mercoledì 12 aprile 2017

La S. Messa e la cena di Babette

La “cena” di Babette, ossia una celebrazione senza Cristo

 


di Cesare Baronio

Introduzione


Il racconto, scritto nel 1950 da Karen Blixen, è meno noto ai più di quanto non lo sia la trasposizione cinematografica che nel 1987 ne fece il regista Gabriel Axel. Il suo titolo in inglese è Babette’s Feast, poi tradotto in danese Babettes gæstebud, che si potrebbe rendere in italiano con Il festino di Babette, o meglio La cena di Babette. 

Dico cena, e non pranzo, perché – come vedremo – questo termine richiama volutamente la celebrazione con cui la comunità protestante del piccolo villaggio norvegese fa memoria del proprio fondatore, sotto la guida delle figlie Martina e Filippa. Un’agape fraterna che nel 1950 era appannaggio delle sette luterane, ma che nel giro di due decenni avrebbe trovato eco nella riforma liturgica conciliare, alla cui redazione parteciparono attivamente dei pastori luterani, com’è noto.

Scrittura e film


Ricordo di aver visto il film nel corso di un cineforum organizzato da Comunione e Liberazione, e l’impressione che ne avevo ricavato di primo acchito era che si volesse mettere in luce la differenza tra il grigiore austero della piccola comunità protestante e lo splendore solare della cuoca francese, quindi cattolica. Ma la lettura del testo, che sino ad allora non conoscevo, mi ha persuaso del travisamento operato da Gabriel Axel e del grave equivoco in cui sono incorsi molti commentatori cattolici.

La narrazione filmica costituisce un’interpretazione, se non uno stravolgimento, del contenuto originale del racconto. 


I cattolici paiono voler scorgere significati positivi laddove a mio parere non ve ne sono affatto.

La generosa cuoca è in realtà, come si evince dal racconto, una terrorista francese, sfuggita alla polizia e rifugiatasi in Norvegia per evitare l’arresto dopo i fatti della Comune di Parigi del 1871. Non ci troviamo quindi davanti ad una mite cattolica, ma ad una pericolosa rivoluzionaria. La quale, dopo anni di silenzioso servizio come governante presso le figlie di un pastore, avendo vinto un cospicuo premio alla lotteria, decide di sdebitarsi per l’accoglienza offrendo loro un banchetto nel quale ella dà prova delle proprie capacità di famosa chef parigina al Café Anglais: una sorta di trasfigurazione culinaria, dallo stoccafisso bollito nella birra alle cailles en sarcophage.

L’autrice


Occorre qui ricordare che Karen Blixen era convinta che bene e male fossero aspetti di una medesima realtà, le facce di una stessa medaglia. Così ad esempio il pastore anglicano Pennhallow, in I vendicatori angelici (romanzo del 1944), è anche un’anima dannata dedita la tratta delle bianche:

È orribile sapere che ogni anno cento innocenti e radiose giovinette inglesi, coi capelli d’oro e l’animo fanciullesco si mettono su una strada che finisce nell’abisso. E noi ci comportiamo così per servire un ideale di pura e immacolata femminilità. A tale scopo, spingiamo alcune donne nell’abisso e teniamo le altre nell’ignoranza di ciò. E così deve essere, perché senza uno sfondo tenebroso, il giglio non sarebbe così bianco. E noi li dobbiamo avere, i nostri gigli, i più bianchi che questo mondo possa offrire [Karen Blixen, I vendicatori angelici, Adelphi, 1985, pag. 362].

Per la scrittrice danese non vi è né male né bene, anzi male e bene si confondono e si identificano. Siamo anzi noi a giudicare bene o male qualcosa che di per sé è ambivalente, e che diventa bene o male a seconda del nostro giudizio, del discernimento personale. Caso per caso. E ricorderemo anche che la Blixen – allorché scoprì d’aver contratto la sifilide dal primo marito, durante il loro soggiorno in Africa – cedette la propria anima al diavolo, affinché tutta la sua esperienza vissuta potesse essere riversata nei suoi racconti.

