sabato 30 giugno 2012
codice etico
Codice Etico: un articolo anche su La Stampa. Il giudizio negativo del Vaticanista Galeazzi, ex allunno della Cattolica
Gay, Cattolica, fumo di SatanaFa discutere il codice etico dell'Università Cattolica sulla questione omosessualità
di Giacomo Galeazzi, da La Stampa del 29.06.2012
di Giacomo Galeazzi, da La Stampa del 29.06.2012
Spiega il sito Cultura cattolica.it: "Anche Italia Oggi si è accorta della notizia: Nel codice etico della Cattolica il rispetto del trattato di Lisbona «In una Università cattolica gli ideali, gli atteggiamenti e i principi cattolici permeano e informano le attività universitarie conformemente alla natura e all’autonomia proprie di tali attività», «le implicazioni morali, presenti in ciascuna disciplina, sono esaminate come parte integrante dell’insegnamento della stessa disciplina (…), e la teologia cattolica, insegnata in piena fedeltà alla Scrittura, alla tradizione e al magistero della Chiesa, offrirà una chiara conoscenza dei principi del Vangelo, la quale arricchirà il significato della vita umana e le conferirà una nuova dignità» (punti 14 e 20 della Costituzione Apostolica Ex corde Ecclesiae emanata dal Romano Pontefice, il Beato Giovanni Paolo II, il 15 agosto 1990).
Così era l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano che io ho conosciuto, ho frequentato ed in cui mi sono laureato, una trentina di anni fa. Prima, quindi, che lo stesso Ateneo decidesse di dotarsi del recente Codice Etico, alla cui sottoscrizione gli studenti sono peraltro obbligati. Si tratta di un testo di trenta pagine in cui aleggia ambiguamente una perniciosa vena relativista intrisa della più venefica political correctness. Trenta pagine in cui non viene fatta neppure una sola menzione a concetti quali Chiesa Cattolica, Papa, Magistero, Tradizione. Con buona pace della Costituzione Apostolica Ex Corde Ecclesiae.
Come ha giustamente denunciato il Centro Studi Jean d’Arc, all’art.1 del Preambolo del Codice Etico si accenna solamente ad un generico «Cristianesimo», senza alcun richiamo alla Fede Cattolica, mentre all’art. 2, lett. e), si invitano gli studenti, i docenti e il personale dell’Università al «rispetto dei principi ispiratori della Costituzione della Repubblica Italiana e del Trattato sull’Unione europea, come modificato a Lisbona il 13 dicembre 2007». E’ lo stesso trattato, peraltro, che secondo quanto evidenziato da S.E. Mons. Dominique Marie Jean Rey, Vescovo di Frejus-Toulon, «rappresenta in molti punti una rottura intellettuale e morale con le altre grandi formulazioni giuridiche internazionali, presentando una visione relativistica ed evolutiva dei diritti dell’uomo che mette in causa i principi del diritto naturale».
La parte del Codice Etico dedicata, poi, alle «Disposizioni comuni», rigorosamente ispirata al politically correct, gronda pure di venature relativiste, le stesse contro cui continua a combattere, con ostinato coraggio, Sua Santità Benedetto XVI. Tra le varie perle se ne può scegliere una in particolare. L’art.1, ad esempio, si incarica di vietare ogni forma di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale di una persona. La stessa generica forma, fumosa ed ambigua, utilizzata dai sacerdoti del politicamente corretto per bollare di omofobia chiunque osi solamente accennare alle chiare ed univoche posizioni della Chiesa Cattolica in materia. Com’è noto, infatti, per i cattolici l’orientamento sessuale non può costituire una qualità paragonabile alla razza, all’origine etnica, ecc., rispetto alla non-discriminazione, perché diversamente da queste, essa appartiene oggettivamente alla sfera etico-morale. E vi sono ambiti nei quali non può considerarsi ingiusta discriminazione il fatto di tener conto della tendenza sessuale: per esempio nella collocazione di bambini per adozione o affido. Il Magistero della Chiesa Cattolica sul punto è chiarissimo, come attesta la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Così era l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano che io ho conosciuto, ho frequentato ed in cui mi sono laureato, una trentina di anni fa. Prima, quindi, che lo stesso Ateneo decidesse di dotarsi del recente Codice Etico, alla cui sottoscrizione gli studenti sono peraltro obbligati. Si tratta di un testo di trenta pagine in cui aleggia ambiguamente una perniciosa vena relativista intrisa della più venefica political correctness. Trenta pagine in cui non viene fatta neppure una sola menzione a concetti quali Chiesa Cattolica, Papa, Magistero, Tradizione. Con buona pace della Costituzione Apostolica Ex Corde Ecclesiae.
Come ha giustamente denunciato il Centro Studi Jean d’Arc, all’art.1 del Preambolo del Codice Etico si accenna solamente ad un generico «Cristianesimo», senza alcun richiamo alla Fede Cattolica, mentre all’art. 2, lett. e), si invitano gli studenti, i docenti e il personale dell’Università al «rispetto dei principi ispiratori della Costituzione della Repubblica Italiana e del Trattato sull’Unione europea, come modificato a Lisbona il 13 dicembre 2007». E’ lo stesso trattato, peraltro, che secondo quanto evidenziato da S.E. Mons. Dominique Marie Jean Rey, Vescovo di Frejus-Toulon, «rappresenta in molti punti una rottura intellettuale e morale con le altre grandi formulazioni giuridiche internazionali, presentando una visione relativistica ed evolutiva dei diritti dell’uomo che mette in causa i principi del diritto naturale».
La parte del Codice Etico dedicata, poi, alle «Disposizioni comuni», rigorosamente ispirata al politically correct, gronda pure di venature relativiste, le stesse contro cui continua a combattere, con ostinato coraggio, Sua Santità Benedetto XVI. Tra le varie perle se ne può scegliere una in particolare. L’art.1, ad esempio, si incarica di vietare ogni forma di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale di una persona. La stessa generica forma, fumosa ed ambigua, utilizzata dai sacerdoti del politicamente corretto per bollare di omofobia chiunque osi solamente accennare alle chiare ed univoche posizioni della Chiesa Cattolica in materia. Com’è noto, infatti, per i cattolici l’orientamento sessuale non può costituire una qualità paragonabile alla razza, all’origine etnica, ecc., rispetto alla non-discriminazione, perché diversamente da queste, essa appartiene oggettivamente alla sfera etico-morale. E vi sono ambiti nei quali non può considerarsi ingiusta discriminazione il fatto di tener conto della tendenza sessuale: per esempio nella collocazione di bambini per adozione o affido. Il Magistero della Chiesa Cattolica sul punto è chiarissimo, come attesta la Congregazione per la Dottrina della Fede.
venerdì 29 giugno 2012
santi Pietro e Paolo
ORÁTIO
Deus, qui hodiérnam diem Apostolórum tuórum Petri et Pauli martýrio consecrásti: da Ecclésiæ tuæ, eórum in ómnibus sequi præcéptum; per quos religiónis sumpsit exórdium.
giovedì 28 giugno 2012
santi pietro e paolo
29 GIUGNO
santi PIETRO E PAOLO
PER IL MATTUTINO DI 12 LETTURE
1 Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.
Homilia 28. PG 151,355‑362.
Gli apostoli fanno brillare una luce che non conosce mutamento o declino sopra coloro che abitano nella regione delle tenebre, poi li rendono partecipi di questa luce, anzi suoi figli. Cosi ognuno di essi potrà splendere come un sole quando nella sua gloria si manifesterà il Verbo, uomo e Dio, luce sovressenziale.
