domenica 16 febbraio 2014

sinodo sulla famiglia

Share Tocca ai vescovi Usa
difendere la dottrina 
 di Matteo Matzuzzi



Mons. KurtzSe l'episcopato tedesco è quello che ha colto l'occasione del Sinodo per fare da apripista a una profonda rivisitazione della morale sessuale cattolica (per farsene un'idea basta rileggere le dichiarazioni in serie del cardinale Reinhard Marx, del presidente della conferenza episcopale Robert Zollitsch, del vescovo di Treviri mons. Stephan Ackermann), ce n'è un altro che pare sempre più arroccato sul fronte opposto. Potente e ricco tanto quello tedesco, l'episcopato degli Stati Uniti è quello che meno si è sintonizzato sulle frequenze del nuovo Pontefice.

L'agenda impressa con forza e carisma da Francesco ha creato ben più di un mal di pancia tra le gerarchie americane. Un malcontento nient'affatto celato, ma che invece si è materializzato già pochi mesi dopo l'elezione al Soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio. E – fatto di un certo rilievo – a farsi carico delle perplessità non sono stati vescovi di piccole diocesi sperdute tra le Montagne Rocciose, bensì il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, e l'arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput.

Qualche giorno fa, poi, era intervenuto con un’intervista sul Boston Globe il cardinale Sean O’Malley, cappuccino e unico statunitense incluso nella speciale commissione cardinalizia istituita da Francesco lo scorso aprile e incaricata di riformare la curia romana. O’Malley ha invitato alla prudenza e alla calma, spiegando che di cambiamenti alla morale sessuale della chiesa cattolica non ce ne saranno. Non è questa l’intenzione del Papa, spiegava l’arcivescovo di Boston, che conosce Bergoglio da molti anni. E anche a proposito della riammissione dei divorziati ai sacramenti, O’Malley è stato molto chiaro: «Non vedo alcuna giustificazione teologica per cambiare l’atteggiamento della chiesa - su questo argomento, anche perché - la chiesa non può cambiare le sue posizioni a seconda dei tempi».

Aveva fatto un certo clamore, la scorsa estate, l'intervista concessa da Dolan (all'epoca ancora presidente della conferenza episcopale statunitense) a John Allen. Conversando con il celebre vaticanista, il porporato diceva: «Noi volevamo anche qualcuno con buone capacità manageriali e di leadership, e fino ad oggi questo si è visto poco…». Il riferimento era a Tarcisio Bertone, che mesi dopo l'uscita di scena di Benedetto XVI ricopriva ancora la carica di Segretario di Stato. «Mi aspetto che dopo la pausa estiva si concretizzi qualche segnale in più in merito al cambiamento della gestione», aggiungeva Dolan e venendo in un certo senso accontentato.

Ancor più duro era stato l'arcivescovo Charles Chaput, cappuccino ed esponente di punta della linea conservatrice dell'episcopato a stelle e strisce. Lo scorso luglio, mentre si trovava a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della Gioventù, il presule affermava che «l’ala destra della Chiesa non ha mostrato felicità per l’elezione» di Bergoglio. Il motivo, secondo Chaput, era da cercare anche nella posizione considerata soft del Pontefice argentino circa i cosiddetti princìpi non negoziabili: «Non si può immaginare che il Papa non sarà così pro life e a favore del matrimonio tradizionale come i pontefici del passato», notava maliziosamente l'arcivescovo di Philadelphia, che constatava comunque che «al momento Francesco non ha espresso queste cose in modo combattivo». Questioni «come l’aborto e il matrimonio non sono questioni politiche. Sono questioni di dottrina e morale. E noi vescovi, tutti, dobbiamo parlare di queste cose», aggiungeva ancora.

Era la spia di un malcontento che si sarebbe palesato in maniera ancor più forte dopo l'intervista concessa dal Papa alle riviste gesuite, lo scorso agosto. Quell'invito a non parlare sempre di aborto, nozze gay e contraccezione e a non «ossessionare con la trasmissione disarticolata di dottrine» i fedeli segnava un chiaro cambiamento di passo. Per la chiesa americana che per anni aveva assunto una posizione battagliera in difesa della vita, proprio portando tale questione nel dibattito pubblico e usando assai spesso toni forti nei confronti del potere politico civile, si trattava di posizionarsi su un sentiero diametralmente opposto. Un'inversione di priorità che comportava l'attenuazione dei toni e una ricerca il più possibile fruttuosa di un dialogo con le istituzioni.

Non a caso, tra i più ferventi ammiratori di Francesco c'è Obama, che oltre a inserire nei propri discorsi intere frasi pronunciate dal Papa argentino su economia e povertà, vede in Bergoglio la possibilità di rompere l’arcigno fronte conservatore che dal 2009 si oppone in modo fermo alle sue politiche. Nozze omosessuali, aborto e, da ultimo, la riforma sanitaria. Tutti provvedimenti che hanno scavato un solco profondo tra la Casa Bianca e la conferenza episcopale, fin dalla presidenza del cardinale Francis George (2007-2010) schierata a destra. Ecco perché il presidente degli Stati Uniti aveva giudicato positiva l’elezione di mons. Joseph Kurtz, arcivescovo di Louisville, a capo della conferenza episcopale in sostituzione del cardinale Dolan, avvenuta lo scorso novembre. Il profilo del presule, dopotutto, induceva a ben sperare la Casa Bianca: moderato, estraneo alla logica muscolare del predecessore, flessibile e portato alla ricerca del dialogo. Non si poteva sperare di meglio, visto che difficilmente si sarebbe potuto sperare in un nuovo Bernardin, l’arcivescovo di Chicago scomparso nel 1996, icona del cattolicesimo progressista americano.

Ma è bastato solo un mese e mezzo per vedere infrante le speranze. A fine anno, mons. Kurtz ha accusato Obama di mettere in pericolo la libertà religiosa sancita dalla Costituzione, imponendo di fatto anche agli enti religiosi di sottoscrivere assicurazioni che coprono prestazioni abortive o legate alla contraccezione. Una lettera dai toni duri e pesanti, che ha confermato come la linea dell’episcopato sia ancora quella tracciata da Dolan e – ancor prima – da George.

E proprio sulla successione di questo a Chicago si giocherà una partita importante, forse “decisiva per capire cosa pensa davvero Francesco della chiesa americana”, notava sul suo blog lo storico del cristianesimo di Scuola Vaticano II, Massimo Faggioli. La scelta si avvicina, il cardinale George è già in proroga da due anni, e nei prossimi mesi il Papa nominerà il successore. Non si tratta di una decisione semplice, che riguarda una piccola diocesi.

Si tratta di scegliere se proseguire sull’impostazione conservatrice data dall’attuale arcivescovo o se tornare al progressismo di Bernardin, così tanto apprezzato da Obama e dai cattolici liberal à la Nancy Pelosi. Si capirà anche chi ha un peso concreto nel consigliare e suggerire al Papa i profili per le cariche episcopali d’America, ora che il conservatore Raymond Leo Burke è stato rimosso dalla congregazione per i Vescovi. Il chiaro ridimensionamento di quest’ultimo, già arcivescovo di St. Louis prima di essere chiamato qualche anno fa da Benedetto XVI a presiedere il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, indica già che Francesco ha intenzione di svoltare. Il porporato, infatti, era tra i più ascoltati da Ratzinger quando si trattava di nomine episcopali negli Stati Uniti.

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