domenica 20 novembre 2011

La Festa di N.S. Gesù Cristo Re

 

 

L'istituzione della festa
L'ultima domenica di ottobre, secondo il calendario liturgico del Rito Romano extraordinario, si festeggia la Regalità di Cristo. La festa fu introdotta nel 1925 da Papa Pio XI, con l'Enciclica "Quas Primas", a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell'anno. Il Papa così scriveva: «Con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l'ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente». E soggiungeva: «E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. Basta infatti avvertire che mentre l'oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. (...) Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti».
I Profeti annunciarono la Regalità del futuro Messia

Gesù Cristo, preannunciato e atteso nell'Antico Testamento come Messia, Salvatore, fu specialmente indicato nella sua autorità regale; la sua opera fu espressa nella costituzione di un regno che non sarebbe mai più venuto meno, che avrebbe esteso i suoi confini a tutto il mondo. Giacobbe, vicino a morire, benedisse i suoi figli e ad ognuno di essi preannunciò la sua specifica caratteristica o missione. A Giuda, il suo quarto figlio disse: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda nè il bastone del comando tra i suoi piedi, finchè verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli». (Gen 49, 10)
Nel Salmo 2 è descritta la congiura del re e delle genti della terra contro Dio e il suo Cristo. Dio irride dal cielo questi vani sforzi e per Lui parla il suo Cristo, il Messia: «Annunzierò il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra. Le spezzerai con scettro di ferro, come vasi di argilla le frantumerai"». Da queste parole ricaviamo che il Messia è vero Figlio di Dio, costituito Re da Dio. Dov'è descritto con più vivida luce il regno del Messia?
Il Salmo 45, il carme nuziale, dalla celebrazione del matrimonio tra Salomone e la figlia del Re d'Egitto, si solleva alla celebrazione delle nozze più eccelse e più feconde tra Cristo e la sua Chiesa. «Il tuo trono, Dio, dura per sempre; è scettro giusto lo scettro del tuo regno».
Nel Salmo 72 sono affermate tutte le qualità del regno. L'eternità: «Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli»; la sua natura spirituale: «Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna»; la sua universalità: «E dominerà da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra».
Tra i Profeti, Isaia, al capitolo IX, scrive il sublime vaticinio: «Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti».
Geremia, che al capitolo XXIII predice il rampollo giusto che dovrà nascere dalla discendenza di Davide: «Regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra».
Daniele al capitolo II preannuncia da parte del Re del cielo la costituzione di un regno che «non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso ad altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per sempre». Al capitolo VIII, dopo la contemplazione della successiva elevazione e conseguente caduta di quattro grandi monarchie, che dovevano preparare l'impero universale del Messia, scrive: «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è taleche non sarà mai distrutto». Ancora una volta la sovranità del Messia ci si presenta divina nella sua origine, universale nella sua estensione, eterna nella sua durata.
Come non ricordare quello che Zaccaria al capitolo IX predisse intorno al Re umile che sarebbe entrato in Gerusalemme quale giusto e Salvatore? «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra».





Il Vangelo, il Nuovo Testamento e la Regalità di Gesù Cristo

Nel Vangelo la Regalità di Cristo è continuamente affermata in modo più o meno esplicita.

1. Quando l'Arcangelo Gabriele si presenta a Maria SS. in Nazareth per annunziarle il grande mistero, che dietro il suo consenso avrebbe dovuto compiersi, così parla: «Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». (Lc 1, 31-33)

2. I Magi apprendono per la voce di Dio e il segno della stella che è nato il Messia. Partono alla ricerca guidati dalla stella e arrivano a Gerusalemme dove regna il sanguinario Erode. Con prontezza domandano: «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». (Mt 2, 2). Apprendono che deve nascere a Betlemme e si avviano verso questa città; fuori di Gerusalemme riappare la stella che li accompagna da Gesù Bambino; lo venerano, lo adorano e gli offrono i tre preziosi e mistici doni: oro, incenso e mirra, riconoscendolo così, in primis, vero Re.

