DOMENICA DI PASQUA
Omelia
S. E. Rev.ma Mons. Arturo Aiello
Pignataro Maggiore, 4 aprile 2010
Carissimi fratelli e sorelle,
iniziamo dicendoci la verità. La verità è che la Pasqua è difficile, direi per pochi eletti. Sono duemila anni che facciamo questo percorso dalla croce, dal Calvario al sepolcro vuoto: si tratta di pochi metri, quelli consentiti per il sabato ebraico, eppure, nonostante questo pellegrinaggio di duemila anni, siamo ancora in cammino verso la Pasqua. A Natale ci arriviamo tutti e il Natale arriva a tutti perché è umano, perché tutti sappiamo cosa significhi nascere; abbiamo avuto un bambino, lo abbiamo allattato, stretto, difeso, ma Pasqua è un’altra cosa: Pasqua è nell’ordine dello Spirito, mentre Natale è nell’ordine della carne. E noi della carne abbiamo esperienza. Quando dobbiamo pensare alle cose dello Spirito, dobbiamo chiudere gli occhi e sognare - cosa che facciamo con tanta difficoltà - e più si va avanti nella storia, più i sogni diventano difficili. Pasqua è il sogno dei sogni, è il sogno che ha fatto Dio per l’uomo, è il sogno di una creazione non solo restaurata, ma rinnovata e lanciata verso nuove vette di luce, verso nuove dimensioni di pienezza, verso una primavera non passeggera, come quella che stiamo vivendo, ma un’eterna primavera. Allora, come descriverle queste cose? Come trasmetterle? Come viverle? Come celebrarle? La Chiesa vi è ancora affannata, e sentitelo l’affanno di Pietro e Giovanni che vanno al sepolcro, come abbiamo appena ascoltato: il loro affanno è l’affanno della Chiesa per cercare di dire parole nuove, perché nessuna parola vecchia riesce a trasmettere, ad esprimere, a evocare ciò che si chiama Pasqua. Noi siamo qui per credere a questo sogno, al sogno di Dio realizzato in un uomo, Gesù di Nazareth, realizzato in un fallito, in un perdente (lo abbiamo celebrato Venerdì Santo), perché chiunque è perdente nella vita – e lo siamo tutti all’atto in cui giungiamo alla maturità – possa dire che la perdita è un guadagno, possa dire: “Non sono del tutto distrutto, non sono del tutto perduto: c’è ancora una speranza per me”. Questa speranza, fratelli e sorelle, si chiama Pasqua. Se ti senti avanti negli anni e ti sembra di non aver concluso niente, se ti senti fallito con i tuoi figli, con tuo marito, con tua moglie, negli affetti, come professionista, se ti senti fallito come giovane, se ti senti morto anche se tutti ti danno per vivo, c’è un’uscita di sicurezza da queste situazioni terribili che, prima o poi, bussano alla porta di tutti noi e bussano prima alla porta di coloro che hanno più sensibilità, a dire che la vita è una perdita, è perdente. Se tu, nel fallimento, guardi in alto, vedrai che c’è una botola da cui è possibile uscire dal carcere che è la storia, che è la vita, che è il fallimento, che è la morte: è come un’uscita di sicurezza da una tomba. I nostri defunti sono usciti di là. Inutilmente andate a venerarne le spoglie nei nostri cimiteri. Qualche volta troverete una scritta, un bigliettino scritto di loro pugno: “Sono andato in vacanza: è inutile che stai qui a piangere! Non ci sono, non sono qui”.
