IL PERDONO, UN ATTO DIFFICILE,
MA
NECESSARIO
Giovanni Cucci S.I.
La Civiltà Cattolica 2015 I
142-156 | 3950 (17 gennaio 2015)
«Il perdono ha effetti talmente salutari sul
benessere psicofisico di chi lo elargisce da essere generalmente ritenuto
auspicabile anche a fronte di offese estremamente gravi, tra cui l’abuso
sessuale e la violenza fisica»

La forza del perdono

Da
qui il suo incredibile potere risanatore, anche per chi ha sofferto le
situazioni più tremende: «Il perdono ha effetti talmente salutari sul benessere
psicofisico di chi lo elargisce da essere generalmente ritenuto auspicabile
anche a fronte di offese estremamente gravi, tra cui l’abuso sessuale e la
violenza fisica» 7 .
Cosa non è il perdono
Come si accennava, il contesto del «perdonismo» con cui, in occasione di eventi di cronaca, con troppa facilità si entra in merito a questa tematica non contribuisce a rendere giustizia alla complessità di tale gesto, che rischia di essere ridotto a una sorta di parola magica. Per questo è anzitutto importante dissipare alcuni possibili equivoci. - Il perdono è contrario alla giustizia. In realtà, perdono e giustizia sono modalità differenti: il primo è essenzialmente interiore, la seconda è esteriore e interpersonale. Il perdono riguarda i sentimenti, le emozioni e le valutazioni interiori, la giustizia l’aspetto giuridico e istituzionale. Per questo è possibile ottenere giustizia senza perdono, e perdono senza giustizia. - Non mi sento di incontrare quella persona. Dietro questa valutazione vi è la tendenza, abbastanza diffusa, a confondere perdono con riconciliazione. Anche in questo caso si tratta di processi diversi, perché la riconciliazione, come la giustizia, concerne l’ambito esterno e interpersonale, a differenza del perdono. Riallacciare i rapporti con l’offensore costituisce un gesto successivo, che certamente può completare il processo del perdono, ma non coincide con esso. Anzi, senza un lavoro previo sui propri sentimenti, in particolare sulla rabbia, c’è il rischio di una riconciliazione forzata, superficiale, che porta a inasprire ulteriormente il rapporto, allontanando, piuttosto che avvicinare, le persone. In secondo luogo, non è detto che il perdono venga accolto: spesso un tale atto viene rifiutato, sia perché l’altra parte non si riconosce nel ruolo di «offensore», sia perché può scorgervi una sottile forma di vendetta nei propri confronti. Parimenti, la parte lesa può respingere la riconciliazione, perché teme che un tale gesto possa essere interpretato come una sorta di approvazione del comportamento del colpevole, il quale potrebbe sentirsi autorizzato a ripeterlo nuovamente. In altri casi, la riconciliazione non è materialmente possibile, perché la persona non è più presente (lontana fisicamente o deceduta), o per il concreto timore che la ricostituita vicinanza possa riattivare vissuti troppo forti per l’offeso, specie se si sono verificati episodi di violenza, di minacce, di forte contrasto, ragion per cui l’incontro potrebbe riaprire ferite profonde, esasperandole e aggrovigliando ancora di più la situazione. Ciò non significa che il perdono non possa anche tradursi in un tentativo di riconciliazione. In ogni caso, questo avverrà in un momento successivo, che esige una esplicita richiesta di perdono da parte dell’offensore come passo previo: richiesta che può risultare ulteriormente credibile, qualora siano stati messi in atto gesti concreti per riparare al male compiuto. - Se mi vendico, starò meglio. Si tratta di un pregiudizio frequente in coloro che decidono di rifiutare il processo del perdono, ritenendolo — come notava Nietzsche — una rinuncia alla propria dignità, ai propri diritti, che invece verrebbero riaffermati da quella sorta di giustizia fai-da-te che è la vendetta. In realtà, la predisposizione d’animo ispirata alla vendetta conduce a coltivare atteggiamenti — come il risentimento e la ruminazione interiore — che avvelenano l’animo della persona, esasperandola, fino al punto di non riuscire più a trovare soddisfazione nella vita: «Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché la perpetrazione di un torto crea una situazione di ingiustizia e disequilibrio che le vittime percepiscono non essere completamente compensata da atti di rivalsa» 8 . Difatti il senso di pacificazione interiore, proprio del perdono, non