Tutti questi astri, che oggi sorgono, rallegrano la Chiesa , perché le loro congiunzioni non producono nessuna eclissi, ma accendono una sovrabbondanza di luce. Cristo splende nella sua sfera eccelsa, senza gettare ombra su quelli che ruotano in regioni meno elevate. E tutti questi astri si muovono in piena luce, senza che vi sia alternanza fra il giorno e la notte, o i loro raggi differiscano per luminosità, dal momento che il loro splendore proviene da un'unica fonte.
2 Tutti coloro che fanno parte di Cristo, fonte perenne di luce eterna, hanno il medesimo fulgore e la sua gloriosa luminosità. La congiunzione di questi astri si manifesta cosi agli occhi dei fedeli attraverso un duplice sfavillio.
Satana, il primo ribelle, riuscì a far apostatare Adamo, il primo uomo, il progenitore dell'umanità. Quando dunque Satana vide Dio creare Pietro, il capostipite dei fedeli, e dirgli: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. ( Mt 16,18 ), nella sua malvagità suicida, cercò di tentare Pietro come aveva tentato Adamo.
Colui che è il maligno per eccellenza sapeva che Pietro era dotato d'intelletto e incendiato d'amore per Cristo. Perciò non s'azzardò ad assalirlo di petto, ma con fare sornione lo aggredì di fianco, per spingerlo a violare il suo dovere.
3 Nell'ora della passione il Signore disse ai suoi discepoli:
Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte ( Mt 26,31 ). Pietro, incredulo non solo lo contraddice, ma si esalta sopra gli altri, affermando: Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai.( Mt 26,33 )
Dopo l'arresto di Gesù, Pietro, come punito per la sua presunzione, abbandona il Signore più degli altri. Ma più degli altri umiliato, egli avrebbe a suo tempo ritrovato un onore più grande.
Infatti il suo comportamento è ben differente da quello di Adamo. Questi, una volta tentato, era caduto vinto precipitando cosi nella morte, mentre Pietro, dopo essere stato atterrato, riesce a rialzarsi e trionfa sul tentatore.
In che modo Pietro fu vincitore? Rendendosi conto del suo stato, provandone un dolore cocente, effondendosi in lacrime di penitenza, assai preziose per espiare. Il salmo dice infatti: Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi, ( Sal 50,19 )
perché il rincrescimento di avere offeso Dio opera una guarigione irreversibile. E chi semina una preghiera intrisa di pianto, meriterà il perdono intessuto di allegrezza.
4 Possiamo notare che Pietro espiò in modo adeguato il suo rinnegamento, non solo pentendosi e facendo penitenza, ma anche perché l'orgoglio che lo spingeva al protagonismo fu espulso radicalmente dalla sua anima.
Il Signore lo volle dimostrare a tutti quando il terzo giorno risuscitò dai morti, dopo la passione sofferta per noi nella sua carne. Nel vangelo infatti egli dice a Pietro, accennando agli apostoli: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? ( Gv 21,15 )
La risposta ci rivela un Pietro umile, davvero convertito. Al Getsemani, senza essere interpellato, si era spontaneamente messo sopra gli altri, dicendo: Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai. ( Mt 26,33 )
Ma dopo la risurrezione, quando Gesù gli domanda se lo ama più degli altri, Pietro risponde di si, sul fatto di amare, ma tralascia di far menzione del grado, limitandosi a dire: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo!
5 Gesù disse a Simon Pietro: ''Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". ( Gv 21,15 )
Quando Gesù vede che Pietro gli ha conservato l'amore e ha acquistato l'umiltà, da compimento alla sua promessa e gli dice: Pasci i miei agnelli. ( Gv 21,15 )
In precedenza, quando il Signore aveva paragonato l'assemblea dei fedeli a una costruzione, aveva promesso a Pietro di costituirlo a fondamento, dicendo: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa ( Mt 16,18 ) Nel racconto evangelico della pesca miracolosa, Gesù aveva pure detto a Pietro: D'ora in poi sarai pescatore di uomini. ( Lc 5,10 )
Infine, dopo la risurrezione, Gesù paragona i suoi discepoli ad un gregge e chiede a Pietro di esserne il pastore, affermando: Pasci i miei agnelli. ( Gv 21,15 )
Vedete, fratelli, come il Signore arde dal desiderio della nostra salvezza! Non cerca che il nostro amore, in modo da poterci guidare ai pascoli e all'ovile della salvezza. Desideriamo perciò anche noi la salvezza, obbediamo in parole e nei fatti a coloro che devono essere le nostre guide in questo cammino. Basterà che bussiamo alla porta della salvezza e subito si presenterà la guida designata dal nostro Salvatore. Nel suo amore eterno per gli uomini, il Signore stesso sembra non aspettare che la nostra richiesta, anzi la previene e si affretta a presentarci il capo che ci guiderà alla salvezza definitiva.
6 Davanti alla triplice interrogazione del Signore, Pietro è addolorato, perché pensa che Gesù non si fidi di lui. E' convinto di amare Gesù e che il Maestro lo sa meglio di lui. Con le spalle al muro e senza via d'uscita, Pietro dichiara il suo affetto e proclama l'onnipotenza del suo interlocutore, dicendo: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo.( Gv 21,17 )
Dopo una simile confessione, Gesù costituisce Pietro pastore, anzi supremo pastore della sua Chiesa e gli promette la forza necessaria per resistere fino alla morte di croce, mentre per l'innanzi Pietro era crollato davanti alle parole di una servetta.
Gesù gli afferma: In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ‑ non solo di corpo, ma spiritualmente ‑ ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi, ossia seguivi i tuoi impulsi e vivevi secondo i tuoi desideri naturali. Ma quando sarai vecchio ‑ quando cioè sarai pervenuto anche alla maturità dello spirito ‑ tenderai le tue mani. E queste ultime parole alludono alla morte di croce; il verbo tendere è alla forma attiva, per specificare che Pietro si lascerà crocifiggere di sua libera volontà.
7 Tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste cioè ti fortificherà ‑ e ti porterà dove tu non vuoi. ( Gv 21,18 )
Il testo da un lato segnala che la nostra natura non vuole dissolversi nella morte per l'istinto congenito verso la vita, e d'altro canto il martirio di Pietro oltrepassa ampiamente le sue forze naturali. Il succo delle parole del Signore è questo: "A causa mia e rafforzato da me, tu sopporterai supplizi che normalmente la natura umana è incapace di assumere''.
Questo è Pietro e assai pochi lo conoscono sotto tale angolatura.
E Paolo, chi è? Chi potrà far conoscere la sua pazienza nel sopportare ogni cosa per Cristo, fino alla morte? La morte, Paolo l'affrontava ogni giorno, pur continuando a vivere.
Rammentiamoci di quando ha scritto: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. (Gal 2,20 )
Per amore di Cristo, egli considerava tutto come spazzatura, al punto da stimare il futuro come qualcosa di secondario nei confronti di quell'amore. Egli dice infatti: Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne avvenire, ne potenze, ne altezza ne profondità, ne alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore. ( Rm 8,39 )
Pieno di zelo per Dio, Paolo non mirò che a infonderlo anche in noi.
8 Tra gli apostoli, Paolo non è inferiore per gloria al solo Pietro. Considera la sua umiltà quando esclama: lo sono l'infimo degli apostoli. e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo. ( 1 Cor 15,9 )
Se Paolo eguaglia Pietro per la fede, lo zelo, l'umiltà e la carità, perché non ricevette in parte il medesimo premio da parte di Dio che giudica con giustizia e tutto pesa su un'esatta bilancia?
All'uno il Signore dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. In ordine all'altro, dichiara ad Anania: Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli. ( At 9.15 ) Di che nome si tratta? Certamente di quello della Chiesa di Cristo di cui Pietro garantì la costruzione.
Vedete come Pietro e Paolo sono eguali in gloria, come la Chiesa di Cristo riposa sul fondamento di loro due? Ecco perché in questo giorno la Chiesa gli attribuisce una solennità comune, per cui oggi celebriamo una festa in loro onore.
