martedì 20 novembre 2012

divorzio?

Ma quanti danni fa il divorzio?

di Giuliano Guzzo

Tutti lo sanno ma nessuno, o quasi, lo dice. Non conviene, come quasi sempre accade per la verità. E la verità – che le cronache sfiorano solo quando si parla di contese per l’affido dei figli o in seguito a casi di violenza – è che il divorzio sta procurando danni immensi al tessuto sociale. Danni anzitutto a coloro che divorziano e che in teoria dovrebbero, così facendo, ritrovare tranquillità e, se non proprio felicità, almeno serenità. In realtà è tutto il contrario.
A questo proposito, fanno impressione i dati di un’indagine effettuata dall’Istat negli anni 1987-91 sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, dalla quale si evince come il tasso di morbilità cronica per disturbi nervosi dei divorziati sia il doppio di quella dei coniugati, con un valore del 62,2‰. I divorziati, inoltre, fanno maggiore ricorso a farmaci antidolorifici e antinevralgici – 119‰ rispetto ai 106‰ dei coniugati -, di tranquillanti e antidepressivi – 48‰ rispetto 39,5‰. Altre ricerche, eseguite sempre in Italia, hanno messo in luce una differenza consistente anche per quanto riguarda i ricoveri classificati come disturbi psichici, di cui soffre il 7,7% dei divorziati rispetto allo 0,8% dei coniugati.

Quel che è peggio è che tali conseguenze, com’è stato messo in luce anche da studi recenti, perdurano nel tempo (Cfr.«Journal of Health and Social Behavior», 50 (2009): 344–358). Viceversa, esiste una lunga tradizione di ricerca che ha mostrato come il matrimonio e la conseguente stabilità affettiva siano correlati positivamente alla salute e alla longevità personale (Cfr.«Social Science and Medicine», 40 (1995):1717-1730; «American Sociological Review», 61 (1992):907-917).
Se questi sono le conseguenze per coloro che divorziano, potete immaginare come possono essere quelle di questo “diritto” sui figli: ancora peggiori. Infatti, anche senza consultare la letteratura scientifica, appare intuitivo come per loro, per i bambini, sia tutto più difficile: l’idea di vedere litigare prima e dividersi poi mamma e papà equivale ad un vero e proprio terremoto esistenziale, con conseguenze devastanti. Lo confermano numerose ricerche internazionali: i bambini che crescono con un solo genitore hanno il triplo di probabilità, rispetto agli altri, di andare male a scuola, e il doppio di soffrire di disturbi psichici («International Journal of Law, Policy and the Family», 12 (1998):15-46; «Demography», 27 (1990): 431-446).
C’è poi da ricordare che nella stragrande maggioranza dei casi, dopo un divorzio, i figli rimangono con la madre. E l’assenza dal padre si fa sentire, eccome. Basti dire che, stando a studi statunitensi, il 63% dei suicidi in età giovanile si verifichi famiglie col padre assente («Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry», 34 (1995):209-215). Più in generale, una recente ricerca condotta su un campione di oltre 6.500 soggetti ha confermato come coloro che sono cresciuti con i genitori divorziati siano più esposti, rispetto agli altri, a tentazioni suicide («Psychiatry Research» 187, (2011): 150-155).
Alla luce di una così consistente mole di dati la domanda sorge spontanea: ma non sarebbe il caso – anziché facilitarlo con tempi più brevi - di ripensare l’istituto del divorzio cercando di predisporre nuovi sostegni per le coppie in crisi e mettendo compiutamente in guardia coloro che pensano alla rottura coniugale da tutti gli immensi rischi che questa comporta? Non è forse giunto il momento di ostacolare i matrimoni a scadenza e di tifare tutti assieme per l’amore a tempo indeterminato? O forse dobbiamo aspettare che la precarietà affettiva faccia altri danni? A noi, a ciascuno di noi, la possibilità di una riflessione. Che, oggi più che mai, si rivela urgente.

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