è paragonabile ai sentimenti provati da chi ha vendicato un torto subìto. Il primo è pacificante, il secondo distruttivo. Si tratta di una differenza confermata, anche sperimentalmente, a proposito del rancore e del risentimento. Rancore, odio sono atteggiamenti distruttivi anche sul piano della salute: tendono a far aumentare la pressione sanguigna, causano stress e pericoli di tipo cardiaco, sono alla base di disturbi psicosomatici legati alla tensione e alla ruminazione interiore (gastriti, ulcere). La decisione di perdonare, invece, si fa sentire anche sotto l’aspetto somatico/biologico. Nel momento in cui ci si pone in questo diverso atteggiamento, si percepisce un cambiamento interiore, avvertito anche a livello corporeo. La letteratura ha spesso mostrato come la vendetta, anche se realizzata con successo, porti a scoprire aspetti inediti del presunto colpevole, soprattutto la sua fragilità e umanità. In ogni caso, essa non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. In questo modo, infatti, non si raggiunge né sollievo né giustizia, ma il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire. L’odio accumulato e coltivato nel tempo può diventare una vera ragione di vita. Ne ha offerto una brillante descrizione A. Dumas nel romanzo Il conte di Montecristo, il cui protagonista, ingiustamente condannato a una terribile reclusione, riesce a realizzare alla perfezione il suo progetto di vendetta, salvo poi alla fine riconoscere che le cose non stavano come egli aveva immaginato, soprattutto circa una possibile soddisfazione: punire i colpevoli non soltanto non lo ha reso felice, ma ha coinvolto anche altri innocenti, in particolare i parenti e gli amici delle vittime. La vendetta non allevia la sofferenza, né è in grado di assicurare la giustizia pareggiando i conti, ma avvelena ulteriormente, distruggendo se stessi e altri, anche perché tende a far smarrire il senso della misura, aggiungendo ingiustizia a ingiustizia. La percezione dell’accaduto da parte dei protagonisti — «colpevole» e «vittima» — è difatti molto differente, ed è alla base delle resistenze a perdonare. La vendetta non è in grado neppure di ristabilire il senso dell’onore, come suppongono le culture che tendono a sacralizzarla, ma rimane sempre un abuso di potere, una perdita di credibilità9 . - Non posso perdonare, provo ancora rancore. Il perdono suppone come condizione previa la chiarezza circa il proprio sentire, insieme alla capacità di esprimerlo, di metterlo in parole, prendendosi un lasso di tempo sufficientemente ampio per la sua realizzazione. Dare voce alla rabbia e alla protesta per la sofferenza subita è il primo passo, indispensabile per poterne compiere altri, un passo obbligatorio per il processo del perdono. Questi sentimenti possono coesistere nella persona, perché non si tratta di giungere all’indifferenza o all’oblio. È altrettanto importante guardarsi da una concezione magica del perdono, quasi che sia sufficiente pronunciarne la parola perché esso venga accordato: in realtà non si tratta di un atto concluso una volta per tutte. Se questa attesa illusoria non viene esplicitata e chiarita, può dare adito a ulteriori equivoci, che complicano piuttosto che risolvere il conflitto. - Non riesco a dimenticare. Perdono e dimenticanza sono atteggiamenti completamente diversi: il primo è un atto volontario, il secondo involontario. Prescrivere la dimenticanza è come dire: «ricordati di dimenticare». Un simile atto risulta, oltre che contraddittorio, anche dannoso, perché porta all’effetto contrario, rafforzando la memoria dell’avvenimento. È ciò che in psicologia viene chiamato «intenzione paradossale», in cui la proibizione di un evento favorisce il suo insorgere. Se, ad esempio, si chiede a un gruppo di persone di non pensare a un elefante rosa, è facile supporre che, proprio in forza di tale ingiunzione, quell’immagine si presenterà alla maggior parte di esse. Si può invece invitare a non coltivare gli atteggiamenti che rendono più difficile il perdono: il rancore, la rimuginazione, l’odio, per sostituirli con altri atteggiamenti più positivi. La dimenticanza, a differenza della memoria, non è frutto di una decisione; per questo non ha rilievo dal punto di vista del perdono: se l’episodio fosse stato realmente dimenticato, non ci sarebbe più nulla da perdonare. Il