9 Dal vangelo secondo Matteo. 16,13‑19
Gesù chiese ai suoi discepoli:"Voi chi dite che lo sia?". Rispose Simon Pietro:"Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".
Dai Discorsi di Luigi di Granada.
Serm. I&II para 29/6.Sermones para las principales fiestas de los Santos, Madrid,P.B.Lopez,1792‑93,t.XII,260‑297.
La fede in Gesù Cristo è il fondamento della nostra religione. Volendo stabilire saldamente questa virtù della fede nell'animo dei discepoli, nostro Signore procede con discrezione e pru-denza, poiché conosce il fondo dei cuori e sa perfettamente ciò che vi è in quello degli apostoli.
Gesù vuole dunque che Pietro gli renda testimonianza; dopo aver confermato tale testimonianza, il Signore ricompensa Pietro, mettendolo a capo della sua Chiesa, perché gli altri imparino dal capo degli apostoli quello che devono credere a proposito del Messia.
Il metodo che Gesù ha per insegnare è molto più modesto che se avesse proclamato senza ambagi: "Io sono il Figlio del Dio vivente". Leggiamo qualcosa di analogo in san Giovanni; dopo la lavanda dei piedi, Gesù non dice agli apostoli: "Io sono Maestro e Signore ma usa parole più umili: Voi mi chiamate Maestro e Signore.( Gv 13,13)
10 Gesù domanda inizialmente ai discepoli che cosa la gente pensi di lui. "Alcuni Giovanni il Battista ‑ essi rispondono ‑ altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti. Disse loro: "Voi chi dite che io sia?".
Pietro, illuminato con una rivelazione del Padre ed elevandosi sopra il corpo e la materia, oltre la carne e il sangue, risponde a nome di tutti: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Gesù gli risponde proclamandolo beato, perché non grazie a una sapienza puramente umana egli ha reso quella testimonianza, ma per ispirazione dell'alto. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.
In questo passo Gesù da un nome nuovo al suo Apostolo, che inizialmente si chiamava Simone. Un tempo era successa la medesima cosa con il Patriarca degli Ebrei, quando era stato scelto come padre di una moltitudine di nazioni. Allora Dio aveva cambiato il suo nome in quello di Abramo, per indicare la sua numerosa posterità.
Qui Gesù, volendo fare del figlio di Giovanni il fondamento saldo e incrollabile della sua Chiesa, lo chiama "Pietro". Il nome vuole sottolineare la perenne stabilità e resistenza che balza chiara dal seguito del testo evangelico: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Sono parole che offrono un sostegno stupen-do alla fede cristiana.
11 Non passiamo sotto silenzio l'altra magnifica promessa che Gesù fa a Pietro, quella cioè di dargli le chiavi del regno dei cieli. Un simile potere non è conferito a Pietro solo per la sua gloria, ma in vista della nostra salvezza. Non per se Pietro riceve le chiavi, ma per noi.
La grazia delle chiavi non fa riferimento alla legge antica, ma all'evangelo. C'è una gran differenza tra la legge e il vangelo: la legge chiede, il vangelo da; la legge spaventa, il vangelo consola; quella comanda, questo conferisce la grazia per obbedire. La prima addita la via del cielo, mentre il vangelo da la forza adeguata a percorrere quell'itinerario.
La legge racchiude la lettera che uccide, il vangelo contiene lo Spirito che da la vita. L'Apostolo definisce la legge ministero di morte e il vangelo ministero di Spirito e vita. ( 2 Cor 3,7.8 )
Questo potere delle chiavi muta la contrizione da imperfetta in perfetta, lo stato di peccato in stato di grazia, facendo passare le anime dalla condanna eterna all'eterna salvezza.
La bontà e la misericordia di Dio sono ineguagliabili! Ci pensate che condiscendenza sia aver affidato le chiavi del cielo a un uomo della terra? E' concesso a un mortale quanto appartiene soltanto a Dio: il potere di rimettere i peccati.
Fratello, se le tue colpe ti hanno chiuso il cielo, non sarà necessario che tu travalichi i mari, che tu vada all'estremità della terra e che tu sparga sangue di animali secondo la legge antica. Basta che confessi i tuoi peccati a un ministro della Chiesa, unendo alla confessione il pentimento per il passato e il proposito di vivere bene in futuro. Col perdono delle tue colpe riceverai la grazia e l'amicizia di Dio.
Ecco il vangelo! Ecco la buona, la notizia bella per eccellenza! Ecco la grazia sopra tutte le grazie, conferita al mondo per i meriti del sangue di Gesù Cristo, lui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, come si esprime l'Apocalisse. ( Ap 1,5 )
Orazione O Dio, che ci allieti con la solenne celebrazione dei santi Pietro e Paolo, fa' che la tua Chiesa segua sempre l'insegnamento degli apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede. Per il nostro Signore.
(Ambrosiano): O Padre, che hai fondato la tua Chiesa sulla fede e sul nome di Pietro e gli hai associato Paolo perché predicasse la tua gloria alle genti, arricchisci di grazie quanti oggi ne celebrano la gioiosa memoria. Per Cristo nostro Signore.
madre chiara agnese del buon pastore
I 100 anni di madre Chiara Agnese
Rinfreschiamoci all’ombra di un albero secolare che ci ospita con i suoi rami, i suoi ricordi, i lunghi anni, lunghi e brevi al tempo stesso. Suor Agnese dice grazie al Signore per aver toccato il traguardo straordinario del secolo, dei cento anni, anche se non li dimostra. Insieme con lei vogliamo dire grazie al Signore per il dono della vita, qualsiasi cosa ci riservi, comporti: è un dono grande, una opportunità che ci viene da Dio stesso. La vita è il dono, orizzonte di ogni altro dono. Ci disponiamo a celebrare i Santi Misteri, ringraziando ma anche chiedendo perdono perché non si cammina impunemente in questa vita, dice l’autore dell’Imitazione di Cristo. Questo vale per Suor Agnese, che ha camminato per 100 anni, ma anche per noi, nel senso che si cammina e si raccoglie polvere, come minimo. Vogliamo chiedere perdono per i nostri piedi stanchi e per la polvere raccolta lungo la strada.
***
Omelia
Saluto Padre Agostino, Padre Provinciale, gli altri sacerdoti, il sindaco e tutti voi, raccolti intorno all’altare per questa celebrazione provocata da Suor Agnese che scocca oggi il suo centesimo compleanno. Come ho detto all’inizio della celebrazione, stiamo a dire grazie al Signore per il dono della vita, dono mai sufficientemente raccolto, compreso, celebrato. A volte ci lamentiamo per tante difficoltà (penso al caldo in queste ore), ma dimentichiamo che queste restrizioni, come altre più gravi, altri problemi più seri, si inseriscono in un dono. Non avremmo caldo se fossimo morti, e quindi basta questo pensiero per sentirsi meglio; quelli che hanno la pressione bassa immediatamente la vedono risalire, a dire: Però sono vivo! Non è una battuta, guardiamo con troppa facilità le limitazioni e non valutiamo abbastanza il dono, i doni, il dono per eccellenza che è il dono della vita. Il dono stesso della fede, che viene in seconda battuta, e quindi del Battesimo, non sarebbe possibile se non nell’orizzonte dell’esistere. Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba, ma noi, i viventi, ti rendiamo grazie, dice il salmista. Quindi il dono del Battesimo per Suor Agnese e poi, nella forma radicale della consacrazione, il dono della Professione Religiosa, si innesta e si innerva nel dono della vita. Diciamo grazie, dovremmo dirlo in ogni momento, ma almeno al mattino e alla sera, quando comincia una giornata e a conclusione: Ti ringrazio, Signore, per questo tempo che mi hai dato.