Abbiamo ascoltato stanotte: Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui: è risorto! Ma noi ci incaponiamo nella morte. La morte rimane questa nostra grande convinzione, anche se non ne parliamo (anche se sembra che il Vescovo parli solo di morte: io parlo di morte perché voi possiate accedere alla vita). I nostri morti sono andati in vacanza, non andate al cimitero domani e neanche oggi, non li troverete: sono usciti, sono usciti da un’uscita di sicurezza che si chiama Pasqua e che tu, ancora oggi, dopo tanti anni, fai fatica a credere. Non è un rimprovero, perché la Pasqua – l’ho detto all’inizio – è difficile. Chissà se qualcuno di voi vi accederà quest’anno o l’anno prossimo o tra dieci, venti, cinquanta o tra settant’anni… Ma almeno una volta entra anche tu in questo sogno e credi - perché questa è la Pasqua – che la morte non è l’ultima parola. L’ultima parola è Pasqua, cioè Risurrezione, cioè vita oltre la vita, cioè possibilità di rifarsi da ogni fallimento, possibilità di fedeltà oltre ogni infedeltà, possibilità di santità oltre ogni depravazione. Questo è Pasqua, e ce lo dobbiamo dire sottovoce, perché quelli di fuori - ma forse anche voi - non capirebbero, perché è difficile anche solo dirle queste cose. Voi con occhi assonnati, casomai siete stati (come spero) alla Veglia, stanotte, mi guardate e dite: “Ma è vero? È vero, Eccellenza? È questa la realtà?”, perché la realtà, quella che ci s’impone, ha un altro nome, ha altre veci, ha altri limiti, e capite che quella botola in alto, perché la Pasqua è in alto (in alto i nostri cuori), si può raggiungere solo volando. Invece siamo pesanti, e che cosa ci appesantisce? Non solo il peccato: ci appesantisce la morte, che è la realtà più pesante, è la zavorra vera della nostra esistenza. Se tu, prima o poi, allarghi l’abbraccio di quest’amante che ti uccide, se tu cerchi di svincolarti da questo abbraccio che ti strozza, quello della morte, cominci ad essere leggero, leggero, leggero, leggero… ed esci per l’uscita di sicurezza.
Forse qualcuno di voi starà pensando che l’uscita di sicurezza erano i camini da cui uscivano, purtroppo, le polveri, il fumo di milioni di corpi, quelli degli ebrei, e con un’espressione terribile, dai lager, ci viene questa parola: “Saremo liberi e usciremo dal camino”. Dal camino, quando eravamo bambini, veniva la befana e scendeva; adesso devi essere tu a salire e a innalzarti, alleggerirti oltre l’unica volgarità che esista: la morte. Ecco perché Pasqua ha bisogno di labbra nuove: Cantate al Signore un canto nuovo. È possibile una sola novità nella nostra povera vita ed è Risurrezione: certo, quella definitiva, quando anche noi usciremo dal camino, quando usciremo dal nostro corpo per essere noi stessi, dalle nostre ristrettezze mentali, dalle nostre categorie, dal nostro passato, dal nostro carattere, dal nostro vissuto, da certe relazioni che abbiamo iniziato con le migliori intenzioni che poi si sono appesantite col tempo. Ma c’è una Pasqua adesso, oggi, se tu riesci ad afferrarla nella sua leggerezza, leggera come l’acqua da cui vi siete difesi quando sono sceso ad aspergervi: era un po’ d’acqua! Leggera… Ma vi siete difesi, perché non vogliamo bagnarci, perché pensiamo che i nostri abiti nuovi siano quelli giusti. No, l’abito nuovo è quando ti sarai spogliato di ogni abito (mi riferisco soprattutto a quello mentale: habitus per gli antichi era, innanzi tutto, un modo di pensare). Ebbene, una Pasqua in fondo alla nostra vita è una Pasqua già adesso.
