AVVISO: prima di
presentarvi l’Epilogo, inedito della raccolta di conferenze ed
interventi dagli anni 1970-1973, di Joseph Ratzinger, e raccolti in un
Volume dal titolo Dogma e Predicazione, riedito poi nel 2005
quando divenne Pontefice con il nome di Benedetto XVI, vi offriamo un
passaggio della Prefazione di apertura del testo perché ci sembra anche
profetica in alcune sue parti, per proseguire con due domande di una
attualità davvero interessante, che faremo bene a meditare con le
risposte di Ratzinger: con il concilio a che punto siamo? e: a che scopo ancora, il cristianesimo?
PREFAZIONE
La via che conduce dal dogma alla
predicazione è divenuta molto faticosa. Non esistono più modelli di
pensiero e di opinione atti a trasferire il contenuto del dogma nella
vita di ogni giorno; ma si pretende troppo dal singolo predicatore, se
si esige debba ripercorrere personalmente, di volta in volta, tutto il
cammino che va dalla formulazione del dogma al suo nucleo e, da qui, di
nuovo al linguaggio del tempo presente. Non sarebbe preferibile
lasciar completamente da parte il dogma? In una siffatta soluzione
radicale, che ad alcuni appare oggi come l’unica alternativa, la
predicazione si trasforma in un parlare in nome proprio e perde ogni
interesse oggettivo: lo ha mostrato in modo persuasivo ed
incontestabile Erik Peterson, rifacendosi alle infelici esperienze della
teologia liberale, che si andava sbriciolando (Was ist Theologie?, Bonn
1926). L’intima tensione della predicazione dipende
dall’oggettiva tensione dell’arco dogma-Scrittura-chiesa-oggi: nessuno
di questi pilastri può essere tolto, senza che a lungo andare non crolli
il tutto… (..)
Joseph Ratzinger – Regensburg, febbraio 1973
EPILOGO
A dieci anni dall’inizio del concilio: a che punto siamo? (del 1972)
Rovistando in questi giorni tra le
vecchie carte, mi è capitato tra le mani il numero del Ruhrwort del 13
ottobre 1962. Vi si legge che lo storico e scrittore francese Daniel
Rops aveva asserito che il concilio iniziato avrebbe avuto ben poco o,
addirittura, nulla di un concilio di dottrina. Alla domanda, che gli era
stata rivolta, se si trattasse del superamento di una crisi, se la
chiesa avesse urgente bisogno di una riforma, come ad esempio nel secolo
XV, egli aveva risposto: Sicurissimamente no; e aveva citato, a
conferma di ciò, la seguente affermazione dell’allora cardinale di
Milano Montini: «A differenza di molti altri concili, il Vaticano II si
riunisce in un momento di tranquillità e di fede ardente della vita
della chiesa».
Chi legge oggi questo testo e confronta
quest’affermazione di Montini con ciò che la stessa persona, oggi Paolo
VI, predica instancabilmente, percepisce con una certa commozione quanto
sono lunghi dieci anni. In fondo, nessuno allora affermava che la
chiesa era in crisi; oggi, nessuno lo nega, per quanto contraddittorie
siano le opinioni circa la natura e le cause di questa crisi.
Che cosa è accaduto? È stato
forse il concilio a creare la crisi, dato che esso non aveva alcuna
crisi da superare? Non pochi sono di questo parere. Non è certo
un’affermazione completamente falsa, ma tocca solo una parte della
verità e non è sufficiente per valutare ciò che, da allora, è avvenuto e
che può ancor oggi essere in atto. Non posso qui soffermarmi a
delineare le opposte correnti che, prima del concilio, si erano andate
formando nella teologia cattolica, in rapporto ai problemi di un mondo
che cambia rapidamente, e si erano riunite sotto la comune bandiera del
progressismo.
Il graduale manifestarsi di una loro più
profonda inconciliabilità appartiene a quei fatti che si sono profilati
dalla fine del concilio, a partire soprattutto del dibattito sulla
costituzione pastorale «La chiesa nel mondo contemporaneo», per assumere
in seguito un ritmo sempre più veloce. Comunque, più importante mi
sembra soprattutto notare che, nella situazione spirituale generale
dell’umanità e del mondo occidentale in particolare, la fine del
concilio si accompagnava con un cambio di generazione di fondamentale
importanza: avveniva il passaggio dalla prima alla seconda generazione
del dopoguerra. Nella misura in cui questo si verificava, a determinare
la coscienza non era più lo slancio di un mondo da riedificare dal
nulla, ma il potere opprimente di un mondo già completamente edificato,
dove tutto è ormai compiuto ma non è offerto alcun senso. La stessa
teologia del dopoguerra non era esente da colpe, di fronte a questo
vuoto di senso. Ispirandosi infatti al pensiero esistenzialista, si era
rifugiata nella non-oggettivabilità di fede e di senso, ed aveva
abbandonato il mondo del puro realismo.
