domenica 11 giugno 2017

La chiesa pericolo per l’umanità

Ratzinger Concilio e Cristianesimo a che punto siamo? Era il 1972

 
 
 
AVVISO: prima di presentarvi l’Epilogo, inedito della raccolta di conferenze ed interventi dagli anni 1970-1973, di Joseph Ratzinger, e raccolti in un Volume dal titolo Dogma e Predicazione, riedito poi nel 2005 quando divenne Pontefice con il nome di Benedetto XVI, vi offriamo un passaggio della Prefazione di apertura del testo perché ci sembra anche profetica in alcune sue parti, per proseguire con due domande di una attualità davvero interessante, che faremo bene a meditare con le risposte di Ratzinger: con il concilio a che punto siamo? e: a che scopo ancora, il cristianesimo?


PREFAZIONE
La via che conduce dal dogma alla predicazione è divenuta molto faticosa. Non esistono più modelli di pensiero e di opinione atti a trasferire il contenuto del dogma nella vita di ogni giorno; ma si pretende troppo dal singolo predicatore, se si esige debba ripercorrere personalmente, di volta in volta, tutto il cammino che va dalla formulazione del dogma al suo nucleo e, da qui, di nuovo al linguaggio del tempo presente. Non sarebbe preferibile lasciar completamente da parte il dogma? In una siffatta soluzione radicale, che ad alcuni appare oggi come l’unica alternativa, la predicazione si trasforma in un parlare in nome proprio e perde ogni interesse oggettivo: lo ha mostrato in modo persuasivo ed incontestabile Erik Peterson, rifacendosi alle infelici esperienze della teologia liberale, che si andava sbriciolando (Was ist Theologie?, Bonn 1926). L’intima tensione della predicazione dipende dall’oggettiva tensione dell’arco dogma-Scrittura-chiesa-oggi: nessuno di questi pilastri può essere tolto, senza che a lungo andare non crolli il tutto… (..)
Joseph Ratzinger – Regensburg, febbraio 1973



EPILOGO
A dieci anni dall’inizio del concilio: a che punto siamo? (del 1972)
Rovistando in questi giorni tra le vecchie carte, mi è capitato tra le mani il numero del Ruhrwort del 13 ottobre 1962. Vi si legge che lo storico e scrittore francese Daniel Rops aveva asserito che il concilio iniziato avrebbe avuto ben poco o, addirittura, nulla di un concilio di dottrina. Alla domanda, che gli era stata rivolta, se si trattasse del superamento di una crisi, se la chiesa avesse urgente bisogno di una riforma, come ad esempio nel secolo XV, egli aveva risposto: Sicurissimamente no; e aveva citato, a conferma di ciò, la seguente affermazione dell’allora cardinale di Milano Montini: «A differenza di molti altri concili, il Vaticano II si riunisce in un momento di tranquillità e di fede ardente della vita della chiesa».

Chi legge oggi questo testo e confronta quest’affermazione di Montini con ciò che la stessa persona, oggi Paolo VI, predica instancabilmente, percepisce con una certa commozione quanto sono lunghi dieci anni. In fondo, nessuno allora affermava che la chiesa era in crisi; oggi, nessuno lo nega, per quanto contraddittorie siano le opinioni circa la natura e le cause di questa crisi.

Che cosa è accaduto? È stato forse il concilio a creare la crisi, dato che esso non aveva alcuna crisi da superare? Non pochi sono di questo parere. Non è certo un’affermazione completamente falsa, ma tocca solo una parte della verità e non è sufficiente per valutare ciò che, da allora, è avvenuto e che può ancor oggi essere in atto. Non posso qui soffermarmi a delineare le opposte correnti che, prima del concilio, si erano andate formando nella teologia cattolica, in rapporto ai problemi di un mondo che cambia rapidamente, e si erano riunite sotto la comune bandiera del progressismo.

Il graduale manifestarsi di una loro più profonda inconciliabilità appartiene a quei fatti che si sono profilati dalla fine del concilio, a partire soprattutto del dibattito sulla costituzione pastorale «La chiesa nel mondo contemporaneo», per assumere in seguito un ritmo sempre più veloce. Comunque, più importante mi sembra soprattutto notare che, nella situazione spirituale generale dell’umanità e del mondo occidentale in particolare, la fine del concilio si accompagnava con un cambio di generazione di fondamentale importanza: avveniva il passaggio dalla prima alla seconda generazione del dopoguerra. Nella misura in cui questo si verificava, a determinare la coscienza non era più lo slancio di un mondo da riedificare dal nulla, ma il potere opprimente di un mondo già completamente edificato, dove tutto è ormai compiuto ma non è offerto alcun senso. La stessa teologia del dopoguerra non era esente da colpe, di fronte a questo vuoto di senso. Ispirandosi infatti al pensiero esistenzialista, si era rifugiata nella non-oggettivabilità di fede e di senso, ed aveva abbandonato il mondo del puro realismo.