3. Dopo la prima moltiplicazione dei pani, le folle, ammirate, lo vogliono proclamare Re. Non è questa forma di regalità materiale, contingente, che Gesù vuole. Giunto il tempo opportuno, Gesù stesso si dichiara Re. L'episodio è quello ripreso dalla liturgia della Messa del giorno. I Giudei avevano accusato Gesù Cristo di volersi fare re; Pilato quindi gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?». Ovvero: se me lo domandi nel senso puramente terreno e politico con cui tu intendi la regalità, la risposta sarà negativa perchè non voglio essere re in questo senso. Ecco perchè Gesù dichiara: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Tuttavia Pilato ancora gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità». (Gv 18, 33-37)
I soldati, approffitando del fatto che Gesù Cristo si era dichiarato re, lo schernirono crudelmente gettandogli sulle spalle uno straccio di porpora, mettendogli tra le mani una canna per scettro e sul capo una corona di spine. Dio si serve anche di questi miserabili per presentarci Gesù nelle insegne della sua regalità dolorosa e divina. Pilato, presenta in quelle stesse insegne al popolo dell'epoca e a tutto il genere umano, Gesù con le famose parole: «Ecco il vostro re!». E' ancora Pilato che scrive in tre lingue il titolo da apporre sulla Croce: Jesus Nazarenus Rex Judaeorum; ed ai Giudei che ne reclamano la correzione, risponde: «Ciò che ho scritto, ho scritto».
Pilato in questa sua condotta non avrà avuto che sentimenti umani, ma Dio che conduce gli eventi e tutto ordina secondo il suo volere, ha voluto darci in tutto questo una nuova prova della Regalità di Gesù.
Già nella descrizione del giudizio finale Gesù aveva dichiarato esplicitamente la sua regalità di giudice nel pronunciare la sentenza a favore degli eletti: «Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra...»; e «Rispondendo, il re dirà loro (...) ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». (Mt 25, 34-40)
Nella splendida apparizione su di un monte in Galilea, dopo la sua risurrezione, Gesù, prima di affidare agli apostoli la missione di evangelizzare il mondo, afferma e dichiara la suprema sua potestà su tutto il mondo e il creato: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». (Mt 28, 18)

3. Gli Apostoli con frequenza ricordano la potestà e dignità regale di Cristo. Così S. Giovanni lo dice: «principe dei re della terra» (Ap 1, 5); e più tardi ce lo descrive quale gli appare in visione: «Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori». (Ap 19, 16)
Anche le Lettere di San Paolo riaffermano spesso la Regalità di Cristo. «In questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1, 2); «Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi» (1 Cor 15, 25); «Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen». (1 Tm 1, 17)

4. La Chiesa, creazione d Gesù Cristo, continuatrice dell'opera degli Apostoli, ha sempre in ogni più svariato modo, specialmente nella Liturgia, riconosciuto e proclamato la Regalità del Divin Maestro. Nell'Epifania ha sempre celebrato con la manifestazione di Gesù, la sua regalità; sulla croce ha voluto l'affermazione della regalità di Cristo nella sigla "I.N.R.I."; nella Domenica delle Palme celebra il suo Re pacifico e mansueto che entra in Gerusalemme.


 
Natura ed estensione del Regno di Cristo


1. Quando parliamo della Regalità di Cristo, in quale modo la riferiamo a Lui? Come Dio o come uomo? In entrambi i casi. Come Dio, perchè come Creatore Egli è supremo Signore di tutto l'universo, ossia del cielo e della terra. La riferiamo anche come uomo, e ciò a più titoli: in primis poichè per l'unione ipostatica della divinità e della umanità nella persona del Verbo, Gesù è una sola Persona divina; quindi tutto ciò che appartiene alla divinità, appartiene all'umanità ugualmente assunta. Il potere e dominio assoluto su tutto l'universo che è proprio di Dio come creatore, è ugualemente proprio di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Inoltre la riferiamo a Gesù per diritto di conquista o di redenzione. E' Lui che ha riscattato l'uomo col sacrificio della sua vita. Gesù Cristo venuto al mondo in un piano sconvolto, ha restaurato l'ordine assoggettandosi volontariamente all'umiliazione e al sacrificio della croce; quest'ordine, questa riamissione dell'uomo nella grazia di Dio, è opera e conquista sua. E infine la riferiamo a Lui perchè Egli è la ragione e il fine della creazione: tutte le cose furono create, come rammenta l'Apostolo, per mezzo suo e in vista di Lui.