Nella fase dell’edificazione, questa
restituzione del mondo a proprie leggi era stata sentita come opportuna;
ora invece l’oggettività, libera da valori, dell’economia e della
politica appariva chiaramente problematica, appariva sempre più come il
pretesto dietro il quale si celavano interessi che andavano portati alla
luce. Così, nel momento in cui sembra di aver raggiunto il vertice
della ricostruzione, scoppia la rivolta contro il mondo finito e,
proprio nel suo senso finito, assurdo: si deve distruggere per poter riedificare.
In un opuscolo pubblicitario sul Canada, ho trovato la poesia di un
giovane, il quale descrive come il mondo del sapere gli viene incontro
personificato in un atlante, dove ogni sentiero, ogni guado, ogni acqua,
ogni altura sono già stati registrati: non c’è più da scoprire. Alla
fine il giovane brucia l’atlante, per trovare da solo i sentieri del
mondo. Mi sembra un simbolo appropriato ad esprimere questo sentimento
di asfissia, in un mondo che tutto offre senza presentare uno scopo.
Dopo
le prime violente scosse, si sono cristallizzati intanto due modelli
opposti del superamento della realtà: quello neopositivista, nel quale è
essenziale il concetto di una riforma razionale, di un ulteriore
sviluppo oggettivamente orientato, e quello neomarxista, che dai
positivisti non a torto viene definito cripto-teologico: qui è
aborrita proprio l’oggettività positivista, considerata un pretesto di
ideologie e di interessi, e viene sviluppata coscientemente una politica
non in senso oggettivo, ma derivata da dogmi marxisti. Pur
volendo scoprire lo sviluppo postconciliare della chiesa cattolica e la
sua attuale posizione, non possiamo qui approfondire ulteriormente la
problematica politica ed economica di questi punti di partenza. Dobbiamo
comunque sforzarci di vedere come il sentimento di vita delle
generazioni, cresciute in questo contesto, ha influito su una fede e su
una teologia. Mi sembra che la seguente duplice affermazione riesca a
caratterizzare sinteticamente il nostro problema: il nuovo movimento significa distacco dalla storia e distacco dalla metafisica.
Distacco dalla storia:
in questa coscienza nuova, la storia rappresenta quel mondo finito che,
in campo profano, vien denominato «istituzione» e, in campo
ecclesiastico, è detto «chiesa ufficiale», e che appare come ciò che
opprime, come l’impedimento per il nuovo e come la causa di tutti quegli
interventi sbagliati, che sono stati attuati nel presente sistema del
mondo. La storia perciò è un ostacolo; essendo il potere di ciò che è
già stato, essa intralcia il futuro; non si possono trovare in essa dei
modelli di progresso. Ad una siffatta mentalità l’attenzione alla storia
è espressione di reazione ed appare quindi come qualcosa di astratto e
falso. Solo nella prospettiva di una simile concezione
spirituale, si spiega la velocità con cui le asserzioni e gli intenti
positivi del Vaticano II hanno potuto ricadere nel passato, per essere
sostituiti prima dall’utopia di un prossimo Vaticano III e poi dai
sinodi, che del Vaticano II hanno accettato lo «spirito» ma non i testi.
La «spirito» sta a significare qui l’attenzione al futuro, come campo
d’illimitate possibilità. La storia continua però a giocare un ruolo
importante in due forme, ma sempre in un modo che sottolinea quanto è
stato sinora affermato:
- La storia diviene rilevante come storia compresa nel senso di Marx e di Hegel. Ma, in quest’atto di comprensione, il soggetto stesso si pone al di fuori della storia, che egli prende in mano per portarla alla sua meta.
- La storia può essere evocata come un «ricordo pericoloso» dell’umanità: la riserva dell’antistorico, che si è ammassato nella storia, viene vista allora come un potenziale rivoluzionario, che val la pena risvegliare. Pertanto, Ernst Bloch ha invitato a ripensare la Bibbia in tal senso: a partire dal serpente del paradiso, si snoda, a suo parere, la catena di coloro che sono in contraddizione con la realtà corrente e predominante; questo lievito rivoluzionario, che si è così ammassato, rende importanti la Bibbia e la storia.
