Due esemplari omelie postmoderne. Analizzate da De Marco
In due domeniche di agosto, in due diversi luoghi, il professor Pietro De Marco ha ascoltato due omelie tipiche di quel cattolicesimo colto, postmoderno, che va per la maggiore in alcune chiese e monasteri.
E ne ha tratto il seguente referto, apparso sull’ultimo numero del settimanale interdiocesano “Toscana Oggi“.
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DUE OMELIE, DUE FIABE
di Pietro De Marco
Messa domenicale in un grande monastero. La predicazione è affidata a religiosi di qualità, che ascolto con rispetto, come d’altronde invitava a fare il p. De Lubac di fronte ad ogni predicatore. La XXI domenica del tempo ordinario (anno A) propone il magnifico e impegnativo testo (Matteo 16, 13-20) della professione di fede di Pietro e della fondazione del ministero petrino. La garbata omelia, di fronte a un pubblico di fedeli numeroso – è falso che le chiese siano “sempre più vuote” – è dedicata al “dialogo”, all’attraente “dialogare” tra Maestro e discepoli, che sembra rendere la pagina evangelica alla portata della nostra vita.
Così ci viene detto che, in Mt 16, Gesù rivelerebbe un umanissimo bisogno di riconoscimento e Pietro affermerebbe con calore, con personale veracità (cose che il testo non dice), la fede nel Figlio del Dio vivente, che ha dinanzi. Gesù riconosce e premia Pietro non tanto per l’esattezza, la verità, della professione di fede quanto per la sua vitalità esistenziale, affettiva. Con l’immancabile evocazione del filosofo Lévinas, il predicatore elogia di Pietro non la conoscenza, che “imprigiona l’Altro” (insopportabile novecentismo, creduto ormai solo da letterati e teologi), ma la scoperta.
Il dialogo di Mt 16, di enorme portata nella storia e fede cristiana, viene così piegato all’incontro tra due psicologie, nel migliore dei casi tra due persone particolari, dando sfogo ai predicabili conseguenti: la nostra fragilità e la sincerità reciproca, il giudizio di una vita (”cosa sono per te”). Solo poi, dalla lettura della preghiera dei fedeli, i presenti scoprono che la liturgia della domenica è infine dedicata a Pietro (”Tu es Petrus”, “non prævalebunt”, il potere delle chiavi sono in Mt 16), e che la “lex orandi” di questa domenica guarda al vescovo di Roma. Ma, anche tollerando la sottovalutazione dei contenuti cattolici delle parole di Gesù, restano drammaticamente in ombra i significati della confessione dell’apostolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; un sapere decisivo per noi, e non certo perché Mt 16 sarebbe un buon esempio di dichiarazione d’amore e di scoperta dell’Altro. E perché ignorare ciò che Gesù dice a Pietro: “Né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio”? Il cuore di Mt 16 è teocentrico, anzi trinitario; perché farne una fiaba relazionale per l’esistenza cristiana, che è molto di più ed è anche intelletto?
La domenica precedente, altrove, avevo ascoltato, con profondo disagio, un’omelia non meno fine, nella quale il “dialogo” di Gesù con la Cananea (Mt 15, 21-28) era ricondotto a un processo di conversione di Gesù stesso, che dall’ostilità iniziale per i “cani” cananei muterebbe cuore e riverserebbe anche sul non ebreo la sua misericordia. Questo trasformare la maieutica di un riconoscimento (”Signore, figlio di David”) e di una affermazione di Gesù dell’universale destinazione alla salvezza, in una parabola dell’accoglienza, a spese della cristologia, è omogeneo al caso appena ricordato di Mt 16, sintomi entrambi di una banalizzazione neomoraleggiante (e postmodernamente tutta affettiva) della pastorale che sembra colpire i migliori. In effetti ciò che Gesù e Pietro dicono non sembra interessare la pastorale.
Mi chiedo spesso: dov’è oggi il centro dell’infezione? Chi mette in giro queste banalità insidiose, che arrivano ai monaci come ai cleri diocesani e ai laici? Dietro la perdonabile retorica che fa dire dal pulpito: “È più importante in Pietro l’accento che il contenuto del ‘Tu sei il Cristo’, più la risposta del cuore che la verità della mente” – per cui a rigore qualsiasi cosa detta da Pietro con la stessa intensità soggettiva sarebbe “vera” –, si riconosce la rottura postconciliare dell’unità necessaria tra “fides quae” e “fides qua”. La popolarizzazione recente di teologie un tempo di moda, sotto l’effetto delle vulgate à la Lévinas che hanno contaminato saperi teologici e non, trasformandoli in chiacchiera zuccherosa, produce una spiritualità e una predicazione per cui i Vangeli sono anzitutto modelli, naturalmente deboli, di atteggiamenti e disposizioni e cure della “vita”, una vita più psicobiologica che etica.
E questo sarebbe fede vivente! Ma tra la fede che è creduta, cioè il canone di fede, la “analogia fidei”, e la fede con cui si crede, ovvero tra la verità e l’atto di assenso ad essa, il rapporto è inscindibile. Non è il tono dell’assenso che fa la verità. Non esiste assenso senza il suo oggetto, non “fides qua creditur” senza “fides quae creditur” che la precede; la fede non è generata, né autenticata, dall’atto o dal sentimento individuale.
Non lo si creda chiarimento superfluo. Su questo vi è un penoso disordine nelle Chiese cristiane. Ma se le verità del “Tu es Christus” come del “Tu es Petrus” si riducessero davvero a figure o parabole per vivere meglio piccole vite, piccole biografie, sarebbe coerente smettere di confessare Cristo, Figlio del Dio vivente.
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Per un confronto di stili omiletici, si rileggano i commenti al Vangelo pronunciati da Benedetto XVI in queste stesse due domeniche dell’anno liturgico, prima dell’Angelus:
tratto da :
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