Nella fase dell’edificazione, questa restituzione del mondo a proprie leggi era stata sentita come opportuna; ora invece l’oggettività, libera da valori, dell’economia e della politica appariva chiaramente problematica, appariva sempre più come il pretesto dietro il quale si celavano interessi che andavano portati alla luce. Così, nel momento in cui sembra di aver raggiunto il vertice della ricostruzione, scoppia la rivolta contro il mondo finito e, proprio nel suo senso finito, assurdo: si deve distruggere per poter riedificare. In un opuscolo pubblicitario sul Canada, ho trovato la poesia di un giovane, il quale descrive come il mondo del sapere gli viene incontro personificato in un atlante, dove ogni sentiero, ogni guado, ogni acqua, ogni altura sono già stati registrati: non c’è più da scoprire. Alla fine il giovane brucia l’atlante, per trovare da solo i sentieri del mondo. Mi sembra un simbolo appropriato ad esprimere questo sentimento di asfissia, in un mondo che tutto offre senza presentare uno scopo.

Dopo le prime violente scosse, si sono cristallizzati intanto due modelli opposti del superamento della realtà: quello neopositivista, nel quale è essenziale il concetto di una riforma razionale, di un ulteriore sviluppo oggettivamente orientato, e quello neomarxista, che dai positivisti non a torto viene definito cripto-teologico: qui è aborrita proprio l’oggettività positivista, considerata un pretesto di ideologie e di interessi, e viene sviluppata coscientemente una politica non in senso oggettivo, ma derivata da dogmi marxisti. Pur volendo scoprire lo sviluppo postconciliare della chiesa cattolica e la sua attuale posizione, non possiamo qui approfondire ulteriormente la problematica politica ed economica di questi punti di partenza. Dobbiamo comunque sforzarci di vedere come il sentimento di vita delle generazioni, cresciute in questo contesto, ha influito su una fede e su una teologia. Mi sembra che la seguente duplice affermazione riesca a caratterizzare sinteticamente il nostro problema: il nuovo movimento significa distacco dalla storia e distacco dalla metafisica.

Distacco dalla storia: in questa coscienza nuova, la storia rappresenta quel mondo finito che, in campo profano, vien denominato «istituzione» e, in campo ecclesiastico, è detto «chiesa ufficiale», e che appare come ciò che opprime, come l’impedimento per il nuovo e come la causa di tutti quegli interventi sbagliati, che sono stati attuati nel presente sistema del mondo. La storia perciò è un ostacolo; essendo il potere di ciò che è già stato, essa intralcia il futuro; non si possono trovare in essa dei modelli di progresso. Ad una siffatta mentalità l’attenzione alla storia è espressione di reazione ed appare quindi come qualcosa di astratto e falso. Solo nella prospettiva di una simile concezione spirituale, si spiega la velocità con cui le asserzioni e gli intenti positivi del Vaticano II hanno potuto ricadere nel passato, per essere sostituiti prima dall’utopia di un prossimo Vaticano III e poi dai sinodi, che del Vaticano II hanno accettato lo «spirito» ma non i testi. La «spirito» sta a significare qui l’attenzione al futuro, come campo d’illimitate possibilità. La storia continua però a giocare un ruolo importante in due forme, ma sempre in un modo che sottolinea quanto è stato sinora affermato:
  1. La storia diviene rilevante come storia compresa nel senso di Marx e di Hegel. Ma, in quest’atto di comprensione, il soggetto stesso si pone al di fuori della storia, che egli prende in mano per portarla alla sua meta.
  2. La storia può essere evocata come un «ricordo pericoloso» dell’umanità: la riserva dell’antistorico, che si è ammassato nella storia, viene vista allora come un potenziale rivoluzionario, che val la pena risvegliare. Pertanto, Ernst Bloch ha invitato a ripensare la Bibbia in tal senso: a partire dal serpente del paradiso, si snoda, a suo parere, la catena di coloro che sono in contraddizione con la realtà corrente e predominante; questo lievito rivoluzionario, che si è così ammassato, rende importanti la Bibbia e la storia.
Si presenta quindi un nuovo filo conduttore per l’interpretazione della Scrittura e della tradizione, un orientamento nuovo che caratterizza anche i testi del Vaticano II. Poiché risuonano ancora negli orecchi le voci conciliari della disputa, della contraddizione e della lotta contro la rigidità tradizionalistica, appare relativamente facile leggere il tutto in questo contesto e sentirsi, di conseguenza, nello «spirito»  del concilio, proprio perché si continua sulla strada delle sue affermazioni, alla ricerca di sbocchi più aridi, basandosi su quanto si è già sviluppato.