2. Non si deve pensare la Regalità di Cristo somigliante a quella dei dominatori terreni. I re dominano sui sudditi, impongono tributi di denaro e talora debbono chiedere anche tributi di persona sino al sacrificio. Il regno di Gesù viene dal cielo: non si occupa dei beni terreni ma è prevalentemente un regno spirituale e soprannaturale; di tale ordine è pure la potestà di Gesù Cristo. Egli domina sulle anime, illuminando con la fede le intelligenze; sulle volontà, facendo amare e osservare la Legge divina; sui cuori, staccandoli dai beni contingenti. Unisce quindi tutti i popoli, le nazioni, i regni, in un solo grande regno con i vincoli della Carità fraterna, sotto l'obbedienza del Sommo Pastore, per formarne il Regno dei cieli. Come il cielo sovrasta alla terra, l'eternità al tempo, così il regno di Cristo sui regni del mondo: ma non li distrugge come temevano Erode e gli Ebrei crocifissori del Re Divino; anzi li tutela, facendone vedere la potestà venuta da Dio, frenando la cupidigia dei "grandi" e inclinandoli ad amare il popolo, a compiere i loro doveri. Il regno di Gesù è stabilito contro qualsiasi forma di male, errore, ingiustizia, odio, etc.

3. Il regno di Gesù è universale e si estende a tutta la terra, all'universo, a tutti gli uomini, a tutte le creature. Su tutti Gesù ha potestà sovrana, qualunque ne sia la patria, la razza, le condizioni. Scriveva ancora nell'Enciclica citata il Papa Pio XI: «Né v'è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica (...) è lui solo l'autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati. Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l'intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l'autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. (...) Se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell'esigerne l'esecuzione».

4. La durata del regno di Cristo non sarà di sole centinaia o migliaia di secoli o anni, ma sarà eterna; su questa terra durerà quanto dura il mondo,eternamente in cielo. I regni della terra passano, crollano i troni, vengono meno i vasti imperi: il regno di Cristo non verrà mai meno. A nulla valgono i cannoni e le armi, a nulla le persecuzioni e le violenze; le potenze dell'inferno e del male non ditruggeranno mai il regno di Cristo. Anzi la destra dell'Altissimo rivolge i mezzi di lotta contro chi li usa e li fa cadere come pietre.

5. Il regno di Cristo è un regno di amore ed Egli regna con l'amore. Infatti fu la bontà infinita di Dio che lo spinse ad uscire da se stesso per effondere parte del suo bene ad altre creature capaci di conoscerlo, amarlo e partecipare poi alla sua beatitudine eterna. Ed è l'amore di compassione che suggerì per noi caduti il rimedeio della Redenzione. E' per amore che Gesù nacque bambino, visse nel nascondimento e povero, evangelizzò beneficando e morì vittima dei nostri peccati sulla croce. E' l'amore che gli aprì il costato per mostrare a noi al sede dell'amore, il Cuore che ha tanto amato gli uomini e dal quale scorre la Divina Misericoridia! Da quel Cuore è nata la Chiesa, regno di Dio in terra, con i Sacramenti, il Sacrificio, il Vangelo, le promesse e minacce d'amore. I Re della terra hanno carceri, esili, morte, per farsi obbedire; Gesù ha l'amore, la grazia, il dono del cielo.

6. Inoltre la regalità di Cristo è piena e perfetta; quindi le spettano tutti i poteri propri della sovranità:

a) Il potere legislativo: il diritto di fare le leggi.

b) Il potere giudiziario: la facoltà di esaminare alla fine della vita di ciascuno e del mondo.

c) Il potere esecutivo: il privilegio di esaminare che tutto proceda secondo i suoi giusti voleri.