Se siete risorti, cercate le cose di lassù, cioè smettete di pensarla come quelli delle pompe funebri! Qualcuno pensa che gli unici che non falliranno mai sono quelli delle pompe funebri: non andranno mai in fallimento perché si morirà sempre. Invece, annunziamo ufficialmente a tutte le pompe funebri di questo mondo che falliranno anche loro e il loro sarà l’ultimo grande fallimento, quello che attendiamo, cioè non avranno più lavoro da svolgere, perché non ci saranno più morti, non ci sarà più morte, perché noi - anche noi! - usciremo dai nostri sepolcri e li lasceremo vuoti, come una stanza che non serve più, come un’adolescenza abbandonata per la giovinezza, come un abito che ci è andato bene un tempo: avremo bisogno d’altro e allora usciremo liberi. La Chiesa oggi ci annuncia questo e questo il vostro Vescovo è venuto a ricordarvi rendendo Pignataro, questa mattina, centro della nostra Diocesi. Non lo dico per i nostalgici delle vecchie due Diocesi, ma perché dove sta il Vescovo là c’è la Chiesa, là c’è il centro della Chiesa e in questa Pasqua 2010 il centro della Diocesi è Pignataro Maggiore. Non lo prendete come un motivo di vanto umano, ma semplicemente come un’occasione, perché un angelo è venuto a dirvi: Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?
Attraverso il vostro povero Vescovo vi giunge la gioia lieve della Pasqua, la levità pasquale. Maria – abbiamo ascoltato nell’antica sequenza – che hai visto sulla via? Raccontaci! Ma quando uno tenta di raccontare la Pasqua, le parole gli muoiono in bocca, perché sono tutte parole vecchie. Il sudario… le sue vesti… Ma dov’è Cristo? Non c’è: è altrove. In questo “altrove” sono i nostri defunti e questo “altrove” noi sogniamo nei nostri sogni migliori, anche quando non lo sappiamo. “Altrove” significa un altro modo d’essere e un altro luogo d’abitare. Questo altrove è oltre ogni luogo, come l’utopia (utopos: fuori da ogni luogo), è fuori da ogni tempo: è libertà. Questo noi attendiamo e questo prepariamo con le nostre piccole scelte d’amore, piccole scelte di bene.
Concludo con un fatto storico per dirvi come il bene, anche improvvisato, cominci a muovere una serie di turbìne e generi altro bene (purtroppo è vero anche il contrario e cioè il male genera altro male). Siamo negli ultimi anni, credo, dell’Ottocento e un poverissimo contadino sta lavorando al suo campo; ascolta delle grida da una palude vicina e cerca di muoversi, portando aiuto a chi sta gridando: “Help me! Aiuto! Salvami!”. Infatti, lasciando i suoi attrezzi da lavoro e inoltrandosi nella palude, vede un bambino che sta annegando nelle sabbie mobili e, mettendo a dura prova e in pericolo la sua stessa vita, salva quel bambino (vi sto raccontando un fatto veramente accaduto). Pochi giorni dopo, bussa alla sua porta un nobile: “È lei che ha salvato il bambino nella palude qualche giorno fa?”. Il contadino l’aveva già dimenticato (il bene bisogna farlo e dimenticarlo: è il male che bisogna ricordare). “Sì, sono io”. “Io sono il padre di quel bambino”. Era un nobile e si offrì di pagare gli studi al figlio di questo contadino: “È poco quello che posso fare nei suoi confronti, dal momento che lei ha salvato mio figlio”. Questo ragazzo viene avviato agli studi ed è alunno delle scuole più alte del Regno Unito; si laurea in Medicina e scopre un vaccino. Si chiamava Alessandro Fleming e inventò la penicillina. Contemporaneamente, si ammalò di polmonite il figlio del nobile che aveva pagato gli studi e, ovviamente, fu salvato attraverso questa medicina appena scoperta. Questo giovane che fu salvato dalla polmonite, figlio del nobile, il bambino che era stato salvato dal contadino, si chiamava Winston Churchill, colui che frenò la pazzia di Adolf Hitler. Un fatto veramente accaduto: un bambino salvato, degli studi pagati, la penicillina inventata, un giovane salvato, un uomo che salva il mondo. Da dove è partita tutta questa catena di bene? Da un gesto d’amore.
Cari fratelli e sorelle, questa è Pasqua, questa è la vita pasquale: fare un gesto d’amore che certamente avrà un’eco infinita. Buona Pasqua!
Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.
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