perdono nasce invece dalla constatazione di qualcosa che fa soffrire perché ritenuto ingiusto, e dalla ricerca di una modalità differente di affrontare la situazione. - Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, come l’empatia, la ristrutturazione cognitiva, il desiderio, la benevolenza. Essi sono indice di una libertà interiore che sfugge al meccanismo di stimolo-risposta, proprio del bambino e delle reazioni emotivamente primitive, ma sa considerare quanto accaduto da un punto di vista più ampio e complesso, notando cose nuove. - Deve soffrire per ciò che ha fatto. Dietro questa affermazione c’è la credenza, erronea, che rifiutare il perdono sia una maniera di punire l’altro. In realtà accade esattamente il contrario: in tal modo si punisce solo se stessi, torturandosi e impedendo a se stessi di vivere. Non perdonando, ci si illude di esercitare un potere sull’altro, ma di fatto ci si amareggia senza pietà. Cedere questo potere è consentire a se stessi di ricominciare a vivere, di percorrere nuove strade; forse si comincerà anche a capire che l’altro è molto differente da come la fantasia lo raffigurava. Perdonare è in definitiva un esercizio di realtà, che può far bene all’altro, ma soprattutto a se stessi. Una ricerca compiuta da J. Maselko, dell’Università di Harvard, su un campione di 1.500 persone di età compresa tra i 18 e gli 89 anni ha rilevato una stretta associazione tra contentezza, benessere e perdono: «Chi riesce a perdonare è meno esposto al rischio di sviluppare sintomi depressivi, si confronta con ridotti livelli di stress, ha in media una pressione arteriosa più bassa» 10. Ma che cosa significa perdonare?
Possibili definizioni di perdono

1)
l’evento stesso, il male subìto da altri a vari livelli, ciò che lo ha generato
nelle sue concrete modalità e conseguenze;
2) il riconoscimento di una
sofferenza causata da questo e la necessità di elaborarla adeguatamente, dando spazio ai
sentimenti che essa suscita; l’entità di questa sofferenza è legata, oltre alla
gravità materiale dell’atto, anche al tipo di relazione esistente tra offensore
e vittima;
3) la personalità di chi ha subìto l’offesa. Quest’ultimo aspetto
risulta il più importante nell’elaborazione del perdono. Esso è anzitutto un
processo intrapsichico che richiede la disponibilità a un lavoro interiore sui
propri sentimenti e vissuti. Con il termine «personalità», anche limitandosi al
mero ambito psicologico, si intende qualcosa di estremamente complesso. Si
possono riconoscere soprattutto tre livelli che sembrano essere particolarmente
significativi per la predisposizione al perdono. A un primo livello, è
possibile evidenziare i tratti, gli elementi strutturali di una personalità,
che possono essere ricondotti soprattutto a cinque, a ciò che gli studiosi
chiamano Big Five, cinque «grappoli», che racchiudono in sé una vasta gamma di
possibili variabili:
1) apertura: la tendenza a intraprendere attività,
coltivare interessi, arricchire il proprio mondo interiore, evitando di
chiudersi in se stessi;
2) estroversione: la capacità di guardare fuori da se
stessi, con una fiducia di fondo a quanto viene richiesto, affrontandolo con
passione e interesse;
3) coscienziosità: il desiderio di svolgere bene i
compiti affidati — sia che si tratti del lavoro, sia di un incarico di
responsabilità —, vivendoli con generosità e dedizione;
4) gradevolezza: la
predisposizione a prestare il proprio contributo per aiutare altri, mostrando
interesse, ed essendo disposti anche a sacrificarsi per loro;
5) stabilità
affettiva: riguarda l’equilibrio interiore, l’umore e le sue eventuali
variazioni di fronte alle molteplici situazioni possibili e agli imprevisti, la
gestione dell’aggressività, la resilienza (cioè la capacità di affrontare le
difficoltà in genere) 12. A un secondo livello, si trovano il mondo ideale del
soggetto, i suoi progetti e desideri (per esempio, se il perdono è riconosciuto
come un valore, o se, per il credente, è un elemento della sua relazione con
Dio), la varietà di interessi, gli scopi della sua vita, i criteri con cui egli
interpreta e affronta i problemi. Il
terzo livello è dato dalla rilettura della storia concreta della persona,
riconoscendo ciò che l’ha caratterizzata, plasmata e modificata (o deformata)
nel tempo: è quello che Paul Ricœur chiama «identità narrativa».