7. Una regalità non rimane puramente astratta, nè si concretizza solamente negli uomini che da essa dipendono. Ha bisogno anche di territorio in cui vivano gli uomini, di ministri per l'esercizio della regalità. La Regalità di Cristo, come si è visto, si estende a tutto l'universo, a tutte le creature. Ma se Gesù è Re e gli uomini, in particolare, suoi sudditi, non avrà forma di regno sensibile e visibile? Sarà un regno puramente spirituale? No, poichè l'uomo non è solo spirito ma anche corpo. Ecco perchè Gesù ha voluto incarnare la sua regalità, in un regno spirituale ma sensibile, regno dei cieli sulla terra: è la Chiesa. Gesù Cristo ne è il vero Re e Capo; governa, regge questo regno mediante il suo Vicario visibile coadiuvato dai sacri Pastori, i Vescovi, i quali sono aiutati dai Ministri e Collaboratori inferiori: Sacerdoti e Diaconi in modo particolare. Come la sovranità di Gesù si estende su tutti gli uomini, così tutti gli uomini hanno il dovere di entrare nella Chiesa, di far parte di esa e così di appartenere visibilemnte al regno di Cristo sulla terra. Coloro che non conoscono la Chiesa, pur essendo retti e cercando quindi di fare nel miglior modo possibile la volontà di Dio, appartengono spiritualmente al regno di Cristo.


 La liturgia


1. La Colletta racchiude un tesoro di verità altissime. «O Dio onnipotente ed eterno, che nel tuo diletto Figlio, Re universale, ai voluto restaurare tutte le cose, concedi propizio che la grande famiglia umana, disgregata dal peccato, si sottometta al dolcissimo imperio di Lui». In essa si professano tre grandi verità:

a) la potestà regale di Gesù Cristo su tutti gli esseri, in cielo e in terra;

b) la restaurazione in Cristo di tutte le cose pervertite dalla caduta dei nostri progenitori;

c) Il peccato originale, ferita causata a tutta l'umanità e ad ogni uomo in particolare. E' questa ferita che spiega la nostra debolezza.

Inoltre si riconoscono le divine perfezioni: onnipotenza ed eternità, l'infinita bontà, il valore della preghiera.

2. L'Epistola riafferma con la parola di S. Paolo il primato assoluto di Cristo su tutto il mondo.

3. Il Vangelo ci ricorda il dialogo di Pilato con Cristo che dichiara la sua regalità non originata da questa terra.

4. Il Prefazio fu composto appositamente per la solennità. E' un riassunto teologico della dignità regale di Cristo, e delle qualità e fine del suo regno, frutto della Redenzione.

Festa di Cristo Re: lo spostamento liturgico

1. Uno spostamento apparentemente irrilevante.
Col motu proprio Summorum Pontificum il Papa Benedetto XVI ha definitivamente chiarito che il Messale romano tradizionale, detto di S. Pio V, non è mai stato abolito e che pertanto qualunque sacerdote può utilizzarlo nella sua integralità. La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, in una risposta del 20 ottobre 2008, ha ribadito che “l’uso legittimo dei libri liturgici in vigore nel 1962 comprende il diritto di usare il calendario proprio dei medesimi libri liturgici”. Com’è noto, nel calendario universale del rito romano antico la festa di Cristo Re è assegnata all’ultima domenica di ottobre, mentre il Messale romano riformato, approvato da Paolo VI nel 1969, la colloca all’ultima domenica dell’anno liturgico.
Non mancano coloro che, in nome di una maggiore uniformità tra le “due forme dell’unico rito romano”, insistono per una revisione del calendario che garantisca per lo meno la coincidenza delle feste maggiori (revisione che de facto è stata già compiuta per il rito ambrosiano antico, non però de iure, visto che le norme del diritto richiedono per qualunque modifica liturgica, anche relativa a riti diversi dal romano, l’espressa approvazione della Santa Sede). I più, tuttavia, considerano questo spostamento della festa di Cristo Re come irrilevante: dopo tutto, la ricorrenza è rimasta, anche se leggermente modificata nel titolo (non più “Cristo Re” simpliciter, ma “Cristo Re dell’universo”), e il fatto che sia assegnata ad una data piuttosto che ad un’altra non ne altera la sostanza. Alcuni, sebbene legati al rito antico, giungono a preferire la scelta del nuovo calendario: la festa della regalità di Cristo, infatti, costituisce il perfetto coronamento dell’anno liturgico, mentre non si vede il motivo di collocarla in una posizione apparentemente priva di significato come la fine del mese di ottobre.
Di fronte a tanta variabilità di opinioni, cercheremo, in questo articolo, di ricostruire la genesi storica della festa di Cristo Re, di delinearne – per quanto ci è possibile, in qualità di non specialisti – la portata teologica, e infine di dimostrare perché, a nostro avviso, lo spostamento in questione è tutt’altro che irrilevante.


