erano pienamente coscienti dell’utilizzo funzionale della concelebrazione eucaristica. Essi sapevano di utilizzare la concelebrazione anche per raggiungere uno scopo che questo antico rito, per sua stessa natura, non ha mai avuto. Ha osservato a questo riguardo A. Franquesa, il quel lavorò in prima persona alla riforma del rito in qualità di segretario del Coetus concelebrationis:

«Una concelebrazione quotidiana dove i presbiteri concelebrano senza il vescovo, concelebrazione che potremmo definire “privata”, in sostituzione delle “messe private”, non trova affatto conferma nella tradizione» [16].

Detto questo, è tuttavia necessario riconoscere che l’utilizzo funzionale della concelebrazione era all’epoca l’unico modo per risolvere l’impasse teologico e pastorale creato dalla prassi delle «messe private», e per assicurare ai presbiteri la celebrazione quotidiana di una eucaristia che non erano chiamati a presiedere, sia in circostanze ordinarie (monasteri e conventi) sia straordinarie (ritiri o congressi) nelle quali decine o centinaia di presbiteri si trovavano insieme. Limitare il numero dei concelebranti avrebbe costretto a perpetuare la pratica delle «messe private» specie nei conventi e nei monasteri, e di conseguenza non si sarebbe raggiunto uno dei principali scopi per il quale la concelebrazione venne riformata ed estesa.

La ragione per la quale la normativa liturgica non ha stabilito un numero massimo di concelebranti, ma ha semplicemente indicato il criterio di prossimità all’altare, ha fatto sì che nella prassi attuale si accordi generalmente poca attenzione al numero dei concelebranti, alla loro posizione e alla loro materiale vicinanza all’altare.

Un esempio, certamente estremo ma sintomatico dell’attuale sensibilità, è stato offerto dall’eucaristia presieduta da papa Benedetto XVI in occasione della Giornata mondiale della gioventù tenuta a Colonia nell’agosto 2005. Secondo le cifre gentilmente comunicatemi dall’allora maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, mons. P. Marini, quasi 15 mila presbiteri concelebrarono quell’eucaristia. La loro distanza dall’altare papale era di circa 150 metri. Inoltre, essendo situati ai piedi della collina sulla quale era collocato l’altare papale, ai presbiteri concelebranti era impedita la visione dell’altare, similmente dall’altare non era possibile vedere i concelebranti.

Questo è indubbiamente un caso straordinario ed estremo, ma al tempo stesso rappresenta un caso sintomatico dell’attuale rapporto tra presbiteri e concelebrazione eucaristica. Da situazioni eccezionali come questa e quelle invece più ordinarie e quotidiane, si deduce che concelebrare è diventato un diritto di ogni presbitero, una sorta di obbligo morale legato al ministero presbiterale. Come già si osservava, dalla prassi liturgica attuale si deduce che per un presbitero non esista una via di uscita all’alternativa tra il presiedere l’eucaristia o il concelebrarla: tertium non datur.

I presbiteri che più di altri sono posti d’innanzi all’alternativa tra presiedere l’eucaristia o concelebrarla sono quelli appartenenti alle comunità religiose e ai monasteri, dove nella stragrande maggioranza dei casi oggi la concelebrazione è un rito quotidiano, così che ogni celebrazione eucaristia è una concelebrazione eucaristica. Per il dibattito teologico in corso, la frequenza quotidiana della concelebrazione è un dato che, più di ogni altro, richiede un’attenta analisi e un’approfondita riflessione. Rilevare la frequenza quotidiana della concelebrazione nelle comunità religiose, significa in primo luogo osservare che dall’estensione della concelebrazione voluta dalla riforma liturgica del Vaticano II a oggi, la stragrande maggioranza delle comunità religiose e monastiche non conoscono altre forme di celebrazione eucaristica al di fuori della concelebrazione. Questo rappresenta un novum che la storia della liturgia non ha mai conosciuto né in Oriente né in Occidente.