Ma distacco dalla storia significa necessariamente anche distacco dall’essere inteso come realtà costante dell’uomo, orientamento alla pragmatica di ciò che di volta in volta va creato. L’escatologia, l’attesa cioè del mondo futuro, non è più vista all’interno della teologia della creazione, ma prende il posto della creazione stessa: il mondo reale e degno di esser vissuto deve ancora essere creato e lo sarà per opera dell’uomo stesso, contro ciò che egli si trova davanti. Ma ciò significa anche che il pragma di un lavoro umano non è nel logos dell’avvenuta creazione, ma lo sostituisce. È l’uomo stesso il creatore escatologico, ed egli non è preceduto da nessun logos, ma solamente seguito: all’inizio non c’è «la parola» ma «l’azione» (riguardo a ciò vi riportiamo a questo testo di Ratzinger, clicca qui).

 
Se ritorniamo al punto di partenza delle nostre considerazioni, possiamo così riassumere quanto è stato detto sinora: la situazione ecclesiastica e temporale di oggi si spiega ampiamente solo se ci rifacciamo alla connessione esistente tra le scosse psichico-spirituali, legate al cambiamento verso la seconda generazione del dopoguerra, ed i movimenti ideali e teologici che si appoggiavano a vicenda. Ciò vuol dire che il dibattito sulla vera eredità del Vaticano II non può oggi esser condotto unicamente sulla base dei testi. Per l’esito di tale dibattito sarà determinante chiedersi se esiste una copertura spirituale non solo per un’interpretazione antistorico-utopistica del concilio, ma anche per una comprensione creativo-spirituale in viva unità con la tradizione vera. Ma da ciò dipende anche la sorte della teologia e della chiesa, se esse avranno, a lunga scadenza, ancora qualcosa da dire all’umanità in genere. Il tutto ci porta quindi al problema di sapere di quali forze si può oggi tener conto nella chiesa cattolica e nella sua teologia. Io ne indico tre.

In primo luogo, va ricordato quel progressismo che si mescola sempre più con idee neomarxiste e che, pertanto, diviene sempre meno postconciliare, in quanto si allontana con velocità crescente dal suo punto di partenza. I suoi primi passi vanno visti in quella teologia del mondo, che J. B. Metz ha sviluppato da una fusione del tomismo, reinterpretato in senso trascendentale-filosofico da Karl Rahner (clicca anche qui), con quella visione del mondo, per la quale Friedrich Gogarten si era ispirato a Lutero. Nell’incontro con Ernst Bloch, questa teologia del mondo è stata prima mutata in teologia della speranza e poi, logicamente, in .

Oggi, da queste prime impostazioni, andando molto oltre i maestri, è derivato un pragmatismo riformatore generale, distinto in differenti correnti, il quale sfocia in un movimento senza veri grandi nomi. Proprio questa mancanza di un volto fa sì che tale movimento si presenti come potere dell’unica vera modernità, che si fonde sempre più con la generale tendenza neomarxista e perciò non è propriamente una forza veramente critica nella società, una forza dalla quale possa derivare una speranza, per quanto tenti di raccomandarsi sotto l’etichetta della speranza e della critica. Il principale ambito di diffusione di una tale tendenza sono le comunità di studenti e, con accenti indubbiamente più moderati, alcuni gruppi di sacerdoti.

Chi legge gli atti della Katholische Deutsche Studen-Einigung, dell’organizzazione suprema cioè delle comunità studentesche, si sente trapiantato in una succursale marxista, dove un vocabolario politico-economico ed una terminologia teologica si intrecciano tra loro, con una mescolanza davvero meravigliosa. In tali comunità, ci si comprende come «condizione della possibilità per una nuova chiesa» e, basandosi su di una simile coscienza della propria missione, ci cerca di mettere in opera quel superamento della storia, che deve realizzare la società priva di classi ed il suo paradiso anche nella chiesa e mediante l’utilizzazione rivoluzionaria della chiesa.