2. Istituzione della festa.
La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 mediante l’enciclica Quas primas. Si trattava di una festa del tutto nuova, priva – al contrario di altre feste, per esempio quella del Sacro Cuore – di precedenti nei calendari locali o religiosi. D’altronde, se nuova era la festa, non nuova era l’idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non soltanto la Scrittura, i Padri e i teologi, ma anche l’arte sacra e il senso comune dei fedeli concordemente affermano. Perché il Papa abbia avvertito il bisogno di istituire una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero, risulta chiaro dal testo della stessa enciclica: “Se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società”.
Quale peste? Quella – risponde il Papa nel paragrafo successivo – del laicismo: “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso”.
Quindi, se il fine generico della festa – nelle intenzioni del Pontefice – era quello di divulgare nel popolo cristiano “la cognizione della regale dignità di nostro Signore” (regalità in senso lato), il fine specifico era quello di porre l’accento proprio su quella specificazione della regalità che il laicismo nega, vale a dire la regalità sociale. Che sia questo l’autentica ratio della festa, emerge non soltanto dal contenuto dell’enciclica, ma anche da una semplice constatazione di carattere liturgico: tutte le feste, infatti, celebrano – direttamente o indirettamente – la regalità, genericamente intesa, di nostro Signore; ma non esisteva, fino al 1925, alcuna ricorrenza espressamente dedicata al suo regno sulle società di questo mondo.
Tale conclusione è confermata dall’indole dei testi liturgici della festa, promulgati dalla S. Congregazione dei Riti il 12 dicembre dello stesso anno.
Nel Breviario, l’inno dei Vespri afferma:
“Te nationum praesides / Honore tollant publico, / Colant magistri, iudices, / Leges et artes exprimant. // Submissa regum fulgeant / Tibi dicata insignia: / Mitique sceptro patriam / Domosque subde civium” (traduzione nostra: “Te i governanti delle nazioni esaltino con pubblici onori, te onorino i maestri, i giudici, te esprimano le leggi e le arti. Risplendano, a te dedicate e sottomesse, le insegne dei re: sottometti al tuo mite scettro la patria e le dimore dei cittadini”).
Nell’inno del Mattutino si legge:
“Cui iure sceptrum gentium / Pater supremum credidit” (“A te [Redentore] il Padre ha consegnato, per diritto, lo scettro dei popoli”). E ancora: “Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas” (“A te, o Gesù, sia gloria, che regoli gli scettri [= le autorità] del mondo”).
Stessi concetti ribaditi dall’inno delle Lodi:
“O ter beata civitas / Cui rite Christus imperat, / Quae iussa pergit exsequi / Edicta mundo caelitus!” (“O tre volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).
Così pure l’orazione, dove Cristo viene definito “universorum Rege” (non Re di un generico e imprecisato universo, come afferma la nuova liturgia nelle traduzioni volgari, ma Re di tutti, ossia di tutti gli uomini), si dice che il Padre ha voluto in lui instaurare ogni cosa (ivi compreso l’ordinamento sociale), e si auspica che “cunctae familiae gentium” (diremmo, in linguaggio moderno, “ogni società umana”) si sottomettano al suo soavissimo impero.
Dei testi della Messa, ci limiteremo a ricordare le letture scritturistiche. Nell’epistola, S. Paolo insegna l’assoluta e completa dipendenza di ogni cosa, nessuna esclusa, da Cristo “in omnibus primatum tenens” (Col. 1, 18). Dal vangelo, poi, apprendiamo che il regno del Signore dev’essere inteso non solo in senso trascendente (regalità spirituale) ma anche immanente (regalità temporale o sociale). Quando infatti Pilato pone a Gesù la fondamentale domanda: “Ergo rex es tu?” si riferisce senza dubbio al concetto di regalità che egli, come romano e come pagano, possedeva, vale a dire al regno su questo mondo.
3. Regalità spirituale e regalità temporale.
