lunedì 3 ottobre 2011


4 OTTOBRE
                                                
SAN FRANCESCO D'ASSISI 

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
Festa di San Francesco d’Assisi
Santuario Sant’Antonio
Teano, 4 ottobre 2010



Saluto iniziale

Ancora dopo tanti secoli, fratelli e sorelle, viviamo nell’incanto di una vita da fiaba, di un amore, come è stato appena cantato, di un “perdutamente” che Francesco ha vissuto nei confronti di Gesù, della Chiesa, preso, compreso, trasognato. E noi vogliamo chiedere, questa sera, la grazia di entrare nel suo sogno, nel suo incanto.
Questa celebrazione è anche il saluto che il Vescovo, ufficialmente, fa alla nuova fraternità dei frati del Convento di Sant’Antonio: celebrare con loro l’Eucarestia qui, nella Solennità di San Francesco, diventa occasione migliore per accoglierli, per augurare loro un fecondo ministero, per chiedere di farci incantare. E per le volte dei disincanti e dei rimpianti, che sono i nostri peccati, chiediamo umilmente perdono.

Omelia

Carissimi fratelli e sorelle,
l’anno scorso – ed è pretenzioso chiedervi su che cosa ci siamo fermati, ma me lo ricordo io – siamo partiti, nel vespro della Solennità del Santo Padre Francesco, dal testo sapienziale del gran sacerdote che si aggira, che è architetto, che scava il pozzo per le generazioni future, che prepara le mura per l’assedio.
Vorrei, quest’anno, partire da un avverbio che era presente nel canto d’ingresso: “perdutamente”.
Questo avverbio ci viene dal testo di un canto, intriso del sapore di Francesco, e narra la sua storia con moduli un po’ medioevali: “Ma lui perdutamente si innamorò di Madonna Povertà”. Cosa significa questo per noi? Che cosa accade quando un uomo si innamora - non solo - ma si innamora perdutamente?
Ci si innamora in tanti modi, e lo sappiamo bene; ci sono anche gradazioni, gradualità dell’amore e dell’innamoramento. Il massimo, se è possibile una scala di valutazione, di quantificazione per la modalità dell’innamoramento, è il “perdutamente”. Anche nella composizione dell’avverbio, abbiamo una sorta di lunghezza del termine (per-du-ta-men-te), perché per perdersi così, ci vuole tempo.
Noi pensiamo che ci si perde in un attimo, ma l’innamorarsi perdutamente, chiede sguardi, chiede sentimenti, richiede appostamenti, richiede promesse, richiede cambio dell’ottica della vita, per cui ciò che prima ci appariva dolce, diventa amaro, e ciò che prima ci sembrava amaro è avvertito come dolcezza.
Questa sera vorrei chiedere per me e per voi, per i frati e per i sacerdoti presenti, la grazia di un innamoramento “perdutamente”. Oggi, purtroppo, ci si innamora di due persone diverse, contemporaneamente, o si presume di innamorarsi di più persone, di avere più storie, ma chi si innamora perdutamente, non può più innamorarsi di nessuno, perché si è perduto in quell’amore.
Ci sono amori in cui siamo protagonisti, e non è ancora amore; ci sono amori dove siamo presi, addirittura – e non vi sembri offensivo – ridotti allo stato di oggetti, di satelliti che girano intorno a un pianeta, a una stella dalla quale prendono luce: non hanno più percezione di sé, hanno perso la loro orbita iniziale e sono entrati nell’orbita di una grande stella. Sulle carte degli astronomi non ce n’è più traccia: che ne è stato di questo corpo? Si è perduto. Si è perduto o si è innamorato?
Anche i corpi celesti si innamorano (utilizzo questo verbo, ovviamente, in una maniera traslata, perché non c’è coscienza) ed entrano nelle orbite di altri esseri, di altri corpi di maggiore forza di attrazione e cambiano la loro denominazione. Così è accaduto a Francesco, a Giovanni chiamato Francesco. Giovanni è il nome di battesimo e Francesco è il nome imposto da suo padre (i padri sono sempre un po’ despoti) che, tornato dai suoi viaggi fruttuosi, ha pensato che la terra che gli dava da mangiare avesse ben diritto di dare il nome a suo figlio, e da “Francia” è venuto “Francesco”.


