Perché i preti non portano più la talare?
L’abito clericale usato in pubblico in Italia non è solo la talare o il clergyman
Don Cristian Domenico Comini |
Il 5 ottobre scorso è stato beatificato Rolando
Maria Rivi che da seminarista difese la «talare» con fede irrinunciabile:
sopportò le torture e si fece uccidere dai partigiani comunisti, nel 1945,
piuttosto che abbandonare la sua veste nascondendosi in abiti civili ... è
beato! Se la «talare» è il segno dell’appartenenza a Dio, perché la maggior
parte dei preti non la porta più? Molti di essi non portano neppure altri
«segni»: come fa la gente che cerca un contatto con Dio a riconoscere il prete?
Gino Galastri
Risponde p. Valerio Mauro, docente di Teologia
sacramentaria alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale.
Credo che la domanda del lettore nasca dal
desiderio della fede di un battezzato di poter riconoscere le persone che si
sono impegnate nel ministero per prendersi cura della stessa fede dei fratelli.
L’atmosfera culturale della nostra società, descritta come secolarizzata e
«postmoderna», tenderebbe a influenzare il comportamento dei ministri della
chiesa, favorendo in essi l’abbandono della veste clericale. In questo senso
troviamo delle indicazioni precise in un documento della Congregazione per il
Clero, il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, del 31 gennaio
1994, che ci permettiamo di citare, facendo seguire un breve commento.
Al n. 66 si precisa che: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero - uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri - sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. Il presbitero deve essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa. Per questa ragione, il chierico deve portare "un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza episcopale e secondo le legittime consuetudini locali". Ciò significa che tale abito, quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici, e conforme alla dignità e sacralità del ministero. La foggia e il colore devono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi, sempre in armonia con le disposizioni del diritto universale».
Al n. 66 si precisa che: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero - uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri - sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. Il presbitero deve essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa. Per questa ragione, il chierico deve portare "un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza episcopale e secondo le legittime consuetudini locali". Ciò significa che tale abito, quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici, e conforme alla dignità e sacralità del ministero. La foggia e il colore devono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi, sempre in armonia con le disposizioni del diritto universale».
Il testo afferma il valore dell’abito clericale
per i chierici, ma una Nota esplicativa del Pontificio Consiglio per i testi
legislativi (22 ottobre 1994) ricorda l’esclusione dall’obbligo i diaconi
permanenti. Il rinvio alle precisazioni compito delle varie Conferenze
Episcopali era già stato accolto dalla Conferenza Episcopale Italiana che aveva
prescritto come in Italia «salvo le prescrizioni per le celebrazioni
liturgiche, il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman»
(delibera CEI n° 12 del 23 dicembre 1983). L’abito clericale, dunque, nell’uso
pubblico in Italia non è solo la talare ma anche il clergyman. Con questa
disposizione si cerca di coniugare il senso di decoro e semplicità con la
distinzione dalla maniera di vestire dei laici. Possiamo ricordare come la
distinzione dell’abito ecclesiastico cominciò a diffondersi piano piano dal V
secolo, attraverso varie mutazioni.
Le motivazioni portate dal documento della
Congregazione sono da una parte il valore pubblico del ministero presbiterale e
dall’altra il segno di appartenenza e dedizione a Dio e alla Chiesa che il prete
deve indicare nel suo apparire in pubblico. Ma non è da sottovalutare la
precisazione iniziale che mostra nel comportamento del prete la prima e
ineludibile manifestazione del ministero in favore del popolo. Nel grande
valore dei segni sta la loro stessa fragilità: hanno bisogno di essere
sostenuti dalla vita reale per non cadere in contraddizione e suscitare
scandalo alla fede degli uomini.
Credo che nel contesto culturale della nuova
evangelizzazione il valore distintivo dell’abito ecclesiastico debba essere
coniugato con la sua semplicità e povertà. Per la mia tradizione spirituale non
posso non ricordare come san Francesco d’Assisi desiderasse che i vasi per la
celebrazione liturgica fossero puliti e preziosi, ma l’abito dei suoi frati
fosse povero e semplice. Dalla semplicità e povertà di un prete, in tutti i
suoi aspetti, nasce quella particolare bellezza evangelica che mostra più di
ogni altra cosa la sua dedizione a Cristo e al suo Vangelo.
sources: Novena.it
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