In secondo luogo, ci sarebbe da ricordare quell’atteggiamento che vede la salvezza unicamente nell’attenersi il più fedelmente possibile alla teologia e alla filosofìa scolastica: continua qui ciò che nel concilio si era manifestato come forza del conservatorismo. Nell’ambito della teologia, questa tendenza riveste poca importanza; sorprende, invece, come non di rado proprio dei rappresentanti di una limitata teologia delle scuole abbiano deposto le loro armi e siano passati a vaghe posizioni moderniste. Molto più importante è un movimento della pietà, che si sente tradita ed abbandonata dalla teologia ed ora cerca risoluto la sua strada senza la teologia, anzi, contro di essa. Sotto la minaccia, istintivamente avvertita, di una totale falsificazione e di un crollo inevitabile dei valori sinora dominati, ci si rifugia in ciò che si ritiene come specificamente cattolico: in una pietà mariana che si alimenta a visioni e miracoli; in una lotta gretta per la lettera della vecchia liturgia ecc. Solo così si pensa di poter conservare l’identità cattolica.

Non si deve sottovalutare ciò che anche qui opera come autentica forza religiosa. È grande, tuttavia, il pericolo di un chiudersi in forme che portano alla settarietà. È un pericolo chiaramente riconoscibile là dove si accusa lo stesso Vaticano II di eresia e si abbandona quindi la strada indicata dal contesto ecclesiastico-universale.

In terzo luogo, ci sarebbe da accennare a quelle forze che hanno propriamente reso possibile e preparato il Vaticano II, ma sono state subito travolte da un’ondata di modernità, con la quale quelle forze potevano venir confuse solo grazie ad un errore madornale. Si tratta di una teologia e di una pietà, che si fondano essenzialmente sulla Sacra Scrittura, sui padri della chiesa e sul grande patrimonio liturgico della chiesa tutta. Al concilio, questa teologia si era adoperata per alimentare la fede non solo al pensiero dell’ultimo secolo, ma alla grande corrente di tutta quanta la tradizione, così da rendere quella fede più ricca e più viva, ma al tempo stesso anche più semplice e più aperta.

Per il momento questo tentativo sembra fallito; esso è rimasto impotente di fronte ai più accessibili programmi, che da allora si sono posti come alternativa. Malgrado ciò, crescenti indizi fanno pensare che l’impulso di questa teologia non sia andato a vuoto. Molti sono i sintomi che fanno sospettare una sua ripresa e qui, a mio giudizio, sta la speranza della nostra situazione presente. Dopo tutti i trastulli di liturgie autonomamente elaborate, noi avvertiamo l’insorgere della nuova esigenza di un profondo e personale incontro con Dio e di un culto, il quale faccia veramente conoscere la presenza dell’Eterno. Esperimentiamo la nostalgia degli uomini per Gesù Cristo e per quel semplice gesto, che si apre francamente all’agire dello Spirito Santo, non per fuggire dal mondo, ma per potergli dare qualcosa di più di nuovi problemi.

Mi pare che alcuni uomini incomincino a capire sempre meglio che il mero pragmatismo di una riforma strutturale della chiesa trascura proprio ciò che dovrebbe esser dato veramente agli uomini; in verità, il fanatismo di quanti propugnano una riforma della struttura è un nuovo clericalismo, un egoismo clericale che non si cura dell’uomo e si preoccupa primariamente dei propri interessi. I contrappesi di questo apparente e falso progresso sono ancora deboli, ma si sviluppano e, forse, dal confuso fermento in cui noi oggi ci troviamo, a dieci anni di distanza dal concilio, spunterà gradualmente un rinnovamento che merita veramente questo nome.

Mi permettano, a conclusione, di illustrare ancora un pochino questa speranza e la direzione in cui essa tende. Alle tipiche esigenze di quel progressismo neoclericale, di cui si parlava poco fa, appartiene ad esempio il desiderio della fine di spazi sacrali, della fine di una liturgia staccata dalla vita quotidiana: una liturgia non può essere che concentrazione della vita di tutti i giorni, essa deve presentarsi come discussione, per quanto riguarda la liturgia della parola, e come normale banchetto fraterno, per quanto concerne il sacramento.