Si presenta quindi un nuovo filo
conduttore per l’interpretazione della Scrittura e della tradizione, un
orientamento nuovo che caratterizza anche i testi del Vaticano II.
Poiché risuonano ancora negli orecchi le voci conciliari della disputa,
della contraddizione e della lotta contro la rigidità tradizionalistica,
appare relativamente facile leggere il tutto in questo contesto e
sentirsi, di conseguenza, nello «spirito» del
concilio, proprio perché si continua sulla strada delle sue
affermazioni, alla ricerca di sbocchi più aridi, basandosi su quanto si è
già sviluppato.
Ma
distacco dalla storia significa necessariamente anche distacco
dall’essere inteso come realtà costante dell’uomo, orientamento alla
pragmatica di ciò che di volta in volta va creato.
L’escatologia, l’attesa cioè del mondo futuro, non è più vista
all’interno della teologia della creazione, ma prende il posto della
creazione stessa: il mondo reale e degno di esser vissuto deve
ancora essere creato e lo sarà per opera dell’uomo stesso, contro ciò
che egli si trova davanti. Ma ciò significa anche che
il pragma di un lavoro umano non è nel logos dell’avvenuta creazione, ma
lo sostituisce. È l’uomo stesso il creatore escatologico, ed egli non è
preceduto da nessun logos, ma solamente seguito: all’inizio non c’è «la
parola» ma «l’azione» (riguardo a ciò vi riportiamo a questo testo di Ratzinger, clicca qui).
Se ritorniamo al punto di partenza delle
nostre considerazioni, possiamo così riassumere quanto è stato detto
sinora: la situazione ecclesiastica e temporale di oggi si spiega
ampiamente solo se ci rifacciamo alla connessione esistente tra le
scosse psichico-spirituali, legate al cambiamento verso la seconda
generazione del dopoguerra, ed i movimenti ideali e teologici che si
appoggiavano a vicenda. Ciò vuol dire che il dibattito sulla vera
eredità del Vaticano II non può oggi esser condotto unicamente sulla
base dei testi. Per l’esito di tale dibattito sarà determinante
chiedersi se esiste una copertura spirituale non solo per
un’interpretazione antistorico-utopistica del concilio, ma anche per una comprensione creativo-spirituale in viva unità con la tradizione vera.
Ma da ciò dipende anche la sorte della teologia e della chiesa, se esse
avranno, a lunga scadenza, ancora qualcosa da dire all’umanità in
genere. Il tutto ci porta quindi al problema di sapere di quali forze si
può oggi tener conto nella chiesa cattolica e nella sua teologia. Io ne indico tre.
In primo luogo, va
ricordato quel progressismo che si mescola sempre più con idee
neomarxiste e che, pertanto, diviene sempre meno postconciliare, in
quanto si allontana con velocità crescente dal suo punto di partenza. I
suoi primi passi vanno visti in quella teologia del mondo, che J. B.
Metz ha sviluppato da una fusione del tomismo, reinterpretato in senso
trascendentale-filosofico da Karl Rahner (clicca anche qui), con quella visione del mondo, per la quale Friedrich Gogarten si era ispirato a Lutero. Nell’incontro
con Ernst Bloch, questa teologia del mondo è stata prima mutata in
teologia della speranza e poi, logicamente, in .
Oggi, da queste prime impostazioni,
andando molto oltre i maestri, è derivato un pragmatismo riformatore
generale, distinto in differenti correnti, il quale sfocia in un
movimento senza veri grandi nomi. Proprio questa mancanza di un volto fa
sì che tale movimento si presenti come potere dell’unica vera
modernità, che si fonde sempre più con la generale tendenza neomarxista e
perciò non è propriamente una forza veramente critica nella società,
una forza dalla quale possa derivare una speranza, per quanto tenti di
raccomandarsi sotto l’etichetta della speranza e della critica. Il
principale ambito di diffusione di una tale tendenza sono le comunità di
studenti e, con accenti indubbiamente più moderati, alcuni gruppi di
sacerdoti.
Chi
legge gli atti della Katholische Deutsche Studen-Einigung,
dell’organizzazione suprema cioè delle comunità studentesche, si sente
trapiantato in una succursale marxista, dove un vocabolario
politico-economico ed una terminologia teologica si intrecciano tra
loro, con una mescolanza davvero meravigliosa. In tali comunità,
ci si comprende come «condizione della possibilità per una nuova
chiesa» e, basandosi su di una simile coscienza della propria missione,
ci cerca di mettere in opera quel superamento della storia, che deve
realizzare la società priva di classi ed il suo paradiso anche nella
chiesa e mediante l’utilizzazione rivoluzionaria della chiesa.