L’arco di una giornata è paradigma dell’arco della vita: i nostri, molto più a sesto acuto, quello di suor Agnese è nella massima ampiezza, ma nell’uno e nell’altro caso una vita non si calcola nella sua estensione, ma nella sua profondità; non si calcola dal numero degli anni, ci insegna la Bibbia, ma dalla sapienza. E Suor Agnese ha saputo mettere insieme la lunghezza della vita – 100 anni sono tanti – un secolo, con il dono della sapienza ricevuto e accolto. C’è bisogno di sapienza per vivere cristianamente e c’è bisogno di un supplemento di sapienza per rispondere ad una chiamata di speciale consacrazione, tanto più all’interno di un orizzonte apparentemente ristretto qual è la clausura.
La benedizione di Gesù nel Vangelo, benedizione rivolta al Padre – Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai grandi del mondo e le hai rilevate ai piccoli - vale anche per Suor Agnese che, nella sua piccolezza, nella sua semplicità, nella ferialità più nascosta della sua lunga esistenza, rientra nel novero dei piccoli. Non sono i titoli, non sono i blasoni, non sono neanche le lauree che possiamo conseguire a dare importanza alla nostra vita, ma paradossalmente nel discorso di Gesù, la grandezza è direttamente proporzionale alla piccolezza, al sentirsi impari, al sentirsi poveri, al sentirsi dunque dipendenti.
Una vita è breve. Una vita è lunga.
Sembrano due frasi che giocano a elidersi, in realtà dicono la stessa cosa della vita. Una vita breve: viviamo quanto una giornata, dall’alba al tramonto. E una giornata apparirà a Suor Agnese, questo secolo che ha vissuto, breve: non c’è tempo da perdere, bisogna porre le scelte importanti all’alba, al mattino, bisogna darsi da fare. Dicevano gli artigiani di una volta: ’a jurnata è nu muozz (per dire: è un attimo). E quindi si davano da fare per cominciare a lavorare alle prime ore dell’alba. Ho visto che Maddalena mi ha guardato per dire: Ma cosa ha detto il Vescovo? E allora traduco: la giornata è un piccolo morso, cioè è breve (certe cose, dette in napoletano, suonano meglio, hanno un loro fascino). Quindi una vita è breve. È breve la vita di Suor Agnese, è breve anche la nostra. Hai fatto le cose importanti? Hai messo i tasselli per cui sei chiamato a vivere? Hai dato gloria a Dio? Hai operato il bene? Ma al tempo stesso – e questo Suor Agnese forse lo avverte – la vita è anche lunga, a volte troppo, e non mi riferisco alla sua, quanto alla nostra, troppo lunga come certe giornate che sembrano non finire mai, dove temiamo di perdere al meriggio quello che abbiamo acquistato all’alba, temiamo che ci venga derubato ciò che abbiamo conquistato a fatica. In questo senso c’è anche una lunghezza della vita. Ovviamente, sia per la brevità, sia per la lunghezza, si tratta non tanto di un tempo cronologico, quanto di un tempo interiore, perché poi alla fine, la percezione del tempo non è quello degli orologi, non è quella dei calendari, delle agende, di quelle elettroniche o computerizzate sul telefonino, ma è il tempo del cuore, che batte più o meno lentamente, a volte con affanno, a volte con dolore, poche volte con gioia. Dice il salmista nel Salmo 89: Gli anni della nostra vita sono 70 – ma Suor Agnese li ha superati abbondantemente – 80 per i più robusti, la maggior parte sono fatica e dolore, passano presto e noi ci dileguiamo. Vorrei consegnarvi questa percezione di brevità e di lunghezza, di brevità che incita a fare, adesso, e a non rimandare le cose importanti, di lunghezza che ci mette in guardia dagli spauracchi della sera, della notte, come dice un testo del Qoèlet che si riferisce proprio all’età anziana: quando si ha paura degli spauracchi della strada. Quindi compiamo il bene subito, ma anche facciamo attenzione a non perdere quello che abbiamo conquistato.
Sembrano due frasi che giocano a elidersi, in realtà dicono la stessa cosa della vita. Una vita breve: viviamo quanto una giornata, dall’alba al tramonto. E una giornata apparirà a Suor Agnese, questo secolo che ha vissuto, breve: non c’è tempo da perdere, bisogna porre le scelte importanti all’alba, al mattino, bisogna darsi da fare. Dicevano gli artigiani di una volta: ’a jurnata è nu muozz (per dire: è un attimo). E quindi si davano da fare per cominciare a lavorare alle prime ore dell’alba. Ho visto che Maddalena mi ha guardato per dire: Ma cosa ha detto il Vescovo? E allora traduco: la giornata è un piccolo morso, cioè è breve (certe cose, dette in napoletano, suonano meglio, hanno un loro fascino). Quindi una vita è breve. È breve la vita di Suor Agnese, è breve anche la nostra. Hai fatto le cose importanti? Hai messo i tasselli per cui sei chiamato a vivere? Hai dato gloria a Dio? Hai operato il bene? Ma al tempo stesso – e questo Suor Agnese forse lo avverte – la vita è anche lunga, a volte troppo, e non mi riferisco alla sua, quanto alla nostra, troppo lunga come certe giornate che sembrano non finire mai, dove temiamo di perdere al meriggio quello che abbiamo acquistato all’alba, temiamo che ci venga derubato ciò che abbiamo conquistato a fatica. In questo senso c’è anche una lunghezza della vita. Ovviamente, sia per la brevità, sia per la lunghezza, si tratta non tanto di un tempo cronologico, quanto di un tempo interiore, perché poi alla fine, la percezione del tempo non è quello degli orologi, non è quella dei calendari, delle agende, di quelle elettroniche o computerizzate sul telefonino, ma è il tempo del cuore, che batte più o meno lentamente, a volte con affanno, a volte con dolore, poche volte con gioia. Dice il salmista nel Salmo 89: Gli anni della nostra vita sono 70 – ma Suor Agnese li ha superati abbondantemente – 80 per i più robusti, la maggior parte sono fatica e dolore, passano presto e noi ci dileguiamo. Vorrei consegnarvi questa percezione di brevità e di lunghezza, di brevità che incita a fare, adesso, e a non rimandare le cose importanti, di lunghezza che ci mette in guardia dagli spauracchi della sera, della notte, come dice un testo del Qoèlet che si riferisce proprio all’età anziana: quando si ha paura degli spauracchi della strada. Quindi compiamo il bene subito, ma anche facciamo attenzione a non perdere quello che abbiamo conquistato.
Oggi – e non è una battuta, ma una constatazione amara – al posto dei 100 anni di Suor Agnese vissuti nella linearità, nella fedeltà al Signore, alla sua vocazione, in questo stesso spazio si inseriscono, quando va bene, 4 o 5 vite diverse. Purtroppo mi riferisco a quelli che cambiano vita continuamente, cambiano moglie, cambiano marito, cambiano orizzonte, cambiano… Qui abbiamo un monumento di fedeltà, da ammirare e da cui prendere incitamento di bene per la continuità, perché di vite frammentate, oggi ne abbiamo a iosa, di persone che dicono: è finito il Matrimonio, è finita questa esperienza, è stato bello però adesso la mia prima moglie, la terza, quando ero… Invece Suor Agnese, in questi 100 anni, ininterrottamente, ha detto la stessa parola, ha compiuto lo stesso gesto, forse anche per questo motivo le è stato donato tanto tempo, perché questa linearità l’ha condotta in una dimensione di difesa rispetto a cancri dell’anima, rispetto a malattie interiori e anche psicologiche che attanagliano oggi le persone, che oggi sono bianche, domani rosse e dopodomani sventolano una bandiera ancora diversa.