A ciò si collega l’esigenza di un ufficio «funzionale»; si dice infatti, ad esempio: Il sacerdote deve coordinare la partecipazione comune alla discussione ed al banchetto e, normalmente, dirigerla anche, ma la sua professione dev’essere profana, al pari di quella di ogni altro cristiano; quando non dirige una comunità, non è neppure sacerdote.

Io credo che siffatte esigenze, apparentemente moderne, non sorgano in persone che sono realmente contemporanee del nostro oggi e della sua afflizione. Sorgono in persone che sono ancora profondamente radicate nel passato e vivono col complesso del loro esser sorpassate. Si sentono visibilmente oppresse dalla solida armatura del mondo ecclesiale, in cui sono cresciute, e cercano disperatamente di liberarsene.

Si rivoltano contro quel mondo, che però da tempo non esiste più per la maggior parte degli uomini. Il loro grido nasce, per buona parte, dal fatto che essi non sono affatto in sincronia col presente. Infatti, il problema dell’uomo di oggi non è quello di essere oppresso dai cosiddetti tabù sacrali; il suo problema sta nel vivere in un mondo di una profanità senza speranza, dove egli è inesorabilmente programmato fino nel tempo libero. La vera oppressione, che abbiamo alle calcagna, non è più l’ordinamento della chiesa, ma la totale programmazione che, in ogni libertà borghese, ci degrada sempre più a funzionari di un sistema anonimo e ci porta una metà alla disperazione, l’altra metà all’asfissia.


Per ovviare a questo ci vogliono uno spazio destinato a diversi usi, un ufficio funzionale ed una liturgia profana? No. Non è sicuramente questo che può dare un futuro alla fede. Solo chi vive ancora nell’ieri sente la fede come un’oppressione, come un pericolo. Solo chi vive ancora nell’ieri, deve opporsi al futuro. Chi si toglie di dosso l’ieri e si trova assegnato al nudo oggi, scopre che il mondo ha bisogno del sacro. Le sue notti buie chiedono di Dio. Ed egli sa che la fede ha un futuro. Non il futuro dei funzionari e della programmazione neoclericale, ma il futuro di Dio. Il futuro del mistero, della fede, della preghiera, della vera liturgia con la sua poesia derivante dall’Eterno. L’eredità del Vaticano II non è ancora ridestata. Essa attende la sua ora. E questa verrà, ne sono certo.


A che scopo ancora il cristianesimo? (1972 e pubblicato sull’Osservatore Romano in edizione tedesca)

Risuona nei nostri orecchi l’affermazione, sempre più spontanea, che oggi la fede della chiesa non serve più a nulla. Definire tradizionale una realtà equivale ovunque, ormai, a ritenerla sorpassata e priva di importanza. E la chiesa vive della tradizione di ciò che essa ha ricevuto dall’inizio e sembra, perciò, nella forma almeno che ha avuto sinora, non avere davanti a sé più alcuna prospettiva.

Un discorso del genere non eserciterebbe un simile potere, se non poggiasse su di un’esperienza, alla quale è difficile potersi sottrarre: in primo luogo, la sensazione che tutto si trasforma nel mondo; esso sembra mutarsi sempre più in fretta, con una radicalità tale che nessuno dei criteri abituali regge più ed unicamente strade totalmente nuove possono soccorrere un’umanità totalmente trasformata; accanto a questo, ci assale, in secondo luogo, l’esperienza dell’inutilità del cristianesimo: esso non riesce a strappare l’uomo dalla sua miseria, e per molti si riduce così ad una mera lusinga, ad una redenzione apparente che non tocca la realtà.


In effetti, se non si partecipa all’esperienza cristiana, è impossibile esprimere un giudizio diverso da questo. Si incomincia allora a vergognarsi del messaggio cristiano e si vogliono suggerire dei risultati tangibili: interventi sociali ed economici, che nessuno può contestare e che liberano apertamente l’uomo, lo redimono dalla sua miseria. Intanto, la necessità cresce con ritmo più veloce degli aiuti che le vengono contrapposti; col ripiegare sul tangibile, con cui si vuol far vergognosamente dimenticare una tradizione e si vuol spiegare il cristianesimo come parte di un moderno lavoro di umanizzazione, aumenta contemporaneamente la disunione della chiesa: essa diviene così per tutti ancor più infelice, ancor più disperata, ancor più problematica.