In secondo luogo, ci
sarebbe da ricordare quell’atteggiamento che vede la salvezza unicamente
nell’attenersi il più fedelmente possibile alla teologia e alla
filosofìa scolastica: continua qui ciò che nel concilio si era
manifestato come forza del conservatorismo. Nell’ambito della teologia,
questa tendenza riveste poca importanza; sorprende, invece, come non di
rado proprio dei rappresentanti di una limitata teologia delle scuole
abbiano deposto le loro armi e siano passati a vaghe posizioni
moderniste. Molto più importante è un movimento della pietà, che
si sente tradita ed abbandonata dalla teologia ed ora cerca risoluto la
sua strada senza la teologia, anzi, contro di essa. Sotto la minaccia,
istintivamente avvertita, di una totale falsificazione e di un crollo
inevitabile dei valori sinora dominati, ci si rifugia in ciò che si
ritiene come specificamente cattolico: in una pietà mariana che
si alimenta a visioni e miracoli; in una lotta gretta per la lettera
della vecchia liturgia ecc. Solo così si pensa di poter conservare
l’identità cattolica.
Non si deve sottovalutare ciò che anche
qui opera come autentica forza religiosa. È grande, tuttavia, il
pericolo di un chiudersi in forme che portano alla settarietà. È un
pericolo chiaramente riconoscibile là dove si accusa lo stesso Vaticano
II di eresia e si abbandona quindi la strada indicata dal contesto
ecclesiastico-universale.
In terzo luogo, ci
sarebbe da accennare a quelle forze che hanno propriamente reso
possibile e preparato il Vaticano II, ma sono state subito travolte da
un’ondata di modernità, con la quale quelle forze potevano venir confuse
solo grazie ad un errore madornale. Si tratta di una teologia e di una
pietà, che si fondano essenzialmente sulla Sacra Scrittura, sui padri
della chiesa e sul grande patrimonio liturgico della chiesa tutta. Al
concilio, questa teologia si era adoperata per alimentare la fede non
solo al pensiero dell’ultimo secolo, ma alla grande corrente di tutta
quanta la tradizione, così da rendere quella fede più ricca e più viva,
ma al tempo stesso anche più semplice e più aperta.
Per il momento questo tentativo sembra
fallito; esso è rimasto impotente di fronte ai più accessibili
programmi, che da allora si sono posti come alternativa. Malgrado ciò,
crescenti indizi fanno pensare che l’impulso di questa teologia non sia
andato a vuoto. Molti sono i sintomi che fanno sospettare una sua
ripresa e qui, a mio giudizio, sta la speranza della nostra situazione
presente. Dopo tutti i trastulli di liturgie autonomamente
elaborate, noi avvertiamo l’insorgere della nuova esigenza di un
profondo e personale incontro con Dio e di un culto, il quale faccia
veramente conoscere la presenza dell’Eterno. Esperimentiamo la
nostalgia degli uomini per Gesù Cristo e per quel semplice gesto, che si
apre francamente all’agire dello Spirito Santo, non per fuggire dal
mondo, ma per potergli dare qualcosa di più di nuovi problemi.
Mi
pare che alcuni uomini incomincino a capire sempre meglio che il mero
pragmatismo di una riforma strutturale della chiesa trascura proprio ciò
che dovrebbe esser dato veramente agli uomini; in verità, il
fanatismo di quanti propugnano una riforma della struttura è un nuovo
clericalismo, un egoismo clericale che non si cura dell’uomo e si
preoccupa primariamente dei propri interessi. I contrappesi di
questo apparente e falso progresso sono ancora deboli, ma si sviluppano
e, forse, dal confuso fermento in cui noi oggi ci troviamo, a dieci anni
di distanza dal concilio, spunterà gradualmente un rinnovamento che
merita veramente questo nome.
Mi permettano, a conclusione, di illustrare ancora un pochino questa speranza e la direzione in cui essa tende. Alle
tipiche esigenze di quel progressismo neoclericale, di cui si parlava
poco fa, appartiene ad esempio il desiderio della fine di spazi sacrali,
della fine di una liturgia staccata dalla vita quotidiana: una liturgia
non può essere che concentrazione della vita di tutti i giorni, essa
deve presentarsi come discussione, per quanto riguarda la liturgia della
parola, e come normale banchetto fraterno, per quanto concerne il
sacramento.