Ma la questione più stringente è quale immagine del mistero della Chiesa danno quelle quotidiane celebrazioni eucaristiche nelle quali il numero dei concelebranti supera di gran lunga quello dei fedeli presenti. Se non i casi purtroppo non rari nei quali l’assemblea eucaristica è composta solo ed esclusivamente dai presbiteri concelebranti e da nessun fedele laico. Queste assemblee non sembrano rispettare la táxis tês ekklesías, ovvero l’ordine dell’assemblea liturgica cristiana che le fonti cononico-liturgiche antiche richiamano con particolare insistenza, consapevoli che l’assemblea liturgica è la più alta manifestazione del mistero della Chiesa.

A questo riguardo, nell’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, emanata nel 1996 dalla Congregazione per le Chiese orientali, si trova un secondo e decisivo criterio circa il numero dei concelebranti, da porre accanto al criterio della prossimità all’altare indicato dal Ritus servandus e dall’Ordinamento generale del Messale Romano sopra evocati. Al n. 57 dell’Istruzione titolato: La concelebrazione, dopo aver raccomandato, sulla scia di Sacrosanctum concilium n. 57, la concelebrazione insieme al vescovo oppure un altro sacerdote, quale manifestazione dell’unità del sacerdozio e del sacrificio e dell’unità di tutta la Chiesa, si precisa tuttavia che vi possono essere situazioni nelle quali concelebrare è sconsigliato:

«Vi possono essere ragioni che sconsigliano però la concelebrazione, in particolare quando il numero dei concelebranti sia sproporzionato rispetto a quello dei laici presenti. La concelebrazione liturgica, in quanto “icona” della Chiesa, deve rispecchiare la natura di comunità gerarchicamente articolata, comprendente non solo i ministri sacri ma tutto il gregge di coloro che, sotto la loro guida, vivono in Cristo. Si abbia cura che i concelebra-nti non siano in quantità tale da prendere posto nella navata dove stanno i fedeli, e quindi al di fuori del santuario in modo tale da impedire lo svolgimento dignitoso del rito» [17].

2. Trarre lezione dalla storia per proseguire la riflessione teologica

Giunti alla seconda parte, è doveroso riformulare la domanda di base e chiedersi se vi è un altro modo possibile per i presbiteri di celebrare l’eucaristia che non sia unicamente il presiederla o il concelebrarla. Per rispondere a questo interrogativo è necessario, come sempre nelle questioni legate alla vita della Chiesa, trarre lezione dalla storia ascoltando la grande tradizione della Chiesa al fine di progredire nella riflessione teologica e individuare possibili vie da percorre e prassi da avviare. Per rispondere alla nostra domanda, ci sia sufficiente ricordare tre dati storici di epoche diverse. Una testimonianza dei primi secoli, una di epoca medioevale e una moderna, testimonianze che sono degli autentici frammenti della prassi liturgica della Chiesa. Queste testimonianze sono vere e propri échantillions che possono essere confermati da altri numerosi dati che la storia attesta.

– I documenti canonico-liturgici dei primi secoli prescrivono con precisione la modalità con la quale accogliere nelle assemblee i vescovi e presbiteri e di altre Chiese. Nella Didascalia degli apostoli, documento di origine siriaca datato alla prima metà del III secolo, si stabilisce quanto segue:
«Se un presbitero arriva da un’altra assemblea, voi presbiteri accoglietelo al vostro posto (communiter in loco vestro), e se è vescovo siederà con il vescovo che condividerà con lui il suo posto. Tu, o vescovo, gli domanderai di parlare al tuo popolo poiché i consigli e le ammonizioni degli estranei sono molto utili… E pronuncerà le parole nell’azione di grazie, ma se per saggezza ti lascia questo onore e non vuole offrire, pronuncerà invece le parole sul calice (super calicem dicat)» [18].