Poco sembra rimanere della lieta novella. Vi sono subentrati diverbi e situazioni critiche. Qualche tempo fa il Cardinal Dòpfner, per spiegare il disagio che si diffonde nella chiesa d’oggi, l’ha paragonata ad un cantiere; uno spirito critico ha aggiunto che sembra un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare di proprio gusto: il risultato è evidente.

A che scopo ancora il cristianesimo? In luogo della redenzione proveniente dalla fede sono apparse oggi due strade, per le quali gli uomini tentano di redimersi: quella politico-economico-sociale e quella psicologica. Da un lato, la società del benessere va sempre più alla ricerca di quei confessori profani, che con la loro conoscenza scientifica dell’anima umana dovrebbero riordinare l’esistenza scossa e svuotata: si vuol riscoprire ciò che è amore, ciò che è parola, tutto ciò che è originario dell’uomo.

Ma soccorrono veramente questi medici? Essi possono dire come funzionano le singole forze dell’anima umana, ma non a che scopo. Ma la dissociazione dell’anima deriva proprio dal fatto che le sue forze agiscono a vuoto. Proprio osservando questi sforzi, si capisce che l’anima umana è fatta in maniera tale che non si spiega da se stessa. Non è congegnata come un orologio, come un tutto chiuso in sé, che funziona e si sa a che parte spetta ogni singolo pezzo. Al contrario, essa vive in un ciclo aperto, meglio, in una parabola aperta, e non se ne cava nulla senza il punto di riferimento che sta al di fuori di essa. S’impone qui un’immagine di Agostino: l’esistenza umana è ordinata in modo che Dio costituisce il punto di costruzione, al quale essa è fissata; se quest’aggancio superiore va bene, allora anche le altre parti restano unite in una compagine armonica; ma se si scioglie, allora anche tutto il resto cade in rovina e non rimangono che pezzi.

 
Ma facciamo un passo alla volta. Accanto alla redenzione psicologica, vi è quella socio-economica, la via della politica totale. Tutto è politica, sentiamo dire oggi; pertanto, solo la cosciente politicizzazione di chiesa, fede e liturgia può dischiudere la strada verso il futuro e «redimere» l’uomo. Chi osserva l’enorme bisogno delle genti dell’India, dell’Indocina e dei quartieri poveri delle grandi città dell’America settentrionale e meridionale, chi avverte come il processo di industrializzazione programma in maniera crescente l’uomo e minaccia di togliergli la sua anima, costui non sottovaluterà sicuramente l’importanza della politica per la salvezza dell’uomo. Comprenderà il perché la chiesa, fin dall’inizio — concorde in questo con la sinagoga — ha visto nella sfera politica un settore della salvezza dell’uomo ed ha elevato la sua preghiera per i governatori del mondo. Esiste quindi un impegno politico del cristiano; se non l’assolve, egli sottrae alla sua fede il carattere di realtà. La rettitudine e la serietà della fede si manifesta anche nella sua capacità di una positiva azione politica e di un’opposizione politica, dove è il caso.

La preoccupazione politica è necessaria per la salvezza dell’uomo. Ma la politica totale sarebbe la sciagura sicura dell’uomo. L’uomo ha bisogno di pane per la sua salvezza, ma non viene salvato unicamente dal pane; la giusta distribuzione del potere riguarda la sua salvezza, ma la sua liberazione non può derivare da una ridistribuzione di questo genere (cf.Mt4,3-6; 8,29; 14,33; 27,40-43).

Esiste un’interpretazione politico-economica dell’Antico Testamento, per la quale la salvezza risiederebbe nella creazione di benessere e di sicurezza. La storia della tentazione di Gesù qualifica questo concetto di redenzione come idea di Satana. Dietro l’invito che Satana ha rivolto a Gesù di trasformare le pietre in pane ed egli gli avrebbe offerto il governo di tutti i regni del mondo, si celano concezioni realissime di quel tempo: il Messia doveva provare la propria identità dando in abbondanza pane a tutti ed erigendo, sotto il segno del suo potere politico, un regno mondiale di pace, Gesù non pone fine alla fame del mondo, né sovverte i rapporti di potenza: non può quindi essere il Messia… Solo chi libera l’uomo sotto l’aspetto politico-sociale, lo libera veramente. Tutto il resto non conta nulla.