Venendo qui ho pensato a questi 100 anni che sono fondamentalmente il Novecento. Non voglio fare sintesi storiche, non è il luogo. Come sapete il Novecento, che è stato il secolo di Suor Agnese e anche il nostro, è stato definito il secolo breve; breve perché si è corso in una maniera forsennata; breve non perché abbia avuto qualche anno in meno rispetto ai secoli precedenti, ma perché si è andati avanti ad una velocità supersonica rispetto alla lentezza con cui si camminava e si progrediva nei secoli precedenti: mentre il Novecento cominciava, era già finito. Ma questo secolo breve è stato anche segnato da tante tragedie; non sto qui a raccontarvele tutte, dovrebbe raccontarcele Suor Agnese. Facciamo riferimento innanzi tutto alla prima e alla seconda guerra mondiale, che sono come due grandi crateri nel teschio del Novecento, se l’immagine non vi appare lugubre. Dov’era Suor Agnese alla prima guerra mondiale? Non era al fronte, era ancora bambina, ma credo già consapevole che l’uomo possa impazzire e operare il male alla grande. E questa è un’amara constatazione.
L’uomo è grande, carissimi fratelli e sorelle, è grande qualsiasi cosa faccia: è grande nel bene, è grande nel male; è grande nella santità, è grande nella depravazione. A noi non è dato di compiere mezze misure, ma la grandezza appartiene alla nostra dimensione umana. Dice il salmista nel Salmo 8: Lo hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato. E questa gloria dov’era nel ’15-’18? Non sto qui a fare rimembranze: è una guerra che abbiamo raccolto attraverso i versi di Ungaretti, poi diventati poetici ma che sono stati drammatici per un’intera generazione di giovani decimata al fronte, come un grande baratro. E poi i 20’anni del fascismo e di nuovo… Ogniqualvolta finisce una guerra si dice che è l’ultima, che non si tornerà a compiere questi errori. Ci si dà da fare nella ricostruzione, ma eccoci di nuovo alla seconda guerra mondiale. Dov’era Suor Agnese? Era già in monastero, anche lei a lanciare bombe: Nagasaki, Hiroshima, di questi nomi Suor Agnese avrà un’eco lontanissima nella sua vita claustrale, ma qualche immagine di città distrutte in un attimo con un fungo di morte l’avrà raggiunta forse su qualche rivista. Chissà che non sia sorto in lei il desiderio di lanciare una bomba atomica di bene. Quelle non si vedono, non ci sono deflagrazioni per le bombe del bene: sono bombe che fanno crescere le foreste, che danno ossigeno, fanno nascere bambini, che guariscono, che fanno ricongiungere coppie separate. A questo servono le monache. Avete qui, sul colle San Pasquale a Pignataro, e non lo sapevate, una sorta di cittadella militare, e il sindaco scopre solo questa sera che ci sono delle bombe depositate nel sottoscala, nei meandri di questo monastero: sono bombe di bene, che vengono lanciate su Pignataro, sull’intera Diocesi, su Napoli, sul golfo e fanno fiorire, come questo albero che è sul piazzale del monastero, che io vedo sempre fiorire per primo a primavera. Non so se lo notate anche voi di Pignataro: com’è che l’albero sul colle San Pasquale fiorisce prima degli altri? Sono le preghiere delle monache, sono queste bombe di bene.
Poi c’è stata la ricostruzione, e chissà che non dovremmo rivisitare quel tempo, in questo tempo dove c’è una ricostruzione da fare, e non solo di case per i terremoti “in viaggio” per il mondo, ma di una società che deve ritrovare la sua identità.
Suor Agnese avrà avvertito qualcosa nel ’68: ma che fanno questi giovani? Perché si ribellano? Perché fanno le barricate? Non è finita la guerra? Era la rivoluzione studentesca, forse segno di una difficoltà che poi sarebbe esplosa in un’altra maniera, drammatica, nel terrorismo, negli anni di piombo. Anche Suor Agnese ha lanciato bombe negli anni di piombo, anche lei faceva la terrorista, ma di bene, qui, a preparare una rivoluzione.
Poi ci sono i nostri giorni e poi c’è il grande giubileo e la nostra gioia nel salutare il nuovo secolo e il nuovo millennio, ma ecco che l’11 settembre ricompare la violenza nella forma macroscopica, il male che esplode a dire, come Quasimodo: Sei ancora quello della pietra… Ti ho visto nella carlinga di fuoco… (Uomo del mio tempo).
Ho fatto una piccola carrellata e non per vivacizzare il caldo e i pensieri pesanti che il caldo comporta in questi pomeriggi assolati, ma per dire che in tutto questo tempo Suor Agnese è stata sempre lei: non si è camuffata, non si è travestita, non è uscita di monastero; è stata fedele alle piccole cose di cui è fatta una vita monastica, orari, campane che suonano, punti comuni, come dicono le monache e le religiose, gesti comuni, preghiera personale, preghiera comunitaria, e il mondo intanto compiva questo cammino.
Che cosa è importante rispetto alla storia che procede? Oggi, casomai Suor Agnese mi stesse sentendo ma immagino che non ci senta più tanto (ma si capirà!, dopo 100 anni è il minimo che possa succedere!), oggi le donne, ma anche gli uomini, pensano di dover essere presenti: una delle malattie del nostro tempo è il presenzialismo, cioè bisogna essere presenti. I giovani perché non dormono? Non perché la notte sia giovane: non dormono perché pensano che dormire sia una perdita di tempo. Allora bisogna stare attenti, svegli, possibilmente con qualche sostanza che ci tenga svegli e non solo, perché può succedere qualcosa di importante e io non me ne accorgo; può succedere qualcosa in un posto e io non ci sono; si può organizzare una festa ed io non esserci. Questo è un grande dramma, soprattutto dei nostri figli (magari non lo tematizzano così come l’ho fatto io, ma lo sentono); c’è nell’aria che bisogna andare di qua e di là continuamente per essere presenti. In questi 100 anni Suor Agnese è stata assente ed è una santa assenza perché la sua assenza schiaffeggia il nostro presenzialismo, forse anche il mio, pensando che noi possiamo dire la parola decisiva, porre il gesto, evitare un errore. Suor Agnese, dall’alto dei suoi 100 anni, ci guarda con un sorriso di compatimento, a dire: poveri voi che vi giocate la vita nella continua presenza, perché il segreto della vita è l’assenza. Uno solo è l’Onnipresente: è Colui che fa e che agisce e che è all’origine della vita ed è Dio. Noi siamo comparse. Ogni sera Suor Agnese ha chiuso le sue giornate semplicissime: In pace mi corico e subito mi addormento; Tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare. Suor Agnese ha avuto bisogno di Lexotan, di Tavor? No, ha dormito profondamente come una regina, proprio a partire dalla percezione che le cose grandi le fa Dio. Noi possiamo fare cose piccole e, dopo averle fatte, possiamo ritirarci in buon ordine dicendo: Tutto è compiuto. Sono le parole conclusive di Gesù in uno dei racconti della Passione, cioè tutto è stato fatto, è stato fatto quello che era possibile fare, l’impossibile non appartiene a noi.
Grazie, Suor Agnese, di questa lezione di silenzio, di umiltà, di fedeltà nascosta. Grazie soprattutto perché la stragrande maggioranza di questi 100 anni sono stati vissuti nell’ombra di un monastero di clarisse. Grazie della tua assenza. E grazie delle bombe di bene che segretamente hai lanciato, prima da Napoli e poi da Pignataro. Sono partiti missili aria-aria, terra-aria che si incrociavano e che hanno prodotto miracoli di cui ci renderemo conto solo nell’eternità. Grazie.
mercoledì 27 giugno 2012
Troppo amore e poca grazia nella Bibbia tradotta dalla CEI
Da Firenze, il professor Pietro De Marco ci invia una nota critica sulla traduzione della Bibbia in uso nella Chiesa italiana dal 2007. Una traduzione che affiora in ogni messa, talvolta con sorprese per i fedeli più attenti.