Questo passaggio sarà ripreso verso il 380 nel libro II delle Costituzioni apostoliche, tuttavia il compilatore correggerà l’invito rivolto al vescovo ospite di pronunciare le parole «super calicem», facendo invece pronunciare al vescovo ospite la benedizione sul popo-lo: «E se non vuole offrire, tu lo persuaderai a dare almeno la benedizione al popolo» [19].
Due sono gli elementi da trarre da questa prima testimonianza in ordine al nostro interrogativo. Primo elemento: il presbitero ospite è invitato a prendere posto tra i presbiteri della Chiesa che lo ospita all’interno della «comunità presbiterale», del «presbytéron koinonikós», si legge nel testo greco delle Costituzioni apostoliche. Questo significa che all’interno dell’assemblea liturgica i presbiteri hanno un posto specifico e dunque sono riconoscibili dai fedeli presenti; tuttavia non è specificato se essi fossero tenuti a porre gesti particolari o indossare abiti liturgici propri. Secondo elemento: il testo ci informa anche del modo con il quale deve essere accolto un vescovo ospite e ciò che egli è invitato a fare dal vescovo locale.

Abbiamo qui attestate le più antiche modalità di condivisione della presidenza eucaristica tra due vescovi: al vescovo ospite è offerta la possibilità di predicare e di pronunciare le parole sul calice, quest’ultima successivamente sostituita dalla benedizione sul popolo. Appare decisivo questo dato: il vescovo ospite non è obbligato per il suo ministero a pronunciare parole o porre gesti sacramentali nel corso dell’eucaristia, ma a lui è semplicemente rivolta una richiesta, un invito. La Didascalia e le Costituzioni apostoliche ordinano al vescovo locale: «Tu, o vescovo, gli domanderai (petes eum) di parlare al tuo popolo». Il redattore delle Costituzione corregge e aggiunge anche «gli proporrai di offrire l’eucaristia». Inoltre, prevedono che il vescovo ospite possa «per rispetto e sapienza» declinare l’invito e lasciare al vescovo locale la preghiera dell’anafora.

In sintesi, non c’è alcun obbligo ex ministerio, ossia nessuna norma disciplinare, canonica o liturgica e tanto meno morale derivante dal ministero episcopale di porre atti e pronunciare formule sacramentali all’interno di una sinassi eucaristica. La predicazione, le parole sul calice e la benedizione al popolo non sono un diritto, ma il frutto di un invito. In sintesi, la Didascalia e le Costituzioni apostoliche stabiliscono unicamente il posto da occupare nell’assemblea, i presbiteri all’interno del presbytéron koinonikós e il vescovo ospite accanto al vescovo locale. Sono tenuti a occupare la sede loro assegnata, così che il posto all’interno dell’assemblea liturgica è, da come emerge da questi documenti, il solo elemento che li distingue dagli altri fedeli e dona loro una visibilità ministeriale propria.

– Il secondo frammento, di epoca medioevale, è la lettera detta Epistola missa una, inviata nel 1224 da Francesco d’Assisi ai suoi fratelli riuniti in capitolo. Tra le altre cose si legge nella lettera: «Ammonisco ed esorto nel Signore che, nei luoghi dove i fratelli risiedono, sia celebrata una sola messa al giorno, secondo la norma della santa Chiesa. Se, tuttavia, ci fossero in uno stesso luogo più sacerdoti, l’uno si accontenterà, per amore della carità, di ascoltare la celebrazione dell’altro sacerdote, poiché il Signore Gesù colma dei suoi doni i presenti e gli assenti che sono degni di lui» [20].

