martedì 3 settembre 2013

ineffabile mistero

Quando la pastorale diventa l'alibi per non affrontare le questioni





Un anziano gesuita, raccontando delle missioni del suo ordine secoli fa tra i pagani dell'America Latina, citava un accorgimento nella costruzione delle chiese: quello di avere i pavimenti leggermente in pendenza e con una canalina di scolo. La gente del luogo non aveva ancora familiarizzato col concetto dell'andare alla toilette, ed era usa urinare ovunque si trovasse: l'accorgimento permetteva di ripulire la chiesa con più facilità senza dover proibire le sacre funzioni a chi non fosse ancora sufficientemente civilizzato.

Non molti anni fa il rettore del seminario disse che nel catechizzare i giovani non si può subito condannare un certo peccato solitario, perché altrimenti li si fa fuggire dalla Chiesa e si perde l'unica occasione di catechizzarli.

Si tratta di due episodi di cura pastorale: il primo è discutibile perché relativizza il galateo, il secondo è discutibile perché relativizza la morale cristiana.

Oggi infatti il termine "pastorale" viene troppo spesso adoperato per nascondere verità scomode, se non irriferibili. Rimosso per motivi pastorali. Spostato per motivi pastorali. Non adeguato per motivi pastorali. «Sai, andrebbe anche bene, ma pastoralmente non è molto opportuno ... » È in nome della pastorale che in tempi recenti abbiamo visto amministrata la Santissima Eucarestia a dei conclamati impenitenti peccatori contro natura. Sbigottito, con queste mie stesse orecchie ho addirittura sentito un sacerdote criticare la "pastorale" di padre Pio, che in confessionale sapeva essere anche molto rude e severo. Chi non ha la santità e i doni di padre Pio fa certamente bene ad usare prudenza, ma quel che normalmente vediamo ovunque oggi è un atteggiamento di servilismo e codardia nascosto dalla foglia di fico dell'opportunità pastorale.

Insomma: "pastorale" non significa indiscutibile.
Tanto più quando in nome di una non meglio precisata "pastorale" si intendono piegare i diritti di Dio alle comodità degli uomini.

Si tenta spesso di sostenere che la liturgia andrebbe trattata non in termini liturgici «ma a livello puramente pratico e pastorale». Con lo stesso criterio, presto dichiarerà che la matematica va trattata non in termini matematici ma in termini di ippica.

Si opera una pericolosa scissione separando la liturgia (il culto dovuto a Dio) in due tronconi: da un lato l'aspetto per così dire "tecnico" (organizzazione, storia, studio...) e dall'altro lato l'aspetto per così dire "umano" (pratica, pastorale, "esigenze" della gente...). Se ci fate caso, questo è lo stesso genere di errore commesso dai pensatori della modernità: per esempio quando si è scisso Nostro Signore in "Gesù dei Vangeli" e "Gesù storico", quando si è scissa la Chiesa tra "gerarchia" e "carismi", quando si è scissa la morale in ciò che si "studia" ed in ciò che si "può" dire (vedi rettore del seminario sopra citato), ecc.

Tutti i liturgisti di oggi avranno a che fare con un'enormità di proposte pastorali di "miglioramenti" della Messa, interrogandosi (evidentemente non ancora abbastanza) sui motivi per cui ancor oggi ci sia molto da migliorarla, incentivarla, renderla "commestibile", ravvivarla, per avere silenzio anziché chiassate, adorazione anziché il marcar presenza, preghiera anziché attesa che finisca, partecipazione anziché partecipazionismo e attivismo...).

Perché il Concilio pastorale Vaticano II ha prescritto un "restauro" della liturgia? Come mai il citato restauro ha prodotto proprio un nuovo rito? Come mai si è vista un'irrefrenabile pandemia di abusi liturgici? Come mai la liturgia, salvo rarissime eccezioni, si trascina stancamente? Che rapporto c'è tra l'allarmante caduta della pratica di fede e la pastorale del venire incontro alle "esigenze dell'uomo di oggi"? E la liturgia rispetta con esattezza le indicazioni del Vaticano II?

E come mai anziché inserire il dogma del contesto si pretende inserire il contesto nel dogma?
Sono queste le domande su cui riflettere. Si crede che con qualche "provvedimento pastorale" in campo liturgico) possa aggiustare e far rifiorire la liturgia dopo anni di abusi e di stancante trascinarsi tra parroci-clown perennemente ossessi dall'urgenza di inventarsi qualcosa di nuovo per risvegliare i fedeli, e di assemblee fai-da-te che se la trasformano in un' autogestione.

Giovanni Paolo II nel 1980, appena due anni dopo l'inizio del suo pontificato, già chiese a tutti i vescovi un resoconto sulla liturgia dovendo però nel 1984 scrivere nuovamente loro (nella Quattuor abhinc annos) per regolare l'irrisolto problema liturgico e per lamentarsi che si asseriva di aver risolto tutto. Giovanni Paolo II insistette ulteriormente nel 1988 (col suo motu proprio Ecclesia Dei).

Segue poi a Benedetto XVI ed il suo Summorum Pontificum, che ha dovuto ricordare che il Vetus Ordo non è mai stata abolita e che non c'è bisogno di permessi per celebrarla. 

Contro tutto questo si afferma che la Chiesa, essendo «ormai» «globalizzata», con un episcopato «diversificato», deve potersi esprimere in ogni luogo secondo il "genio" degli indigeni: ogni paese deve essere libero di fabbricarsi la propria liturgia. Come se la catholica non fosse da sempre la "chiesa universale", capovolgendo come niente fosse il criterio usato da San Pio V proprio per mantenerla tale ed eliminare i localismi. Come se il Santo Sacrificio fosse questione di "culture" e non un mistero indicibile.

Come a dire che l'autorità della Chiesa non conta più: ognuno celebri quel che gli piace, ossia ognuno creda in ciò che gli piace (dopotutto lex orandi, lex credendi!)

Se la liturgia è il culto dovuto a Dio, allora la liturgia non è uno
 fabbricata dagli uomini, ma qualcosa che discende direttamente da N. S. Gesù Cristo, da quell'Ultima Cena, senza voli pindarici, senza improvvise evoluzioni, senza riprogettazioni a tavolino, senza invenzioni tese a contentare "l'uomo di oggi".
Il culto dovuto a Dio non può coincidere con le estemporanee ispirazioni umane. Pretendere che la liturgia sia da "adattare" agli uomini (ai tempi, ai luoghi) significa pretendere che a normare i diritti di Dio siano le fantasticherie umane. Tutto il pernicioso impianto del "darsi da fare" e del "partecipare attivamente" nasce proprio su questo errore: col risultato che spesso  l'assemblea celebra sé stessa. 


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