Per vivere magicamente occorre fede, affermava. Questo non significava credere in Dio, che per lei si confondeva col diavolo, ma essere tutt’uno con la natura, tenere stretti legami con i morti e con il passato, come le avevano insegnato i popoli primitivi dell’Africa. E dalle vecchie indigene aveva imparato a farsi strega, cosicché dopo il rientro in Danimarca il suo potere magico di convertì in abilità manipolatoria, perseguita anche tramite la letteratura. D’altra parte lei stessa, in visita a New York nel 1959, disse a Fredrik Prokosch: Ho un certo dono, se la cosa può interessarle. Vedo le anime dei morti che camminano intorno a me [Sandra Petrignani, La scrittice abita qui, Neri Pozza Editore, 2002].


La cena di Babette


Babette non è quindi un personaggio positivo, non è l’angelo che lascia entrare un raggio di luce cattolica nelle tenebre in cui si trovano i membri della setta. Ella è bensì un personaggio direi quasi infernale, che dopo aver beneficiato della generosa accoglienza di una piccola comunità ed essersi meritata la sua fiducia, seduce le menti e i cuori persuadendoli che le differenze dottrinali e ideologiche – peraltro sempre taciute – possono essere superate nell’incontro su ciò che crediamo di condividere: la mensa. Si noterà che il periodo di ascondimento di Babette durante gli anni di silenzioso servizio alle figlie del Decano e la celebrazione della sua ultima cena con i dodici alludono alla vita terrena del Signore. Anche l’accenno al fatto che, da quando Martina e Filippa hanno accolto in casa Babette, le loro finanze siano aumentate anziché diminuire ricorda in qualche modo una sorta di moltiplicazione dei pani e dei pesci, o il miracolo di Cana.

Scrive la Blixen:

Erano seduti a mensa come si erano seduti i convitati alle nozze di Cana. E la grazia aveva scelto di manifestarsi qui, nel vino stesso.

Inoltre, l’aver speso tutte le proprie sostanze per imbandire la cena allude ad un sacrificio, ad un’immolazione che ha sempre una valenza sacrale.

Ma proprio quest’agape fraterna, che replica il rituale di una commemorazione luterana di un venerato defunto, pur avendo come scopo immediato questa dimensione ecumenica, ha in realtà come fine quello di metter sullo stesso livello bene e male, tacendo deliberatamente ed anzi prescindendo da verità ed errore. 
Si privilegia il nulla contingente che unisce, eliminando il tutto eterno che divide.

La cena di Babette è il luogo della rivincita edonistica sulle rinunce dolorose del passato – l’affermazione artistica di Filippa, l’amore sacrificato di Martina – che sono riassorbite in un presente dionisiaco, dinanzi alla memoria irrisa del Decano, quasi costretto ad assistere al tradimento della sua comunità. Né si trascuri il biasimo verso la severità formalista del defunto, a cui vanno ascritte le rinunce delle figlie Martina e Filippa, frustrate nelle loro aspirazioni da una visione bigotta e sclerotizzata della fede.

Quel che rimaneva dell’unione al sacrificio di Cristo nella pur distorta visione luterana, si dissolve una volta che Cristo è bandito dal convivium. Così la Cena, che sino ad allora raccoglieva intorno alla povera mensa i fedeli della setta per commemorare il loro fondatore, con Babette diventa una celebrazione della comunità fine a se stessa.

A tal punto la figura del sacerdote è superflua, che Babette può rimanere in cucina. È lei il deus ex machina che prepara tutto, predispone una nuova religione, lasciando che gli eventi parlino in prima persona.

La cena dei Catto-modernisti


Lo stesso avviene nell’escluderne Cristo, nel non nominarLo, nel lasciarlo volutamente da parte.