Con questa lettera capitolare Francesco stabilisce due norme. La prima: nei conventi dei suoi frati deve essere celebrata una sola eucaristia al giorno anche quando ci sono più presbiteri, a differenza dei certosini ai quali alla fine del XII secolo era stato permesso di celebrare più messe private. Francesco fissa una seconda norma: nei conventi dove sono presenti più frati presbiteri «l’uno si accontenterà, per amore della carità, di ascoltare la celebrazione dell’altro sacerdote (contentus auditu celebrationis alterius sacerdotis)». Questa lettera attesta dunque che ancora nel XIII secolo, quando la prassi delle messe private era già ampiamente affermata, un superiore poteva legittimamente prescrivere che nelle comunità ai lui soggette fosse celebrata una sola messa al giorno e che i presbiteri di un convento si accontentassero di «ascoltare» l’eucaristia presieduta da uno di loro e lo faceva appellandosi alla norma della santa Chiesa (secundum formam sanctae Eccelsiae). Il verbo impiegato da Francesco per definire la modalità di partecipazione dei presbiteri all’unica eucaristia è audire, ovvero «ascoltare» la celebrazione com’è proprio dei fedeli laici, escludendo di fatto ogni gesto o parola sacramentale. Va da sé che, a differenza della Didascalia e delle Costituzioni apostoliche, Francesco non debba stabilire un posto particolare per i frati, in quanto era il coro del convento il luogo da dove partecipare alla celebrazione eucaristica.

– Infine, il terzo frammento è la memoria della prassi in uso fino al 1922, secondo la quale in conclave non si celebrassero messe private ma una sola eucaristia al giorno, che i cardinali ascoltavano, essendo la concelebrazione allora esclusa. Ancora Pio X nella Vacante Sede Apostolica del 1904 prevede che i cardinali ricevano la comunione durante la messa celebrata all’inizio della riunione per l’elezione [21]. Solamente Pio XI modificò questo uso antichissimo e nel Motu proprio Cum proxime (1 marzo 1922) permise ai cardinali la celebrazione della messa privata [22].

Questi tre frammenti della grande tradizione della Chiesa, attestano che ininterrottamente dal III al XX secolo i vescovi e i presbiteri per celebrare l’eucaristia non fossero tenuti a porre atti o pronunciare parole sacramentali proprie del loro ministero ma che, per utilizzare le parole di Francesco d’Assisi, si accontentavano di partecipare «auditu» all’eucaristia presieduta da un altro presbitero, ricevendo la lui comunione.

Pertanto, l’alternativa tra presiedere o concelebrare alla quale i presbiteri oggi sono confrontati è un’alternativa priva di conferma nella grande tradizione della Chiesa, la quale riconosceva che i presbiteri celebravano l’eucaristia sebbene non ponessero atti ministeriali o pronunciassero formule sacramentali.

3. Conclusioni
La problematica delle «grandi concelebrazioni» e la conseguente questione del numero dei concelebranti posta in questi ultimi anni dal magistero della Chiesa ci sono parse strettamente legate all’alternativa tra il presiedere l’eucaristia o il concelebrarla, alla quale oggi i presbiteri sono spesso tenuti. La riflessione compiuta ci ha portati a due conclusioni.

a) La normativa liturgica in vigore – attestata dal Ritus servandus e dall’Ordinamento generale del Messale Romano – sebbene non fissi un numero massimo di concelebranti, stabilisce tuttavia un criterio decisivo: «Il numero dei concelebranti sarà stabilito… in modo tale che i concelebranti possano stare intorno all’altare». È questo un criterio autenticamente liturgico, comunemente osservato anche dalle liturgie ortodosse e orientali. Un secondo criterio in base al quale stabilire l’opportunità di una concelebrazione è indicato dall’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, la quale non esita a sconsigliare la concelebrazione «quando il numero dei concelebranti sia sproporzionato rispetto a quello dei laici presenti». Da questo criterio si deduce la non opportunità di una concelebrazione dove il numero dei presbiteri concelebranti supera quello dei laici presenti e, a maggior ragione, la non opportunità di un’assemblea formata da soli concelebranti.