A ciò si collega l’esigenza di un
ufficio «funzionale»; si dice infatti, ad esempio: Il sacerdote deve
coordinare la partecipazione comune alla discussione ed al banchetto e,
normalmente, dirigerla anche, ma la sua professione dev’essere profana,
al pari di quella di ogni altro cristiano; quando non dirige una
comunità, non è neppure sacerdote.
Io credo che siffatte esigenze,
apparentemente moderne, non sorgano in persone che sono realmente
contemporanee del nostro oggi e della sua afflizione. Sorgono in persone
che sono ancora profondamente radicate nel passato e vivono col
complesso del loro esser sorpassate. Si sentono visibilmente oppresse
dalla solida armatura del mondo ecclesiale, in cui sono cresciute, e
cercano disperatamente di liberarsene.
Si
rivoltano contro quel mondo, che però da tempo non esiste più per la
maggior parte degli uomini. Il loro grido nasce, per buona parte, dal
fatto che essi non sono affatto in sincronia col presente. Infatti,
il problema dell’uomo di oggi non è quello di essere oppresso dai
cosiddetti tabù sacrali; il suo problema sta nel vivere in un mondo di
una profanità senza speranza, dove egli è inesorabilmente programmato
fino nel tempo libero. La vera oppressione, che abbiamo
alle calcagna, non è più l’ordinamento della chiesa, ma la totale
programmazione che, in ogni libertà borghese, ci degrada sempre più a
funzionari di un sistema anonimo e ci porta una metà alla disperazione,
l’altra metà all’asfissia.
Per ovviare a questo ci vogliono
uno spazio destinato a diversi usi, un ufficio funzionale ed una
liturgia profana? No. Non è sicuramente questo che può dare un futuro
alla fede. Solo chi vive ancora nell’ieri sente la fede come
un’oppressione, come un pericolo. Solo chi vive ancora nell’ieri, deve
opporsi al futuro. Chi si toglie di dosso l’ieri e si trova assegnato al
nudo oggi, scopre che il mondo ha bisogno del sacro. Le sue notti buie
chiedono di Dio. Ed egli sa che la fede ha un futuro. Non il
futuro dei funzionari e della programmazione neoclericale, ma il futuro
di Dio. Il futuro del mistero, della fede, della preghiera, della vera
liturgia con la sua poesia derivante dall’Eterno. L’eredità del Vaticano II non è ancora ridestata. Essa attende la sua ora. E questa verrà, ne sono certo.
A che scopo ancora il cristianesimo? (1972 e pubblicato sull’Osservatore Romano in edizione tedesca)
Risuona nei nostri orecchi l’affermazione, sempre più spontanea, che oggi la fede della chiesa non serve più a nulla.
Definire tradizionale una realtà equivale ovunque, ormai, a ritenerla
sorpassata e priva di importanza. E la chiesa vive della tradizione di
ciò che essa ha ricevuto dall’inizio e sembra, perciò, nella forma
almeno che ha avuto sinora, non avere davanti a sé più alcuna
prospettiva.
Un discorso del genere non eserciterebbe
un simile potere, se non poggiasse su di un’esperienza, alla quale è
difficile potersi sottrarre: in primo luogo, la sensazione che tutto si
trasforma nel mondo; esso sembra mutarsi sempre più in fretta, con una
radicalità tale che nessuno dei criteri abituali regge più ed unicamente
strade totalmente nuove possono soccorrere un’umanità totalmente
trasformata; accanto a questo, ci assale, in secondo luogo, l’esperienza
dell’inutilità del cristianesimo: esso non riesce a strappare l’uomo
dalla sua miseria, e per molti si riduce così ad una mera lusinga, ad
una redenzione apparente che non tocca la realtà.
In effetti, se non si partecipa all’esperienza cristiana, è impossibile esprimere un giudizio diverso da questo. Si
incomincia allora a vergognarsi del messaggio cristiano e si vogliono
suggerire dei risultati tangibili: interventi sociali ed economici, che
nessuno può contestare e che liberano apertamente l’uomo, lo redimono
dalla sua miseria. Intanto, la necessità cresce con
ritmo più veloce degli aiuti che le vengono contrapposti; col ripiegare
sul tangibile, con cui si vuol far vergognosamente dimenticare una
tradizione e si vuol spiegare il cristianesimo come parte di un moderno
lavoro di umanizzazione, aumenta contemporaneamente la disunione della
chiesa: essa diviene così per tutti ancor più infelice, ancor più
disperata, ancor più problematica.
Poco sembra rimanere della lieta novella.