Giovanni, chiamato Francesco, aveva tutte le doti e il diritto di vivere una vita sua, come l’abbiamo noi, di organizzare la sua giovinezza (ha tentato anche di farlo a prescindere da Dio come amore totalizzante), aveva diritto a godere delle ricchezze che il padre Bernardone aveva ammassato, ma un giorno si è imbattuto in uno sguardo: lo sguardo del Crocifisso.
È per questo che la Liturgia ci fa leggere, nella Lettera dei Galati, quello che Paolo dice di sé: “D’ora in poi nessuno più mi procuri fastidi: io infatti porto nel mio corpo le stigmate di Gesù”. Paolo, diventato cristiano, si è cristificato ed è diventato anche fisicamente come Gesù: queste sono le fasi della vita di un santo.
Gesù, un personaggio della storia; Gesù, Colui che abbiamo imparato a pregare sulle ginocchia di nostra madre; Gesù, il giorno della Prima Comunione, il giorno della Cresima, il giorno del Matrimonio; Gesù invocato in qualche emergenza: questa è la vita di tutti noi. Ma questo non è ancora cristianesimo.
Alcuni – speriamo tanti, speriamo tutti – da questa base, come di chi si imbatta di tanto in tanto in quest’uomo, nelle Sue parabole, nel Suo fascino, nei Suoi miracoli, nella Sua Croce, sono colpiti da uno sguardo del Maestro (“Allora Gesù, fissatolo, lo amò” – dice Marco al capitolo 10) e cambiano direzione, cambiano vita, cambiano nome. Che è successo? Che cosa rende questi cristiani diversi da noi, da me, da te? Una cosa: si sono innamorati.
Qualcuno di voi potrebbe dire: Ma anch’io sono innamorato di Gesù! Sì, ma non ancora perdutamente. “Perdutamente” è quella percezione, che qualche volta sperimentiamo nella nostra povera esperienza umana, di ritenere l’altro, l’oggetto dell’amore che diventa soggetto, così importante, così deliberante, così totalizzante per la nostra vita, da perdere ogni diritto e diventare semplicemente dovere. Adesso l’ho detto con parole un po’ dure, ma se lo inserite nella dimensione dell’amore, capite che il piacere, la gioia, il senso di pienezza di chi si è innamorato perdutamente è appunto perdersi, non dover difendere alcun diritto. Anche fra voi che siete sposati e che vi volete bene da tanti anni, ci sono dei combattimenti e a volte dite: Non devo esagerare nell’essere troppo incline nei confronti di mio marito, dei miei figli, altrimenti che succede? Mettiamo dei paletti e diciamo: Sì, fin qui, non oltre, altrimenti ne va di mezzo la mia dignità.
Chi si innamora perdutamente rinuncia alla sua dignità, rinuncia ai suoi progetti, rinuncia alle sue doti, rinuncia al suo nome, è pronto a rinunciare al suo essere, purché l’altro, l’amato, risplenda. Questo ci distingue da Francesco che, mentre lo vediamo come un astro splendente e lontanissimo, vorrebbe che lo sentissimo come nostro fratello, perché anch’egli è stato nella nostra stessa condizione di incontri sporadici, di frequentazioni eucaristiche fredde, di ritualità che non avevano niente a che fare con la vita; anche egli ha vissuto una stagione, come ben sapete, dove Gesù c’era, ma era uno fra tanti. Gesù lo aveva salvato, ma questa cosa non lo entusiasmava; forse Gesù era anche amato, ma non perdutamente.
“Perdutamente” è lanciarsi a peso morto in un amore, succeda quel che succeda, e così Francesco ha fatto, perso nello sguardo del Crocifisso di San Damiano, innamorato perdutamente dell’uomo dei dolori, di Colui davanti al quale ci si copre la faccia – dice Isaia – del servo di cui non riusciamo a percepire più neanche i lineamenti umani, tanto è stato pestato. Ma di questo “principe caduto”, di questo uomo-obbrobrio che pende dalla croce, uno si è innamorato e si è innamorato perdutamente.