Schematizzando, si può dire che il livello 1 è dato da ciò che uno ha ricevuto,
il livello 2 da ciò che uno fa, e il livello 3 da ciò che uno va sviluppando di
se stesso.
La dimensione cognitiva e gratuita del perdono

Il perdono ha un
aspetto temperamentale? La tendenza ad accordarlo dipende certamente, oltre che
dai valori proclamati (il livello 2 visto sopra), anche dalla propria storia di
vita e dalla personalità (livelli 1 e 3), in altre parole da come l’offesa
viene percepita. Per questo, dal punto di vista psicologico, non ogni
personalità è ugualmente aperta alla possibilità del perdono: chi, ad esempio,
tende a essere possessivo e geloso, trova molto più difficile accordare questo
gesto. In secondo luogo, ha una grande rilevanza la qualità delle relazioni
vissute, specialmente nel corso dell’infanzia: «Se una madre ha la tendenza a
perdonare, anche i figli mostrano la stessa inclinazione» 16. Se invece
nell’ambiente familiare vige l’abitudine di coprire eventuali colpe e mancanze,
o di giustificarle a oltranza per paura del castigo o per mancanza di fiducia e
di affetto, risulta estremamente doloroso riconoscere di aver sbagliato, e
quindi si ha l’impressione di non avere nulla da farsi perdonare. Non a caso
gli stili di personalità tendenzialmente chiusi alla fiducia incontrano grosse
difficoltà ad accogliere anche l’idea stessa di perdono, passando dalla
negazione alla distruzione delle possibili situazioni di offesa. Nei paranoidi
e narcisisti, ad esempio, la percezione della colpa viene negata, sostituita
dal senso di vergogna, cioè da una valutazione negativa di sé: riconoscere di
aver fatto qualcosa di negativo viene interpretato come una catastrofe globale
in ordine alla propria stima. In tal modo l’accadimento cessa di essere un atto
puntuale e assume il significato simbolico di conferma o smentita del valore
dell’intera persona. Da qui la forte ansia, il rancore e il desiderio di
vendetta suscitati a motivo di quanto subìto. Chiedere scusa o accordare il
perdono in questa dinamica risulta molto difficile, perché richiederebbe di
prendere contatto con il proprio vissuto affettivo, con la propria profonda
sofferenza, con quella che Freud chiama «la ferita narcisista». Per questo, in
sede educativa, è fondamentale soffermasi sull’accadimento specifico con i
bambini, facendo notare che non loro, ma quella cosa è sbagliata, spiegandone
le ragioni, invitandoli soprattutto a immaginare come dovrebbe sentirsi l’altro
di fronte a quanto accaduto. E ciò allo scopo di comprendere che il male può
essere riconosciuto, perché non toglie la fiducia e l’affetto delle persone
care, favorendo gli atteggiamenti legati all’empatia e al senso di
responsabilità. Anche nel contesto terapeutico si nota una grande differenza
quando, anziché concentrarsi sull’offesa e sul danno ricevuti (che tendono ad
accrescere la rabbia e il risentimento), si sceglie di trattare il tema del
perdono, allentando la morsa del rancore. Il semplice fatto di parlarne
consente di ridimensionare la sofferenza, aprendo al desiderio di coltivare
relazioni, interessi e attività. Se è vero che perdonare non significa smettere
di provare sentimenti negativi verso l’offensore, è anche vero che questo gesto
facilita l’attivazione di atteggiamenti di benevolenza e di pacificazione nei
suoi confronti. Un tale gesto inoltre stimola l’intelligenza emotiva, la quale
a sua volta rafforza la capacità di perdonare 17. Sembra comunque che la
decisione di perdonare conduca il soggetto a vivere con più forza e intensità
la propria vita, sperimentando un senso di liberazione, al contrario del
perdono negato, in cui la persona rimane prigioniera del risentimento, delle
recriminazioni che assorbono tempo ed energia, occupando la mente senza trovare
sollievo: «Sono proprio la serenità psicologica ed emozionale e il proprio
stato di salute fisica che possono fare maggiormente le spese della nostra
incapacità di perdonare. Vivere stabilmente dentro di sé sentimenti intensi
d’ira, di rivendicazione e di ostilità non potrà non avere un impatto negativo
sulla propria salute»18.