Vi sono subentrati diverbi e situazioni critiche. Qualche tempo fa il
Cardinal Dòpfner, per spiegare il disagio che si diffonde nella chiesa
d’oggi, l’ha paragonata ad un cantiere; uno spirito critico ha
aggiunto che sembra un cantiere dove è andato perduto il progetto e
ciascuno continua a fabbricare di proprio gusto: il risultato è evidente.
A che scopo ancora il cristianesimo?
In luogo della redenzione proveniente dalla fede sono apparse oggi due
strade, per le quali gli uomini tentano di redimersi: quella
politico-economico-sociale e quella psicologica. Da un lato, la società
del benessere va sempre più alla ricerca di quei confessori profani, che
con la loro conoscenza scientifica dell’anima umana dovrebbero
riordinare l’esistenza scossa e svuotata: si vuol riscoprire ciò che è
amore, ciò che è parola, tutto ciò che è originario dell’uomo.
Ma soccorrono veramente questi medici? Essi possono dire come funzionano le singole forze dell’anima umana, ma non a che scopo.
Ma la dissociazione dell’anima deriva proprio dal fatto che le sue
forze agiscono a vuoto. Proprio osservando questi sforzi, si capisce che
l’anima umana è fatta in maniera tale che non si spiega da se stessa.
Non è congegnata come un orologio, come un tutto chiuso in sé, che
funziona e si sa a che parte spetta ogni singolo pezzo. Al contrario,
essa vive in un ciclo aperto, meglio, in una parabola aperta, e non se
ne cava nulla senza il punto di riferimento che sta al di fuori di essa.
S’impone qui un’immagine di Agostino: l’esistenza umana è
ordinata in modo che Dio costituisce il punto di costruzione, al quale
essa è fissata; se quest’aggancio superiore va bene, allora anche le
altre parti restano unite in una compagine armonica; ma se si scioglie,
allora anche tutto il resto cade in rovina e non rimangono che pezzi.
Ma facciamo un passo alla volta. Accanto
alla redenzione psicologica, vi è quella socio-economica, la via della
politica totale. Tutto è politica, sentiamo dire oggi; pertanto, solo la
cosciente politicizzazione di chiesa, fede e liturgia può dischiudere
la strada verso il futuro e «redimere» l’uomo. Chi osserva l’enorme
bisogno delle genti dell’India, dell’Indocina e dei quartieri poveri
delle grandi città dell’America settentrionale e meridionale, chi
avverte come il processo di industrializzazione programma in maniera
crescente l’uomo e minaccia di togliergli la sua anima, costui non
sottovaluterà sicuramente l’importanza della politica per la salvezza
dell’uomo. Comprenderà il perché la chiesa, fin dall’inizio — concorde
in questo con la sinagoga — ha visto nella sfera politica un settore
della salvezza dell’uomo ed ha elevato la sua preghiera per i
governatori del mondo. Esiste quindi un impegno politico del cristiano;
se non l’assolve, egli sottrae alla sua fede il carattere di realtà. La
rettitudine e la serietà della fede si manifesta anche nella sua
capacità di una positiva azione politica e di un’opposizione politica,
dove è il caso.
La preoccupazione politica è necessaria per la salvezza dell’uomo. Ma la politica totale sarebbe la sciagura sicura dell’uomo.
L’uomo ha bisogno di pane per la sua salvezza, ma non viene salvato
unicamente dal pane; la giusta distribuzione del potere riguarda la sua
salvezza, ma la sua liberazione non può derivare da una ridistribuzione
di questo genere (cf.Mt4,3-6; 8,29; 14,33; 27,40-43).
Esiste un’interpretazione
politico-economica dell’Antico Testamento, per la quale la salvezza
risiederebbe nella creazione di benessere e di sicurezza. La storia
della tentazione di Gesù qualifica questo concetto di redenzione come
idea di Satana. Dietro l’invito che Satana ha rivolto a Gesù di
trasformare le pietre in pane ed egli gli avrebbe offerto il governo di
tutti i regni del mondo, si celano concezioni realissime di quel tempo:
il Messia doveva provare la propria identità dando in abbondanza pane a
tutti ed erigendo, sotto il segno del suo potere politico, un regno
mondiale di pace, Gesù non pone fine alla fame del mondo, né sovverte i rapporti di potenza: non può quindi essere il Messia… Solo chi libera l’uomo sotto l’aspetto politico-sociale, lo libera veramente. Tutto il resto non conta nulla.
Contro questa concezione, il
vangelo è chiaro: una siffatta liberazione consegnerebbe l’uomo a
Satana, lo renderebbe cioè completamente suo schiavo.