La discussione sulle traduzioni del messale latino nelle lingue correnti, intrecciata a quella della Bibbia, si è particolarmente animata, in vari paesi, dopo la lettera scritta lo scorso aprile da Benedetto XVI ai vescovi tedeschi a proposito delle parole della consacrazione del calice, con il papa decisamente a favore del letterale “per molti” invece del “per tutti” adottato da molte versioni postconciliari.
La nuova versione italiana del messale è in questo momento sotto l’esame della congregazione vaticana per il culto divino.
Intanto, però, è in vigore da cinque anni in Italia una nuova traduzione della Bibbia che è già all’opera nelle letture, nei salmi responsoriali e negli altri testi biblici della messa.
Ed è contro questa versione che De Marco avanza serie obiezioni.
Obiezioni che – si può presumere – sarebbero state ancora più forti se la congregazione per il culto divino non avesse chiesto alla conferenza episcopale italiana di attenersi a una traduzione il più possibile letterale della Bibbia, invece che a una “dinamica” e “interpretativa” come quella che la stessa CEI aveva in corso d’elaborazione fin dalla metà degli anni Ottanta.
LITURGIA E NUOVA TRADUZIONE DELLA BIBBIA. PROBLEMI DI RECEZIONE
di Pietro de Marco
1. Ignoro se sia comunemente noto, tra i fedeli, che da quasi cinque anni usiamo nel culto e in ogni pubblico evento o documento ecclesiale una nuova versione italiana ufficiale della Bibbia, il cui iter di approvazione era terminato il 21 settembre 2007, per essere affidata, per dire così, dalla CEI alla comunità italiana il successivo 4 ottobre. Chi abbia la ventura o decida occasionalmente di seguire la messa ordinaria, in italiano, con un messale non aggiornato viene sorpreso nel vivo dell’azione liturgica (che è sanzione della “lex credendi” e preghiera efficace secondo la “lex orandi”) dalle novità di traduzione.
Se una ricerca, non difficile, evidenziasse che il fedele comune non sa di leggere un nuovo testo (non della Bibbia ma della sua traduzione: è ovvio, però gli andrebbe chiarito), dovremmo imputarlo ad una inadeguata “transizione” dal vecchio al nuovo nella pastorale ordinaria, parrocchiale anzitutto.
Non solo. È anche mancato, credo, uno strumento agile, essenziale ma anche sostanzioso, che facilitasse i parroci, quelli non dotati in proprio di attenzione e cultura esegetica, nell’individuare i luoghi dell’Antico Testamento (nella liturgia specialmente i salmi) e del Nuovo, significativamente toccati dal lungo lavoro di revisione, e darne conto ai catechisti, ai lettori, ai fedeli. “Per incidens”, lo scadere del primo quinquennio (4 ottobre 2012) potrebbe favorire un rilancio di attenzione e un consuntivo degli effetti del nuovo testo.
So che dal moderno pastoralismo si argomenterà che nel vissuto liturgico tutto si fonde, e che la lettera di ciò che si ascolta o pronuncia – da supporre benefica comunque perché detta “più fedele agli originali” – è meno importante dell’atto partecipativo. Ma una visione meno ottimistica e non pragmatistica (molto liturgismo ha una visione tecnicamente pragmatistica, non misterica, del rito) opporrà che oggi è così esile l’attenzione prestata alla “lex credendi”, cioè ai significati di fede di ciò che nella messa si proclama o si ascolta proclamare per assentirvi, che qualsiasi cosa ci venga detta o fatta dire “va bene”, purtroppo. L’abitudine di alcune parrocchie, e di ambienti non parrocchiali, a riplasmare la liturgia per conto proprio, a infiorettare e interpolare od omettere, a intercalare commenti occasionali o soggettivi, non fa che liquidificare il delicato organismo della “lex orandi” nella sua natura di continua confessione di fede, in sé non alterabile.
La questione del “per molti” o “per tutti” nella formula della consacrazione, che implica la responsabilità non di parroci o gruppi poco controllabili, ma di episcopati e di organi centrali, è solo un vertice di questo procedere senza un corrispettivo didattico, come evitando l’onere e il rischio di una spiegazione, cui invece è tenuta l’innovazione legittima e autorevole, proprio in quanto tale.
Non parlo di giustificazioni; la “ecclesia docens” non deve “giustificare” presso nessuno atti che discendono dalla sua sollecitudine per la fede, avendo l’autorità e la garanzia dello Spirito per esercitarla. Diversamente il parroco o la piccola comunità, che non sono “ecclesia docens”. È però necessario, come conseguenza dell’atto legittimo, un momento didattico che trasformi la forma nuova in assenso, avvertito e ragionato, alla ricchezza delle “duae leges”.
Ora, nell’ambito della vita liturgica e della sua pastorale, l’impressione di chi ha vissuto, da adulto e in maniera dottrinalmente vigile, gli ultimi quarant’anni è che i “riformatori” quanto più erano decisi tanto più abbiano proceduto per fatti compiuti, rispetto alla maggioranza dei fedeli e del clero. Per non innescare lungaggini e controversie, ma sovente anche per evitare la delicatezza teologica di alcune “spiegazioni”.
Per di più l’argomento storico-liturgico, spesso invocato nel variare e abolire, non convince, anzitutto perché la liturgia cresce, come la Tradizione, attorno a un nucleo inalterabile e generatore. E nessuna “abolizione” di aggiunte e innovazioni, anch’esse secolari, è dunque buona a priori. Neppure nel restauro artistico o architettonico si procede più con questo criterio, nonostante l’originale abbia sicuramente valore in sé e per sé. La liturgia vivente non è un’opera d’arte dell’antichità cristiana. Sembra invece che questa sia la “communis opinio” dei liturgisti.
Ma ci si deve opporre all’archeologismo liturgico, come a quello esegetico, per una ragione più pungente: ogni “ritorno alle origini” è potentemente ideologico; intende colpire qualcosa o molto del nostro presente e affermare qualcos’altro al suo posto. Finché non si dichiara cosa si vuole “colpire”, cosa sostituire e perché, con forti ragioni teologiche valide per se stesse, e con responsabilità ecclesiale, ogni operazione “archeologica” indurrà, sempre più, nella Chiesa, sospetti di arbitrio e di illegittimità sull’intelligencija che ne è protagonista. Coloro che celebrano la “comunità” e la “democrazia” nella Chiesa si dimostrano spesso autoritari, secondo una costante propria delle avanguardie che i politologi conoscono bene. Senonché la lunga e ormai stagnante stagione postconciliare dell’assorbimento acritico o passivo di scelte teo-ideo-logiche, proposte o imposte “in nome del Concilio”, è finita.
2. S’intende che esiste una scienza liturgistica maggiore e minore; esistono trattati, saggi, riviste e una mole di strumenti divulgativi e didattici; ma erano letti specialmente trenta o quaranta anni fa. Le ultime generazioni adulte di laici e preti vivono una cultura liturgica data per scontata, sotto il segno di una significatività partecipativa così marginale rispetto alla fede (alla “fides quae”, alla dottrina di fede) che tutto passa ed entra in circolo, da parole nuove nelle letture a novità nell’impalcatura dell’”ordo missae” (con preghiere che di fatto scompaiono: vedi il caso del “Confiteor”).
E per fortuna non si sono toccate ulteriormente le preghiere liturgiche classiche (le antifone, le collette, i grandi prefazi ecc.), che dicono ancora chiaramente quello che si tenta di non far più dire alla Scrittura. Ma, quando tutto passa, niente o quasi di ciò che cambia viene recepito dai fedeli per ciò che, veramente, l’innovazione legittima intende significare o ottenere. Ora, questa mancata recezione nel comune fedele può anche esser stata provvidenziale; sia detto brutalmente, pensando agli eccessi dell’attuazione della riforma liturgica: meno convinzioni azzardate e discutibili in giro. Ma non può durare così; tutto va ripreso saldamente in mano da Roma.
