lunedì 16 gennaio 2017

patacche della chiesa

Mi scrivono:
«[...] quello che sta cercando di fare la Chiesa, nel caso dei divorziati risposati, è di applicare l'epikeia tomista, concetto simile ed allo stesso tempo diverso all'oikonomia orientale.
Mi pare che gli ortodossi abbiano da secoli una pratica più misericordiosa, verso chi fallisce nel matrimonio, e allora perché solo i cattolici dovrebbero essere trattati con più durezza? Se può vivere in grazia di Dio un cristiano ortodosso risposato dovrebbe valere lo stesso anche per un cristiano cattolico. 
Mi dica dove sbaglio, eventualmente, per favore. Grazie».


 
Caro lettore, ho riportato quanto sostanzialmente lei mi ha scritto evitando appunti sulla mia persona che non ritengo affatto importanti per il nostro discorso. Il discorso del matrimonio fallito e del risposarsi è abbastanza antico, in Oriente. Nonostante ciò, le norme, entrate nella legge romana, che lo disciplinavano non sono state recepite in Occidente. 
  Facciamo un po' di chiarezza.  
La Chiesa in Oriente (come in Occidente) ha sempre ribadito l'importanza dell'indissolubilità del matrimonio. In Oriente ciò si applica per chi si risposa con un rito penitenziale di matrimonio, non identico al vero rito matrimoniale. Chi si risposa, poi, non si può accostare frequentemente al sacramento dell'Eucarestia ma solo nelle feste più importanti e a determinate e strette condizioni. Chi vive così, è dunque in una situazione penitenziale permanente e non sarebbe in tale situazione se fosse sposato nel primo matrimonio. Questo secondo (al limite terzo) matrimonio penitenziale non è cosa regolare ed è cosa solo tollerata in ragione della debolezza umana.
È lo stesso discorso che si sta facendo nel mondo cattolico, oggi? Mi scusi, ma non mi sembra affatto anche perché, letto con la mentalità di chi invoca misericordia nel Cattolicesimo, anche questa forma ortodossa porrebbe in "serie B" il cristiano risposato.  
Infatti, nella mente di chi invoca la misericordia non esiste alcuna condizione penitenziale nel senso sopra spiegato poiché la situazione cristiana è osservata molto umanamente con mentalità umanistica, non soprannaturalmente. Non è infatti un caso che si parli di "diritto" (alla comunione per il divorziato risposato), un termine laico che non è di pertinenza all'ambito religioso. Nella stessa Bibbia non si parla mai di diritti ma l'uomo, rivolgendosi a Dio, gli chiede: "Insegnami i tuoi decreti!" (vedi Sl 118) poiché il centro di tutto non è l'uomo con le sue supposte ragioni ma Dio. D'altronde questi "fiori di misericordia" occidentali, nascono in un contesto nel quale in gran parte si sono persi i riferimenti spirituali e ascetici che, al contrario, sono chiarissimi in Oriente in chi li vuole praticare, potendo pure trovarsi una tradizione che, in tal senso, è viva, non teorica.  
Ciò che è importante, infatti, non è la sola liturgia. La conservazione di una forma tradizionale di culto non è nulla se è priva di una profonda prospettiva spirituale-carismatica (in senso patristico), se è priva di un'autentica teologia praticata nella vita del cristiano.
  La gloria del Cristianesimo, infatti, non sono le semplici istituzioni esterne o l'aiuto che gli viene dato da un imperatore o da un capo di Stato (in un sito "supercattolico" pensano che l'esistenza di Putin sia la gloria dell'ortodossia russa, ma questa idea è piuttosto sempliciona, superficiale e stupida!). La gloria del Cristianesimo è la sua pratica che fa incontrare Cristo in interiore homine.
Allo stesso modo, invocare una misericordia senza vivere un'autentica prospettiva penitenziale (ognuno ha un motivo per essere un penitente fiducioso!), non serve a nulla se non a illudere e a portar fuori strada le persone, come in effetti sta succedendo.
Ecco perché personalmente mi schiero con i perplessi dinnanzi a queste pianificate pubblicità di "misericordia ecclesiale" che cercano vanamente di fare un restyling esteriore ad un edificio le cui colonne portanti stanno per rovinarsi.

http://traditioliturgica.blogspot.it/2016/12/ricevo-e-rispondo.html

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