Ci sembra un giudizio molto duro. Ma,
forse, proprio l’esperienza della nostra generazione può farci
nuovamente comprendere la validità di quest’affermazione. Nel grande
romanzo di Solzenicyn Il primo cerchio, troviamo un singolare
parallelismo con quest’asserzione biblica. Il parallelismo risulta già
dal fatto che tutta l’azione di questo libro si svolge all’inferno e
quest’inferno è proprio là dove la politica totale ha istituito il suo
paradiso: questo paradiso è l’inferno, nel quale l’uomo distrugge
l’uomo. L’immagine diviene terribilmente plastica nella scena finale,
quando i prigionieri, per essere mimetizzati agli occhi della gente,
vengono sistemati su vagoni merci che portano la scritta: carne. Il
corrispondente del giornale francese Liberation — Liberazione — continua
a vedere simili furgoncini ed annota sul taccuino: «L’approvigionamento
della capitale non può essere che eccellente».
Nel libro vi è una scena in cui mi sembra
che questo discorso abbia acquistato un’evidenza estrema. L’Autore pone
sulla bocca del vecchio idealista marxista Rubin un’interpretazione
provocante del Faust di Goethe. Com’è noto, la tragedia di Goethe non si
chiude tragicamente, ma in un ottimismo fondato indubbiamente su di una
singolare contraddizione…. Faust ritorna così al suo inizio: egli aveva
tradotto il prologo di Giovanni «In principio era l’azione», sostituendo «parola» con «azione» (vedi qui);
aveva visto la salvezza del mondo non nel senso che esso porta già in
anticipo in sé e che è parola in tutti gli individui, ma nell’azione con
cui l’uomo crea a se stesso un senso. Egli muore nella speranza della
redenzione che la sua azione gli procurerà.
L’azione politico-sociale, che crea un
popolo libero su basi libere: ecco ciò che resta, ecco la salvezza. Qui
s’inserisce il pensiero di Rubin in Solzenicyn: «Se riflettiamo un po’
attentamente, ci dovremmo forse domandare se Goethe non si sia burlato
del sentimento umano della felicità. In definitiva, infatti, esso non
giova a nulla… Faust pronuncia la frase liberante, da lungo tempo
agognata, ad un passo dalla tomba, ingannato e forse anche già
spiritualmente ottenebrato; i lemuri lo spingono già nella fossa…»
In
effetti, se si riflette con attenzione, tutto sembra una pura ironia. I
badili, il cui rumore provoca Faust alla sua esclamazione sono
servitori del demonio, il quale non vuole con essi scavare un mondo
nuovo, ma una tomba. Solo il cieco, chi è divenuto cieco, può
sentirvi la musica della salvezza, senza avvertire come invece tutto è
una presa in giro. Sulla base del contesto del libro, mi pare di poter
affermare che Solzenicyn offre qui la sua interpretazione dello
stalinismo (e, in pratica, del marxismo in genere): Fermati, sei
così bello — si dice ora ad un mondo del lavoro, ad un mondo edificato e
da edificarsi di propria iniziativa; ma quel mondo è, in verità, un
mondo di lemuri, nel quale viene scavata la fossa dell’uomo: una beffa
del demonio nei confronti dell’uomo, che cieco ed ottenebrato, ormai
vecchio cadente, non si accorge più di esaltare l’inferno come sua
liberazione.
Cerchiamo di chiarire questa verità al di fuori della metafora: l’uomo
ha bisogno di una politica, di una pianificazione ed azione sociale
economica. Ma dove questa diviene totale, dove la politica pretende di
essere liberazione dell’uomo, essa tenta di sostituirsi alla teologia ed
alla fede, e diventa perciò schiavitù totale dell’uomo.
L’uomo va in rovina, quando non possiede
un senso più profondo dell’ordinamento economico. Forse, nella storia
dell’autoemancipazione dell’uomo negli ultimi 150 anni, vi furono
realmente dei momenti in cui sorse irresistibile l’impressione che
l’uomo potrebbe non curarsi del problema di Dio, senza per questo subire
danno alcuno; potrebbe lasciarlo da parte, perché si tratta di una
questione superflua. Forse potè capitare addirittura di vedere nel
problema di Dio un ostacolo per liberarsi dallo sviluppo e per
impegnarsi espressamente per le proprie cose. Ma chi osserva la
costellazione odierna della storia, dovrà per lo meno ridiventare molto
pensieroso a questo riguardo.