Un esempio. Nel seguire il rito della messa della Santissima Trinità col mio vecchio messale quotidiano (Ed. San Paolo, 1994) sono stato colpito, ancora una volta, dalle varianti nei brani scritturistici. La questione delle varianti mi aveva appassionato fin dalla pubblicazione del nuovo Lezionario. Il salmo responsoriale (dal salmo 33, nella Vulgata 32) contiene dati interessanti, purché si colgano: per due volte al precedente “grazia” è sostituito “amore”: “chi spera nel tuo amore” (v. 18); “su di noi sia il tuo amore” (v. 22). Le traduzioni prevalenti dell’ebraico “hesed” sono state nei secoli “misericordia” (”mercy” nella Bibbia di re Giacomo, sull’autorità della Vulgata; non molto diversamente Lutero, che ha “Güte”, benevolenza). Appare “Gnade”, grazia, nelle versioni tedesche di Ottocdento e Novecento (e “gratuité” in una diffusa Bibbia protestante francese, quella del Martin). “Gratia” viene adottato dalla revisione latina della Vulgata (il Novum Psalterium del 1946; solo per il v. 18) e passa nella prima traduzione ufficiale CEI. Castellino (1955) preferiva “pietà”. Trovo “amour” nella versione Tournay e Schwab, rivista con la collaborazione di Gelineau e Chifflot (Les Psaumes, 1955), per la “Sainte Bible” in volumetti separati detta poi “Bibbia di Gerusalemme”. Così anche nelle versioni non francesi di questa diffusa traduzione. Compare “love” nella autorevole “New English Bible with Apocrypha”, Oxford, 1970. In un suo classico lavoro del 1949 Asensio sentiva in “hesed” la nota ultima di “amor tierno y benéfico”, ma anche un significato costante di “sostegno” cui affidarsi. Dahood vi sottolineava la consistenza del “rampart”, del terrapieno o muro di cinta. Il prezioso volume di accompagnamento alla nuova versione ufficiale CEI (”La Sacra Bibbia. Introduzione e note”, CEI, 2008) su questo punto non ha informazioni, dando forse la cosa per scontata. Ma anche “misericordia”, anche “grazia” erano apparsi al loro tempo scontati.
La scelta di rendere nel salmo 33, 18.22 “hesed” come “amore” avrà certo le sue ragioni. Oggi, però, calata nei nostri contesti pastorali e liturgici, non ha un suono forte ma piatto; sembra piuttosto l’eco di un’omelia standard ove di grazia non si parla quasi più (così avviene anche nella letteratura teologica) e troppo di amore di Dio, sperperando una nozione, mescolandone sensi umani e divini, infine oscurandone la realtà. Una scelta di vocabolario, dunque, che, assieme ad altre traduzioni nuove non corredate di buone spiegazioni teologiche, “cade male”, mi permetto di dire.
3. La comune lingua ecclesiale è tentata, infatti, da un fideismo semiquietista, cui corrisponde uno spazio massimo e sregolato rivendicato alla libertà delle persone, anzi dei corpi. D’altronde, se l’azione non si incontra con la legge di Dio, se non coopera con la grazia nella legge, ma tutto riceve dal suo amore, ciò che cristianamente operiamo è solo supererogatorio. Un così copioso parlare di amore appare coerente, piuttosto, con la scomparsa del tema del peccato nelle spiritualità diffuse e nella catechesi, come nell’esile cultura di giovani teologi e teologhe (1). E la vita cristiana si assimila al cieco attaccamento del lattante al petto della madre; bello, ma falso.
Mi rendo conto di inseguire delle derive in atto con preoccupazioni che possono apparire contraddittorie. Ma, per restare ai nostri esempi, si deve temere, da un lato, che la grazia scompaia di fronte all’amore, e, dall’altro, che la grazia sia accentuata in un uso inconsapevolmente predestinazionista (2). Sono due errori estremi, in direzioni opposte. Dove e come, invece, convergono?
Il “come” è nella liquidificazione filosofica del dogma (Antonio Livi ha profondamente ragione in questo), per cui eresie opposte, svuotate della loro determinatezza teologica, semplicemente si sovrappongono, come l’enciclica “Pascendi” di san Pio X aveva colto nel modernismo classico, definito “sintesi di tutte le eresie”. E siamo, nella cultura cattolica, da oltre un quarto di secolo in clima tecnicamente neomodernistico; questo non detto genericamente, ma guardando a coordinate teoriche spesso esplicite, esibite: antidogmatismo, antirazionalismo, primato dell’esperienza e della filosofia religiosa o mistica ma anche esegesi scientifica elevata a risultato teologico; monismo spiritualistico, spinozismo, ma anche concezione della comunità di tipo gnostico; mito dell’uomo moderno ma anche filo-orientalismi nihilistici.
Il “dove” è quel punto di convergenza per cui, se la grazia è l’amore (senza ulteriori determinazioni teologiche), l’atto amorevole di salvezza non solo non ha bisogno della nostra “bona voluntas” (questo è in sé, ontologicamente, vero) ma la nostra stessa “bona voluntas” perde ogni significato (e questo è falso, persino per le teologie calvinistiche classiche). Non vi è, di conseguenza, peccato; ma senza il peccato a che la grazia?
A riprova, la dialettica peccato/grazia è quasi scomparsa dal linguaggio ordinario della pastorale. Con una premessa nell’apparentemente innocuo: il linguaggio della messa ha rinunciato alla profondità cattolica del tradizionale “ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà risanata”, che alludeva alla dialettica quotidiana della caduta e della “sanatio”, per un “e io sarò salvato” assoluto, di risonanza protestante ma senza la corrispondente drammaticità, quindi astratto e automatico. Si aggiunga la liquidazione dell’anima.
Si ha l’impressione di un che di maniacale, di distruttivamente illuministico, nella mente di chi ha poteri, nelle diverse sedi, sulla prassi pastorale e liturgica. Perciò anche ci si trova costretti a riaffermare ad un tempo la grazia di fronte all’amore (indeterminato, modernistico), e la libertà e peccabilità individuali, quindi la responsabilità, di fronte alla grazia indeterminata, modernistica, senza riprovazione né inferno. Nel magma una nuova e antica chiarezza, dunque, che si otterrà solo con il ritorno alla rigorosità dogmatica.
NOTE
(1) Non dovrebbe essere ammesso, per chi abbia o solo aspiri a gradi accademici in teologia, fregiarsi dell’appellativo di teologo, che implica una formale assunzione di responsabilità verso il “depositum fidei” e il magistero.
(2) Virtualmente predestinazionista, nonostante la virgola, è l’uso incauto della traduzione “agli uomini, che egli ama” o “agli uomini del suo amore” al posto del bimillenario “hominibus bonae voluntatis” proclamato in Luca 2, 14; specialmente se fatta assimilare con la recita del “Gloria” senza spiegare la scomparsa di una formula così forte e significativa come “uomini di buona volontà”. Si è avuta la saggezza di non eccedere, e il “Gloria” liturgico conserva la classica dizione “buona volontà”. Ma tutto messo in atto, e un po’ subíto, piuttosto che spiegato, anzi adeguatamente ragionato.
Gabrieli - Omnes gentes plaudite manibus a 16
Omnes gentes, plaudite manibus
"Omnes gentes, plaudite manibus:
iubilate Deo in voce exultationis.
Quoniam Dominus excelsus, terribilis:
Rex magnus super omnem terram.
Subiecit populos nobis:
et gentes sub pedibus nostris.
Elegit nobis hereditatem suam:
speciem Iacob quam dilexit.
Ascendit Deus in iubilo:
et Dominus in voce tubae.
Alleluja!"
"Omnes gentes, plaudite manibus:
iubilate Deo in voce exultationis.