Né deve trarre in inganno il fatto che Gesù risponda che il suo regno non è di questo mondo. Si noti, anzitutto, la scelta dei termini: il regno non è “di questo mondo”, ossia non è secondo le modalità dei regni terreni, come Gesù stesso precisa nello stesso passo: “Se il mio regno fosse di questo mondo, le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei: ma il mio regno non è di questo mondo”, e come la Chiesa ha sempre interpretato. Ma ciò non significa che che non sia un regno su questo mondo. È ancora Gesù che, poco dopo, lo specifica: “Tu lo dici: io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è per la verità, ascolta la mia voce” (Gv. 18, 33-37). La differenza, quindi, sta nel modo, non nell’oggetto. Gesù dichiara di essere venuto nel mondo per regnare su di esso, non però al modo dei monarchi terreni, che regnano per autorità delegata, direttamente e valendosi (in modo legittimo) della forza, ma al modo del Monarca eterno ed universale, che regna per autorità propria, indirettamente e pacificamente (“Rex pacificus vocabitur“, come ricorda la prima antifona dei Vespri, tratta da Isaia). “L’origine di questa regalità è celeste e spirituale, anche sei poteri regali sono esercitati nel mondo” (S. Garofalo, Commento al Vangelo di Giovanni, in La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, Torino, Marietti, 1960, vol. III, p. 273).
Lo scopo della festa, vale a dire la celebrazione della regalità sociale di Cristo, ne illumina anche la collocazione nel calendario. Esistono diversi motivi per cui essa fu assegnata all’ultima domenica di ottobre. Il primo e più importante è quello delineato dal Papa nell’enciclica: “Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti”. In altre parole, la festa di tutti i Santi, che regnano per partecipazione, viene fatta precedere dalla festa di Cristo, che regna per diritto proprio. La ricorrenza della regalità di Cristo, inoltre, costituisce il coronamento di tutto l’anno liturgico, e pertanto viene posta verso la sua fine. È lecito domandarsi: perché non proprio alla fine? Probabilmente – è l’unica spiegazione veramente plausibile – per non confondere la regalità escatologica (di ordine spirituale), che la liturgia tradizionale ricorda nell’ultima domenica dell’anno liturgico mediante la pericope evangelica sulla fine del mondo, con la regalità sociale, che costituiva l’oggetto specifico della nuova festa. Vi è poi un altra ragione, non esplicitata nell’enciclica, ma ragionevolmente presumibile. Il mese ottobre era il mese dedicato alle missioni e nella sua penultima domenica si pregava specialmente per la propagazione della Fede tra i pagani. Quale modo migliore, per concluderlo, che ricordare il fine ultimo delle missioni, vale a dire il regno sociale di Cristo su tutti i popoli?
L’intenzione del Pontefice espressa nell’enciclica, l’indole dei testi liturgici, la collocazione originaria della festa: tutti questi elementi consentono di concludere in modo sicuro che la ricorrenza di Cristo Re fu istituita al preciso scopo di ricordare la regalità sociale di nostro Signore e di costituire così un efficace antidoto al laicismo dilagante. Occorre, a questo punto, vedere che cosa si intenda per “regalita sociale di Cristo”. Cercheremo di farlo senza esorbitare dai limiti di una trattazione che non è e non intende essere specialistica.
Il fondamento dogmatico della regalità di Cristo genericamente intesa è l’unione ipostatica, “per mezzo della quale la natura assunta dagli uomini è unita alla seconda Persona della SS. Trinità: per tale ragione, dunque, Egli non solo è stato costituito Mediatore dal primo momento della sua Incarnazione, ma è anche divenuto, per questo ammirabile avvenimento, Re di tutta la creazione, in ragione della propria divinità” (P. Radó, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi-Barcinone, 1961, vol. II, p. 1309). Lo afferma chiaramente il Papa nella citata enciclica: “In questo medesimo anno, con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli”. L’origine della regalità di Cristo in quanto uomo – prosegue Pio XI – è duplice: egli infatti è re non solo per diritto (nativo) di natura, poiché la sua umanità appartiene alla Persona del Verbo divino, ma anche per diritto (acquisito) di conquista, “in forza della Redenzione”, cioè per aver riscattato col suo Sangue il genere umano dal peccato. “Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature”.