La situazione odierna è
determinata dalla contrapposizione di positivismo (forma nuova del
liberalismo) e di marxismo, visto come politica profezia di salvezza:
tra questi due si combatte la lotta per l’uomo; filosoficamente
ciò avviene, ad esempio, come lotta tra il neopositivismo di Popper e
la scuola di Francoforte. Se il positivismo può dimostrare a tutte le
filosofie marxiste che esse sono teologie segrete, che non possono
essere verificate nei fatti, il marxismo può dimostrare al positivismo
che la sua oggettività è senza una regola e senza meta. Ma la vera
soglia, in cui l’uomo si interroga su se stesso, alla ricerca del suo
perché e della sua strada, non è varcata né da una parte né dall’altra.
In ultima analisi, non si fa che
parlare di potere e di consumo. E, così proprio ciò che è specifico
dell’uomo non è toccato. Ciò che preoccupa in alcune forme del
cristianesimo moderno sta appunto nel fatto che anch’esse sembrano
diventate cieche per tutto ciò che non è potere o consumo, che anch’esse
riescono a comprendere la chiesa solo sotto l’aspetto del potere o
della soddisfazione consumistica.
In questo modo non si può certo salvare il cristianesimo. La sua grandezza sta nell’esistere per l’uomo.
Gli offre anzitutto una strada, gli presenta un’indicazione di come
deve comportarsi e vivere. Forse, solo dieci anni fa questo ci sembrava
un puro moralismo, di cui facevamo volentieri a meno. Oggi, sappiamo che
l’uomo, il quale è privo di un’essenza (nel senso di Sartre) e deve
sempre scoprire se stesso, proprio a questo punto va in rovina
fisicamente e psichicamente e noi riusciamo ad apprezzare di nuovo il
dono di una vita.
Certo, una via ha senso e può quindi
esser seguita solo se dà speranza in una meta, quando cioè conduce
avanti. Ma per l’uomo, in fin dei conti, è speranza solo l’amore. E, per
chi crede, in Gesù Cristo l’amore si è manifestato con fermezza come
fondamento del mondo. E a Cristo conduce la strada cristiana. Sì, è egli
stesso questa strada. Si potrebbe così, forse un po’ troppo
teoreticamente, definire la formula base del cristianesimo in questo
modo: l’amore creduto e divenuto visibile in Cristo è la via su cui
cammina la speranza dell’uomo.
Mi sia permesso concludere con
un’osservazione abbastanza pratica. Nelle annotazioni della sua
prigionia, Bonhoeffer ha osservato un giorno che oggi anche il cristiano
dovrebbe vivere quasi Deus non daretur, come se Dio non
esistesse. Egli non dovrebbe coinvolgere Dio nelle faccende della sua
vita quotidiana e dovrebbe plasmare la sua vita terrena con personale
responsabilità.
Io, invece, vorrei dire proprio il contrario:
oggi, anche colui per il quale l’esistenza di Dio ed il mondo della
fede sono diventati oscuri, dovrebbe vivere praticamente quasi Deus esset, vivere come se Dio realmente esistesse. Vivere sotto la realtà della verità, la quale non è un nostro prodotto, ma è nostra signora.
Vivere sotto il modello della giustizia, che noi non pensiamo da soli,
ma è la potenza che misura noi stessi. Vivere nella responsabilità nei
confronti dell’amore, che ci attende e ci ama. Vivere sotto la pretesa
dell’eterno. Chi, infatti, vive attentamente lo sviluppo, capirà che questa è l’unica maniera in cui l’uomo può essere salvato. Dio
— lui solo — è la salvezza dell’uomo; quest’incredibile verità, che per
molto tempo ci è sembrata qualcosa di teorico e di irraggiungibile, è
divenuta la formula più pratica di questa nostra ora storica.
E chi, sia pure esitante forse
all’inizio, si rimette a questo arduo eppure inevitabile «come-se» —
vivere come se Dio esistesse — si accorgerà sempre di più che questo
«come-se» è la vera realtà. Con responsabilità propria ci si avvederà
allora della sua forza liberante. E si saprà profondamente ed
indistruttibilmente perché, anche oggi, sia necessario ancora il
cristianesimo, come vero e lieto messaggio che salva l’uomo.
Note
(*) tratto da Joseph Ratzinger “Dogma e Predicazione”, raccolta di interventi e conferenze 1970-1974, rieditati nel 2005 da Queriniana
https://cooperatores-veritatis.org/2017/06/11/ratzinger-concilio-e-cristianesimo-a-che-punto-siamo-era-il-1972/
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