Quoniam Dominus excelsus, terribilis:
Rex magnus super omnem terram.
Subiecit populos nobis:
et gentes sub pedibus nostris.
Elegit nobis hereditatem suam:
speciem Iacob quam dilexit.
Ascendit Deus in iubilo:
et Dominus in voce tubae.
Alleluja!"
lunedì 25 giugno 2012
san vigilio
dove il tuo nome fulgido
26 6 1988 |
ricorda al nostro popolo
lo zelo che t'accese.
Beato il tuo cammino,
che per valli e per monti
raccolse nostra gente
nell'unico Evangelo.
Matura questa terra
di molti grani un pane
coscienza d'esser gregge
d'un unico Pastore.
Attorno alla tua Cattedra
ci raccogliam devoti,
per ascoltare il provvido
annuncio della fede.
Raccogli a condividere
la gioia del tuo premio
e or canta insieme a te.
Sia gloria al buon Pastore,
che un solo ovil raduna,
al Padre onnipotente
e all'infinito Amore. Amen.
seconda lettura
Dalla lettera di san Vigilio a s. G. Crisostomo in lode dei martiri Sisinio, Martirio e Alessandro
Trad, I. Regger: I Martiri Anauniesi nella Cattedrale di Trento Trento 1966, pp. 22-40
Il pastore che da la vita si dimostra discepolo di Cristo
Allorché nella regione il nome del Signore era ancora forestiera e non v'era alcun segno che evidenziasse il sigillo della fede, a questi tre, insigni prima per il numero, poi per il merito, fu giustamente affidata la missione di predicare il Dio ignoto, dato che erano forestieri di religione e di stirpe. Lo fecero con un'opera di accostamento esercitata per lungo tempo con ordine e tranquillità, finché non vi furono complicazioni di interessi in seguito alla fede. A questo punto, fratello, desidero riflettere un istante con te sul significato dei fatti, affinché nessuno possa considerare come cosa di poco conto un martirio incontrato per motivo così ordinario. Spesso infatti si considera come cosa da poco un bene che è presente, anche se è un fatto mirabile e inaudito, non logorato dall'invidia del tempo, privo di precedenti e di imitazioni, assolutamente singolare.
Colui che con sacrificio della vita difende dai predoni la pecorella custodita nel chiuso, si dimostra non mercenario, ma discepolo di Cristo. Il mercenario fugge. Colui che non abbando-na è il pastore. Colui che dona la vita, vive: quello che la conserva, la perde (cfr. Gv 12,25). Che altro fece il nostro Maestro e Signore, se non ricercare gli erranti? Egli, l'Agnello, che fece, se non difendere le pecorelle, immolandosi vittima per esse?
Fui spettatore, lo confesso, in mezzo a questi misteri, e vegliai sulle ceneri dei Santi. Io, che non meritai di partecipare alla loro sorte, compresi la sublimità di quella grazia, a cui non mi è stato dato di arrivare. Ho visto con i miei occhi e ancora oggi stento a credere a me stesso tanto i fatti narrati sorpassano il riguardo delle parole. Perciò tocca a Dio, fratello, confermare ciò che egli per sua elezione ha voluto, e far fede con la sua verità alla testimonianza delle mie parole. Ricevi ora, fratello, i doni dei tre fanciulli, o meglio i tre fanciulli per i loro doni, dal rogo quasi dico ancora divampante di fuoco. E se l'orrido furore della fiamma non li avesse presi con sé già semimorti, avremmo visto rivivere la scena della storia sacra. A tal punto essi ne riproducono tutti i particolari, con onore quasi uguale: la voce, la rugiada, la fornace, il numero. La voce nella fede concorde, la rugiada nella pioggia, la fornace nel rogo, il numero nella trinità.
responsorio Vigilio a Giovanni Cr.: 2 Cor 6,4.5
Da parte dei Santi fu applicata l'unica forma perfetta di combattimento
* con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle fatiche, nelle veglie.
In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio.
Con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle fatiche, nelle veglie.
inno Te Deum
ORAZIONE O Dio, che ci doni di celebrare solennemente la festa di san Vigilio vescovo e martire, ascolta le nostre suppliche: difendici per suo merito da tutte le avversità della vita presente e fa' che possiamo ottenere la salvezza eterna. Per il nostro Signore.
26 GIUGNO
SAN VIGILIO
Ad laudes
HYMNUS
HYMNUS
Quem tuus digne tibi grex honorem
Luce persolvet, bone Pastor, alma
Luce, quae sanctae recolenda nobis
Gaudia reddit?
Hac die fulgens tibi porta caeli
Panditur, dum nec lapidum nefandus
Ille te nimbus, neque mortis atra
Terret imago.
Tu quidem verbo angelicaque vita
Traxeras mortis populos ab umbra,
Sed tuo firmasti hodie salutem
Sanguine nobis.
Tu tuos et nunc miseratus audi.
Heu vide, quae nos feriant procelle!
Quae premant culpae! veniam precare,
Et rege fessos.
Praestet hoc nobis Deitas beata
Patris ac Nati, pariterque sancti
Spiritus, cujus canitur per omne
Gloria saeclum. Amen.
Ad vesperas
HYMNUS
Invicte martyr, supplices
Te deprecamur, annua
Benignus atque prosperus
Sume tuorum munera.
Si nullus olim te labor,
Nec dura mors deterruit,
Dum creditas oves tibi
Lupo eripis teterrimo:
Tu nunc, adepta laurea,
Dulcique laetus patria,
Quanto tuum libentius
Fidum gregem tutaberis?
Deo Patri sit gloria,
Ejusque soli Filio,
Cum, Spiritu Paraclito,
Nunc et per omne saeculum.
Amen.
Ant. Beatus Vigilius verbi divini pabulum in lucrum animarum indesinenter distribuit.
Ant. Caecos et mutos atque a daemonibus obsessos crucis signo statim liberavit.
Ant. O quam multos ab immolationibus impiis ad puritatem Christianae fidei perduxit !
AD LAUDES et per Horas, Antiphonae.
1. Sanctus Vigilius,vigil sacerdos, dies et noctes ad Christi ovile vigilavit,
nec inde lupos expellere cessavit.
2. Beatus Vigilius confessus est nomen Domini Jesu Christi, et prò illo mori non dubitavit.
3. In memoria aeterna erit justus Vigilius, quoniam Dominum fidelis minister secutus est.
4. Honorificavit eum Deus et collocavit cum principibus populi sui.
5. Gratias tibi ago, Christe, quia me dignum fecisti, ut, quod diu desideraveram, jam invenirem.
Capitolum Eccli. 50
In diebus justi manaverunt putei aquarum, et quasi mare adimpleti sunt supra modum.
RESPONSORIUM
Hic totus ad superna conversus beatitudinem illic quaesivit et invenit. * Fundatus enim erat supra firmam petram.
Hic totus ad superna conversus beatitudinem illic quaesivit et invenit. Fundatus enim erat supra firmam petram.
Voluptates omnes et terrena omnia, uti res vilissimas, contempsit.
Fundatus enim erat supra firmam petram. Gloria.
Hic totus ad superna conversus beatitudinem illic quaesivit et invenit. Fundatus enim erat supra firmam petram.
Ad Bened. Ant. Solemnis nobis illuxit dies, in quo sacer Antistes et martyr Vigilius,
multis in terris pollens miraculis, Angelorum in caelis meruit consortium.
Ad Magn. Ant. O praeclarum Martyrem, cujus doctrina et meritis populus Tridentinus
fidem sanctissimae Trinitatis suscepit.
Oratio Deus, qui hunc diem nobis beati Vigilii Martyris tui atque Pontificis sanguine consecrasti; da, quaesumus, ut ejus meritis ab omnibus semper adversis defensi, aeternae vitae proemia consequamur. Per Dominum nostrum ….
Iscriviti a:
Post (Atom)