L’estensione del Regno del Verbo incarnato è universale, come universali sono la creazione e la redenzione donde esso promana. Perciò si estende indiscriminatamente a tutte le cose.
Quanto alla sua natura, poiché il mondo consta di realtà trascendenti e di realtà immanenti, è invalso l’uso di distinguere tra regalità spirituale e regalità temporale. Delle due, è la prima ad avere la preminenza, poiché il temporale è per sua natura ordinato allo spirituale. Si legge infatti nell’enciclica: “Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire”. Tuttavia – prosegue il Sommo Pontefice – “sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio”. Ora, se la regalità temporale di Cristo, al pari di quella spirituale, si esercita su tutte le cose, essa riguarda non soltanto l’individuo (regalità individuale), ma anche l’insieme degli individui, vale a dire la società (regalità sociale). Ne consegue che le istituzioni sociali hanno nei confronti di Cristo gli stessi doveri dell’individuo singolarmente considerato: devono riconoscerlo, adorarlo e sottomettersi alla sua santa Legge. “Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli”, precisa l’enciclica. Sarebbe dunque in errore chi pensasse che l’obbligo morale di aderire alla divina Rivelazione riguardi soltanto il singolo, mentre la società, nelle sue istituzioni, potrebbe e dovrebbe limitarsi al solo diritto naturale (o addirittura ai soli cosiddetti “diritti umani”).
Di qui l’esortazione, rivolta dal Papa ai capi delle nazioni, “di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli”.
4. La “nuova” festa di Cristo Re dell’universo.
Uno dei capisaldi del pensiero moderno è la riduzione della religione alla sola dimensione privata, senza alcuna influenza diretta sulla vita pubblica. Si tratta del “laicismo” (che oggi molti preferiscono chiamare “laicità”) di cui parla l’enciclica, già individuato e condannato dai Pontefici precedenti. La festa di Cristo Re – nelle intenzioni di Pio XI – doveva fungere da rimedio a questa pericolosa tendenza e ricordare al popolo cristiano che la regalità di Cristo si estende anche alle realtà temporali. Ci domandiamo: tali concetti emergono con la stessa chiarezza anche nella versione attuale, riformata nel 1969, della festa?
Procederemo, anche in questo caso, con l’analisi dei testi liturgici e della collocazione del calendario.
Nella Liturgia delle Ore, l’inno dei Vespri è lo stesso (Te saeculorum Principem), ma da esso sono state soppresse proprio quelle strofe, citate sopra in questo articolo, che parlano esplicitamente della regalità sociale (“Te nationum praesides…” e “Submissa regum fulgeant…“). Nella seconda strofa, inoltre, il riferimento al laicismo (“Scelesta turba clamitat: / Regnare Christum nolumus” = “La folla empia grida: Non vogliamo che Cristo regni”) è stato rimpiazzato a una frase generica e indefinita (“Quem prona adorant agmina / hymnisque laudant cælitum” = “Ti adorano prone le schiere celesti e ti lodano con inni”).
Completamente diverso l’inno dell’Ufficio delle Letture (il vecchio Mattutino), privo anch’esso di qualunque riferimento alla dimensione sociale e temporale del Regno di Cristo. Le letture tratte dall’enciclica Quas primas, che il Breviario antico assegnava al secondo Notturno, sono state rimpiazzate da un brano di Origene, di carattere marcatamente spirituale.
Così pure si cercherebbe invano un’allusione o un accenno alla necessità che Cristo regni sulla società civile nel nuovo inno delle Lodi mattutine.
