Il primato di Dio nel silenzio, nell'Adorazione, nella cura per la Liturgia
Sui nostri televisori scorrono in questi giorni le immagini di un’abbazia che accoglie la compagine di governo dell’Italia, secondo la moda del ritiro di lavoro.
Sono le ultime in ordine di tempo; soltanto alcune dei tanti luoghi dello spirito convertiti in qualcosa di diverso rispetto all’originaria connotazione.
La progressiva chiusura di abbazie e monasteri rappresenta un fenomeno che rischia di passare inosservato, specialmente nel forte clima di secolarizzazione dei nostri tempi.
Lo sviluppo di interi territori della nostra penisola è passato attraverso quegli edifici, capaci di imporsi come officine di autentica cultura perché fondamentalmente luoghi dello spirito.
Un bacino al quale poter attingere per quella umanizzazione che oggi passa come un dovere precipuo della Chiesa e dell’impegno dei cristiani nel mondo.
Ogni abbazia può narrare di quanto sia risultato vero e fecondo questo dialogo, improntato sull’incessante colloquio che Dio stesso ha voluto instaurare con le sue creature.
Parlare con Dio per saper parlare con gli uomini: questa è la storia del monachesimo.
Se tutto questo è vero, la missione della Chiesa si trova mirabilmente esemplificata in ciò che la vita monastica ha espresso.
Non ci sono, chiaramente, vocazioni più alte e vocazioni meno alte.
Ci sono, però, vocazioni più radicali e vocazioni meno radicali.
Tutte sono necessarie, tutte contribuiscono ad edificare la Chiesa e ad essere segno eloquente del primato di Dio e del mondo che verrà.
Tuttavia quelle più radicali sembrano sostenere le altre, richiamando la sorgente perenne di ogni consacrazione e di ogni servizio, anche laicale.
Anche gli ordini mendicanti e le moderne congregazioni non sono stati che l’estensione alle città, alle missioni, alle periferie di quell’insostituibile testimonianza del primato di Dio.
E tutto ha funzionato finché a nessuno è venuto in mente di contestare la presenza di un Dio che parla nel silenzio, nel nascondimento, nella ripetitività di gesti e di fatiche che possono soltanto essere intuite al di là dei muri e di chiostri.
Ciò che ha resistito per secoli, anche di fronte alla furia di eserciti e di soppressori, sembra essersi dissolto nel giro di pochi decenni.
Anche perché di fronte alla radicalità della scelta di “Dio solo”, non stanno nuovi Bonaparte, ma i cattolici stessi.
La crisi delle vocazioni, che comporta la chiusura di secolari centri monastici, non è soltanto figlia della secolarizzazione, bensì del mutamento di prospettiva che, senza indicazione alcuna da parte della Chiesa, sembra aver preso piede con frenesia crescente.
Il fiorire di nuove forme di vita, che in parte si richiamano alle tradizioni monastiche, dovrebbe far riflettere seriamente su questa peculiarità che la Chiesa ha di rendersi manifesta in modo esemplare dove il primato di Dio si traduce nel silenzio, nell’adorazione, nella cura per la liturgia, nella dedizione alla vita dello spirito.
Certo, pare che sia retto il pensiero che predilige la salvaguardia degli ambienti e la loro recezione ad un pubblico vasto piuttosto che il degrado e l’impossibilità di fruizione.
Da un punto di vista culturale si tratta di un aspetto non del tutto irrilevante anche per i cattolici.
Tuttavia mostre, concerti e convegni possono svolgersi anche in altri edifici.
Per non parlare della solita critica idiota all’opulenza della Chiesa e alla vita che là conducevano i pochi privilegiati.
Se si potessero far tornare in vita coloro che hanno ricevuto la carità (spirituale, materiale e intellettuale) da quei centri, non avremmo spazi disponibili per accoglierli.
Senza dimenticare peraltro che generazioni di monaci hanno vissuto di carità, oltre che del loro lavoro.
Quello che non si può accettare è che gli stessi cattolici, sempre più dimentichi del loro passato, si pongano di fronte alla vita religiosa come davanti a qualcosa che abbia ormai segnato il corso.
Quelle abbazie sembrano ormai irrilevanti in un discorso di impegno per il mondo.
Il vangelo ci dice che il mondo va salvato, ed è per questo che la Chiesa esiste.
Il vangelo ci dice che il mondo va salvato, ed è per questo che la Chiesa esiste.
Non solo per questo, perché la sua prima missione è la glorificazione di Dio, ma anche per questo. Glorificazione di Dio e salvezza dell’uomo sono le due dimensioni inscindibili della Chiesa; nata, e non per caso, dal sacrificio di Cristo, che glorifica il Padre offrendo la sua vita per la nostra salvezza.
Per questo ci occorre una Chiesa che tace per ascoltare il Verbo della Vita, che sta per tutti al cospetto di Dio, che dal silenzio impara le parole con cui parlare a Dio.
Non ci servono spazi della memoria.
Ci servono spazi abitati dalla preghiera.
Ne abbiamo bisogno adesso, non in un futuro che solo Dio conosce.
Preghiamo per le vocazioni di speciale consacrazione.
Perché non ci manchi mai la radicalità della scelta.
Preghiamo perché la misericordia di Dio ci restituisca luoghi abitati dal sì della Chiesa.
Ci servono spazi abitati dalla preghiera.
Ne abbiamo bisogno adesso, non in un futuro che solo Dio conosce.
Preghiamo per le vocazioni di speciale consacrazione.
Perché non ci manchi mai la radicalità della scelta.
Preghiamo perché la misericordia di Dio ci restituisca luoghi abitati dal sì della Chiesa.
Don Antonio Ucciardo.
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