1. Cfr G. Cucci, «Il
senso di colpa: zavorra inutile?», in Civ. Catt. 2014 IV 123-136; Id., «Il
senso del peccato: analisi fenomenologica», ivi, 243-256. Per un
approfondimento della tematica, cfr Id., P come perdono, Assisi (Pg),
Cittadella, 2011.
2. Cfr Summa Theol., I,
q. 1, a. 8, ad 2um.
3. «Quanto di
inoffensivo c’è nel debole, la viltà stessa di cui è ricco, il suo starsene
alla porta, il suo inevitabile dover attendere, qui si fa un buon nome, è
“pazienza”, anzi è la virtù stessa; il non-potersi-vendicare diventa
non-volersi-vendicare, forse addirittura perdono» (F. Nietzsche, Genealogia
della morale. Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, 1984, I, n. 14, 36).
4. H. Arendt, Vita
activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2001, 177 s.
5. Segnaliamo le ultime
pubblicazioni comparse in lingua italiana: M. Hubaut, Il perdono. Dimensioni
umane e spirituali, Bologna, Edb, 2013; B. Barcaccia - F. Mancini, Teoria
clinica del perdono, Milano, Cortina, 2013; C. Mucci, Trauma e perdono. Una
prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, ivi, 2014; M. Recalcati, Non è
più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, ivi, 2014.
6. D. Bonifazi - G.
Tortorella (eds), Matrimonio e famiglia: quale futuro? Aspetti antropologici,
Milano, Massimo, 2001, 231.
7. C. Regalia - G.
Paleari, Perdonare, Bologna, il Mulino, 2008, 48.
8. Ivi, 28.
9. Cfr ivi.
10. D. Diodoro, «La
rivincita del perdono», in Corriere Salute, 27 febbraio 2005.
11. Cfr M. McCullogh - E. Worthington - K. Rachal, «Interpersonal
forgiving in close relationships», in Journal of Personality and Social
Psychology 73 (1997) 321 s; R. Enright, «The moral development of forgiveness»,
in W. Kurtines - J. Gewirtz (eds), Handbook of moral behavior and development,
vol. 1, Hillsdale, Erlbaum, 1991, 123; A. Gentilini - A. Arvalli - P. Terrin
(eds), Memoria perdono ricostruzione. Analisi
teoriche e applicazioni psicoterapeutiche, Bologna, Edb, 2010, 19.
12. Per una
precisazione di questo punto fondamentale, cfr G. Cucci, «L’integrazione
dell’aggressività», in Civ. Catt. 2012 IV 325-328.
13. G. Paleari - C.
Regalia, «Il perdono nelle relazioni intime», in R. Rizzi (ed.), Itinerari del
perdono. Dall’individuo al gruppo, dalla terapia alla patologia, dall’offerta
alla domanda, Milano, Unicopli, 2010, 208.
14. Cfr G. Cucci, La
forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, Adp,
20112 , 140-155. 15. Cfr E. Giusti - B. Corte, La terapia del per-dono: dal
risentimento alla riconciliazione, Roma, Sovera, 2009, 19.
16. R. Rizzi,
«Introduzione», in Id. (ed.), Itinerari del perdono, cit., 12.
17. Cfr N. Wade - D.
Bailey - P. Shaffer, «Helping clients heal: Does forgiveness make a
difference?», in Professional Psychology: Research and Practice 36 (2005)
634-641; E. Giusti - B. Corte, La terapia del perdono…, cit., 203; R. Rizzi «Il
perdono come terapia», in Id. (ed.), Itinerari del perdono…, cit., 291. 18. A.
Arvalli, «Sul perdonare, un cammino sempre difficile», in A. Gentilini - A.
Arvalli - P. Terrin (eds), Memoria perdono ricostruzione…, cit., 21.
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