b) La seconda conclusione risponde direttamente alla domanda alla quale abbiamo cercato una possibile risposta: vi è per i presbiteri una reale via di uscita all’alternativa tra presiedere l’eucaristia o concelebrarla? La riflessione teologica supportata dai dati della tradizione della Chiesa mostra che è possibile sia superare l’alternativa posta oggi ai presbiteri di presiedere o di concelebrare. Secondo un’antica tradizione della liturgia romana, che la prassi attuale della concelebrazione ha posto in ombra, i presbiteri che non sono chiamati a presiedere una celebrazione eucaristica né a concelebrarla possono celebrare l’eucaristia nella visibilità ministeriale che è loro propria all’interno della Chiesa (in altro linguaggio si direbbe «da preti», e «secondo la loro dignità»), essendo chiaramente riconoscibili per il posto a loro riservato e per l’abito corale indossato. Questa antica prassi liturgica attesta che è possibile celebrare l’eucaristia come presbiteri all’interno dell’assemblea senza necessariamente porre gesti ministeriali e pronunciare formule sacramentali.


[1] Cf. G. Boselli, Les débat sur la concélébration après Vatican II, in «La Maison-Dieu» 224 (4/2004) 29-59.
[2] Sinodo dei vescovi. XI Assemblea gen. ordinaria, Eucaristia vita e missione della Chiesa. Elenco finale delle proposizioni, in «Il Regno-documenti» 978 (19/2005) 546-554, p. 552.
[3] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, LEV, Città del Vaticano 2007, pp. 95-96.
[4] F. Arinze - A.M. Ranjith, Le grandi celebrazioni: una riflessione in corso, in «Notitiae» 493-494 (2007) 535-542, p. 539.
[5] Ibid., p. 540.
[6] Ivi.
[7] Ibid., p. 541.
[8] «Numerus concelebrantium, singulis in casibus, definiatur ratione habita tam ecclesiæ quam altaris in quo fit concelebratio, ita ut concelebrantes circum altare stare possint, etsi omnes mensam altaris immediate non tangunt», Ritus servandus in concelebratione Missae et Ritus Communionis sub utraque specie, LEV, Città del Vaticano 1965, p. 14 (nostra trad.).
[9] A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), CLV-Ed. Lit., Roma 1997, p. 137.
[10] Ibid., nota 8.
[11] Ordinamento gen. del Messale Romano, LEV, Città del Vaticano 2004, n. 207, p. 62.
[12] Ibid., n. 215, p. 63.
[13] Ritus servandus, cit., n. 4.
[14] Bugnini, La riforma liturgica, cit., p. 137.
[15] Ibid., nota 8.
[16] A. Franquesa, La concelebratión a los 16 años de su restauración, in P. Jounel - R. Kaczynski - G. Pasqualetti (edd.), Liturgia opera divina e umana. Studi sulla riforma liturgica offerti ad A. Bugnini, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1982, pp. 291-306, p. 298.
[17] Congregazione per le Chiese orientali, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, LEV, Città del Vaticano 2006, n. 57, pp. 59-50.
[18] Didascalia II, 58, 1-3, in F.X. Funk (ed.), Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Bottega d'Erasmo, Torino 1979 (ed. anas.), pp. 166.168.
[19] Costitutioni apostoliche II, 58, 1-3, in M. Metzger (ed.), Les Constitutions Apostoliques, vol. I, du Cerf, Paris 1985, pp. 320.322.
[20] E. Menestò - S. Brufani (edd.), Fontes Franciscani, Porziuncola, Assisi 1995, pp. 99-104, 101-102.
[21] Pius X, Constitutio apostolica Vacante Sede Apostolica (25.12.1904), in Pii X Pontificis Maximi Acta (1908), pp. 139-288.
[22] Pius XI, Motu Proprio Cum proxime (1.3.1922), in «Acta Apostolici Sedis» 14 (1922) 145-146.

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