Contro questa concezione, il vangelo è chiaro: una siffatta liberazione consegnerebbe l’uomo a Satana, lo renderebbe cioè completamente suo schiavo.

Ci sembra un giudizio molto duro. Ma, forse, proprio l’esperienza della nostra generazione può farci nuovamente comprendere la validità di quest’affermazione. Nel grande romanzo di Solzenicyn Il primo cerchio, troviamo un singolare parallelismo con quest’asserzione biblica. Il parallelismo risulta già dal fatto che tutta l’azione di questo libro si svolge all’inferno e quest’inferno è proprio là dove la politica totale ha istituito il suo paradiso: questo paradiso è l’inferno, nel quale l’uomo distrugge l’uomo. L’immagine diviene terribilmente plastica nella scena finale, quando i prigionieri, per essere mimetizzati agli occhi della gente, vengono sistemati su vagoni merci che portano la scritta: carne. Il corrispondente del giornale francese Liberation — Liberazione — continua a vedere simili furgoncini ed annota sul taccuino: «L’approvigionamento della capitale non può essere che eccellente».

Nel libro vi è una scena in cui mi sembra che questo discorso abbia acquistato un’evidenza estrema. L’Autore pone sulla bocca del vecchio idealista marxista Rubin un’interpretazione provocante del Faust di Goethe. Com’è noto, la tragedia di Goethe non si chiude tragicamente, ma in un ottimismo fondato indubbiamente su di una singolare contraddizione…. Faust ritorna così al suo inizio: egli aveva tradotto il prologo di Giovanni «In principio era l’azione», sostituendo «parola» con «azione» (vedi qui); aveva visto la salvezza del mondo non nel senso che esso porta già in anticipo in sé e che è parola in tutti gli individui, ma nell’azione con cui l’uomo crea a se stesso un senso. Egli muore nella speranza della redenzione che la sua azione gli procurerà.

L’azione politico-sociale, che crea un popolo libero su basi libere: ecco ciò che resta, ecco la salvezza. Qui s’inserisce il pensiero di Rubin in Solzenicyn: «Se riflettiamo un po’ attentamente, ci dovremmo forse domandare se Goethe non si sia burlato del sentimento umano della felicità. In definitiva, infatti, esso non giova a nulla… Faust pronuncia la frase liberante, da lungo tempo agognata, ad un passo dalla tomba, ingannato e forse anche già spiritualmente ottenebrato; i lemuri lo spingono già nella fossa…»

In effetti, se si riflette con attenzione, tutto sembra una pura ironia. I badili, il cui rumore provoca Faust alla sua esclamazione sono servitori del demonio, il quale non vuole con essi scavare un mondo nuovo, ma una tomba. Solo il cieco, chi è divenuto cieco, può sentirvi la musica della salvezza, senza avvertire come invece tutto è una presa in giro. Sulla base del contesto del libro, mi pare di poter affermare che Solzenicyn offre qui la sua interpretazione dello stalinismo (e, in pratica, del marxismo in genere): Fermati, sei così bello — si dice ora ad un mondo del lavoro, ad un mondo edificato e da edificarsi di propria iniziativa; ma quel mondo è, in verità, un mondo di lemuri, nel quale viene scavata la fossa dell’uomo: una beffa del demonio nei confronti dell’uomo, che cieco ed ottenebrato, ormai vecchio cadente, non si accorge più di esaltare l’inferno come sua liberazione.


 
Cerchiamo di chiarire questa verità al di fuori della metafora: l’uomo ha bisogno di una politica, di una pianificazione ed azione sociale economica. Ma dove questa diviene totale, dove la politica pretende di essere liberazione dell’uomo, essa tenta di sostituirsi alla teologia ed alla fede, e diventa perciò schiavitù totale dell’uomo.

L’uomo va in rovina, quando non possiede un senso più profondo dell’ordinamento economico. Forse, nella storia dell’autoemancipazione dell’uomo negli ultimi 150 anni, vi furono realmente dei momenti in cui sorse irresistibile l’impressione che l’uomo potrebbe non curarsi del problema di Dio, senza per questo subire danno alcuno; potrebbe lasciarlo da parte, perché si tratta di una questione superflua. Forse potè capitare addirittura di vedere nel problema di Dio un ostacolo per liberarsi dallo sviluppo e per impegnarsi espressamente per le proprie cose. Ma chi osserva la costellazione odierna della storia, dovrà per lo meno ridiventare molto pensieroso a questo riguardo.