La nuova orazione ricalca lo schema della vecchia, modificandone però completamente il senso. Non si domanda più che la società umana, disgregata dalla ferita del peccato, si sottometta al soavissimo impero di Cristo, ma che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, serva e lodi Dio senza fine. La regalità sociale e temporale dell’antica formula, resa necessaria dalla disgregazione del peccato, lascia il posto alla regalità individuale e spirituale della nuova, nella quale peraltro non vi è alcun accenno esplicito all’impero di Cristo. Inoltre, sebbene l’originale latino parli ancora di Cristo “universorum Rex“, le versioni moderne hanno tradotto questa espressione con “Re dell’Universo” (cfr. inglese “King of the Universe“, francese “Roi de l’Universe“, spagnolo “Rey del Universo”), indebolmente ulteriormente la dimensione immanente, concreta, storica del suo Regno. Le stesse considerazioni valgono a proposito del nuovo titolo della festa (“Cristo Re dell’Universo”) nei libri liturgici in lingua moderna.
La Messa si articola, come di consueto nel nuovo rito, in tre cicli scritturistici. Il primo (anno A) ha carattere eminentemente escatologico, è incentrata cioè sulla pienezza del regno spirituale di Cristo alla fine dei tempi e non contiene alcun cenno alla regalità sociale. Il secondo (anno B) prevede il vangelo del formulario tradizionale, ma nella seconda lettura l’epistola di S. Paolo è stata sostituita da un brano dell’Apocalisse che ribadisce la natura spirituale del Regno di Cristo. Il terzo (anno C) denota una situazione simile ma inversa: l’epistola è quella del formulario antico, mentre il vangelo parla del regno ultraterreno e spirituale che Gesù assicura al buon ladrone. Nel secondo e terzo ciclo scritturistico, quindi, la regalità sociale è presente, ma in misura meno esplicita, e diremmo quasi irriconoscibile, che nel formulario tradizionale.
Del tutto scomparso il testo dell’antico graduale, tratto dal salmo 71, che, alludendo al Messia, affermava: “Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum” (espressioni ebraiche che denotano l’interezza del mondo immanente). E ancora: “Et adorabunt eum omnes reges terrae, omnes gentes servient ei” (altro chiaro riferimento all’ossequio dei governanti e della società).
Lo spostamento della festa di Cristo Re verso una dimensione essenzialmente spirituale e trascendente è confermato dalla sua nuova posizione nel calendario. Essa non è più posta in riferimento ai Santi che regnano con Cristo e alle missioni che diffondono il suo regno temporale, ma si trova alla fine dell’anno liturgico, nella posizione che la liturgia romana assegna tradizionalmente al ricordo della fine del mondo e del giudizio universale. Il che, se da un lato spiega l’indole del ciclo scritturistico A, dall’altro rafforza l’idea che nella nuova liturgia il Regno di Cristo a cui si allude con la corrispondente festa non è primariamente, come intendeva Pio XI, quello sociale, storico, temporale, che del resto avrà fine con la sua venuta escatologica, ma piuttosto quello trascendente, spirituale, eterno, che troverà il suo perfetto compimento nella Parusia.
5. Conclusione.
Sulla base di tutti questi elementi, è possibile affermare che, nel nuovo rito, la festa di Cristo Re ha subito un sorprendente allontanamento dal significato voluto al momento della sua istituzione. E non ci sembra azzardato ravvisare, in questo, un certo influsso del pensiero moderno, penetrato negli ultimi decenni anche in ambiente ecclesiastico, che se da un lato accetta – come espressione del pluralismo – la regalità di Cristo sui singoli, dall’altro la rifiuta sulle istituzioni sociali.
C’è da auspicare, pertanto, che almeno nel rito antico alla festa di Cristo Re siano mantenuti, non soltanto il suo formulario, ma anche la sua collocazione originaria. Spostarla al termine dell’anno liturgico, infatti, ne accentuerebbe la dimensione escatologica a discapito di quella sociale, e finirebbe in qualche modo per alimentare la credenza, oggi assai diffusa anche nel mondo cattolico, secondo cui la società civile – intesa nel suo complesso e nelle sue istituzioni – avrebbe il diritto e persino il dovere di prescindere dal soavissimo giogo del Regno di Cristo. “Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza” (Pio XI, enciclica Quas primas).


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