Si resero conto che nessuno dei loro ospiti aveva detto una parola sul cibo. Anzi, per quanto vi si sforzassero, loro stesse non riuscivano a ricordare una sola delle pietanze che erano state servite (K. Blixen, Il pranzo di Babette, in Capricci del destino, Feltrinelli, 1985, pag. 42).

I convitati finiscono col dimenticare che il sacrum convivium ha senso solo in quanto in esso Cristo si offre come nutrimento – in quo Christus sumitur – non per il piacere effimero dello stare insieme, ma quale pegno di gloria futura – et futurae gloriae nobis pugnus datur.

Non stupisce quindi che in casa cattolica abbia voluto far propria la visione della Blixen: essa tradisce la stessa mentalità, la medesima forma mentis, proprio nel momento in cui l’approccio pastorale e l’equivoco magisteriale diventano strumento per ignorare le differenze dottrinali.

Le riforme ispirate allo stesso principio che porta Babette ad imbandire un sontuoso banchetto per gli ignari membri della comunità luterana: una Cena nella quale manca Cristo come sacerdote, come vittima, come altare, come alimento. In cui non c’è alcun bisogno di Cristo, perché la comunità basta a se stessa, essendo messa di fronte al fatto che le divisioni vanno evitate non con la confutazione dell’errore e la condivisione della verità, ma appunto prescindendo da entrambi.


I contenuti dottrinali della Messa sono taciuti proprio per consentire un avvicinamento da parte di chi li nega, e al tempo stesso permettere a chi vi credeva di presupporli ancora validi. Ovviamente non fu possibile – né sul piano teologico lo sarebbe oggi – sopprimere ciò che costituisce l’elemento essenziale della Messa, ossia la Consacrazione; ma già allora la parte narrativa dell’Ultima Cena fu enfatizzata rispetto alla parte propriamente consacratoria, eliminando la netta separazione tra il racconto ed il momento in cui il sacerdote agisce in persona Christi. E l’esclamazione adorante Mysterium fidei fu spostata dopo l’elevazione del calice e modificata in acclamazione escatologica dell’assemblea, quasi si volesse proiettare la venuta di Cristo alla fine del mondo, anziché riconoscere ch’essa si è appena realizzata sull’altare per il ministero del solo sacerdote, e non per la fede dei presenti.


Oggi noi cattolici ci riconosciamo nell’icona del piccolo villaggio norvegese: si celebra un rito comunitario in cui la dimensione trascendente è ignorata ad esclusivo vantaggio di un’immanenza di matrice modernista, di un sentimentalismo irrazionale. In questa comunità, come Babette, si intende imbandire una cena che seduca i cuori e inebri le menti di chi ha comunque già smarrito la fede nel Santo Sacrificio della Messa, e si limita a fare memoria, spezzando la parola e il pane. Ma per estendere l’invito al banchetto anche ai lontani, occorre eliminare da esso tutto ciò che può creare divisione. Una cena in cui ci si limita a procurare diletto agli altri, vederli godere.


Ma Nostro Signore è elemento di scandalo, di divisione tra fedeli al Decano e papisti, ed è dunque necessario non parlare di Lui. Tacere il Suo insegnamento, i Suoi comandamenti, la Sua legge. Finendo insomma per identificare il bene e il male, in nome di un’unità e di una fraternità che – lungi dall’aver come scopo la gloria di Dio e la salvezza delle anime – pare piuttosto basata sull’omissis eretto a sistema teologico, in cui l’Incarnazione e la Passione di Cristo non hanno importanza, non essendovi differenza tra vizio e virtù, tra dannazione e salvezza.

Conclusione


Oggi ci si rifiuta di compiere alcuna scelta tra bene e male, e si ritiene pragmaticamente queste categorie come apparenze, astratte entità fenomeniche.


La gravità della situazione può riassumersi nell’icastico titolo di un articolo apparso su Famiglia Cristiana: Il pranzo di Babette: quando un film diventa magistero.

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