La situazione odierna è determinata dalla contrapposizione di positivismo (forma nuova del liberalismo) e di marxismo, visto come politica profezia di salvezza: tra questi due si combatte la lotta per l’uomo; filosoficamente ciò avviene, ad esempio, come lotta tra il neopositivismo di Popper e la scuola di Francoforte. Se il positivismo può dimostrare a tutte le filosofie marxiste che esse sono teologie segrete, che non possono essere verificate nei fatti, il marxismo può dimostrare al positivismo che la sua oggettività è senza una regola e senza meta. Ma la vera soglia, in cui l’uomo si interroga su se stesso, alla ricerca del suo perché e della sua strada, non è varcata né da una parte né dall’altra.

In ultima analisi, non si fa che parlare di potere e di consumo. E, così proprio ciò che è specifico dell’uomo non è toccato. Ciò che preoccupa in alcune forme del cristianesimo moderno sta appunto nel fatto che anch’esse sembrano diventate cieche per tutto ciò che non è potere o consumo, che anch’esse riescono a comprendere la chiesa solo sotto l’aspetto del potere o della soddisfazione consumistica.

In questo modo non si può certo salvare il cristianesimo. La sua grandezza sta nell’esistere per l’uomo. Gli offre anzitutto una strada, gli presenta un’indicazione di come deve comportarsi e vivere. Forse, solo dieci anni fa questo ci sembrava un puro moralismo, di cui facevamo volentieri a meno. Oggi, sappiamo che l’uomo, il quale è privo di un’essenza (nel senso di Sartre) e deve sempre scoprire se stesso, proprio a questo punto va in rovina fisicamente e psichicamente e noi riusciamo ad apprezzare di nuovo il dono di una vita.
Certo, una via ha senso e può quindi esser seguita solo se dà speranza in una meta, quando cioè conduce avanti. Ma per l’uomo, in fin dei conti, è speranza solo l’amore. E, per chi crede, in Gesù Cristo l’amore si è manifestato con fermezza come fondamento del mondo. E a Cristo conduce la strada cristiana. Sì, è egli stesso questa strada. Si potrebbe così, forse un po’ troppo teoreticamente, definire la formula base del cristianesimo in questo modo: l’amore creduto e divenuto visibile in Cristo è la via su cui cammina la speranza dell’uomo.

Mi sia permesso concludere con un’osservazione abbastanza pratica. Nelle annotazioni della sua prigionia, Bonhoeffer ha osservato un giorno che oggi anche il cristiano dovrebbe vivere quasi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Egli non dovrebbe coinvolgere Dio nelle faccende della sua vita quotidiana e dovrebbe plasmare la sua vita terrena con personale responsabilità.

Io, invece, vorrei dire proprio il contrario: oggi, anche colui per il quale l’esistenza di Dio ed il mondo della fede sono diventati oscuri, dovrebbe vivere praticamente quasi Deus esset, vivere come se Dio realmente esistesse. Vivere sotto la realtà della verità, la quale non è un nostro prodotto, ma è nostra signora. Vivere sotto il modello della giustizia, che noi non pensiamo da soli, ma è la potenza che misura noi stessi. Vivere nella responsabilità nei confronti dell’amore, che ci attende e ci ama. Vivere sotto la pretesa dell’eterno. Chi, infatti, vive attentamente lo sviluppo, capirà che questa è l’unica maniera in cui l’uomo può essere salvato. Dio — lui solo — è la salvezza dell’uomo; quest’incredibile verità, che per molto tempo ci è sembrata qualcosa di teorico e di irraggiungibile, è divenuta la formula più pratica di questa nostra ora storica.

E chi, sia pure esitante forse all’inizio, si rimette a questo arduo eppure inevitabile «come-se» — vivere come se Dio esistesse — si accorgerà sempre di più che questo «come-se» è la vera realtà. Con responsabilità propria ci si avvederà allora della sua forza liberante. E si saprà profondamente ed indistruttibilmente perché, anche oggi, sia necessario ancora il cristianesimo, come vero e lieto messaggio che salva l’uomo.

Note
(*) tratto da Joseph Ratzinger “Dogma e Predicazione”, raccolta di interventi e conferenze 1970-1974, rieditati nel 2005 da Queriniana

https://cooperatores-veritatis.org/2017/06/11/ratzinger-concilio-e-cristianesimo-a-che-punto-siamo-era-il-1972/

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