All’inizio della Messa, ho utilizzato una parola che spero vi abbia raggiunto: la parola “incanto”. “Incanto” contiene la parola “canto”; è stare dentro un canto, non ascoltarlo, come voi fate, con grande delizia dell’udito, nei confronti del coro “Mi alma canta”. Loro cantano e noi ascoltiamo, ma noi non stiamo nel canto.
L’incanto è ascoltare un canto e sentirne l’attrazione al punto da perderci tra le note, tra le pause, nel tempo, nel ritmo, entrando in un altro tempo. Possiamo anche vivere una vita grama, povera, ma se siamo nell’incanto, possiamo sentirci principi e regine. L’incanto chiede che il canto, da esterno, ti entri dentro, anzi, che tu entri nel canto. “Incantato” è detto di persone prese, attirate, risucchiate da una donna, da un uomo, da un tramonto, da una sinfonia...
Se oggi c’è qualcosa che dobbiamo rimproverarci come Chiesa è che non siamo più incantati. I bambini ancora lo sono, e in età sempre minore (noi siamo stati incantati anche a dieci e a dodici anni), ma la Chiesa che perde l’incanto, che non è più nel canto, il canto nuovo, cioè in Gesù, finisce con l’essere una Chiesa attenta agli equilibri politici, una Chiesa che vuole entrare nella gestione che ritiene importante il denaro, cioè tutte quelle espressioni pratiche, certamente importanti, ma non alte della vita.
Invece l’incanto può non farti mangiare, può farti sentire sazio anche in una giornata di digiuno. Questo è il canto, e se oggi delle persone non si avvicinano alla Chiesa, se i lontani non vengono, non si convertono, è perché questo incanto non ci appartiene, perché vedono delle persone razionali, delle persone che sanno il fatto loro, che sanno discettare, che fanno conferenze, che danno consigli. Francesco non ha ritenuto tutto questo, e di sé ha detto: “Sono un peccatore salvato”. Ha raccontato anche nel testamento - a dire quanto questa esperienza l’avesse segnato - dell’incontro con l’uomo crocifisso che era il lebbroso. Un lebbroso è repellente, ma se tu sei nell’incanto, puoi anche baciarlo, come si bacia l’orco nella fiaba che diventa il principe azzurro. Ma questa è fiaba! - starete pensando - No, è incanto.
Chiedo a Gesù, per intercessione di Francesco, che torni l’incanto, che torni il canto, che torni l’attrazione irresistibile, che torni la fatale attrazione, che torni l’età dell’amore, dove non ci s’innamora solo, ma ci s’innamora perdutamente. E quando questo accade, allora chi è incantato ed entra nel canto, diventa tutt’uno col canto.
Ci sono dei momenti in cui anche voi, il maestro o i coristi - si tratta di istanti di grazia, non accade sempre - sentite d’essere tutto nel canto. Non ci sono cose esterne che ci richiamano ai doveri, ai piaceri, alla professione, al tempo, allo spazio. Francesco è stato così incantato e così innamorato perdutamente di Gesù Crocifisso da entrare in questo canto, diventando canto egli stesso, fino a scoprire che le sue mani erano piagate, che il suo costato era squarciato, che i suoi piedi erano trafitti. Le piaghe - a cui purtroppo noi andiamo troppo dietro - costituiscono semplicemente la prova di chi è incantato e dice: chi sono io?


Chi sei, Francesco? Se potessimo parlare con lui sulla Verna dell’esperienza delle stigmate, direbbe: “Non so più nulla di me, né di mio padre, né di mia madre, né della mia giovinezza, e neppure dei frati che ho attirato a mille e mille: io sono Gesù Crocifisso”.
Ecco l’incantato che è diventato canto, ecco il cristiano che è diventato Cristo, ecco l’innamorato che non dà più l’appuntamento all’amato, non dice più: “Ci vedremo alle cinque, alle sette, alle dieci…”, perché è tutt’uno in lui. È innamorato perdutamente.
Lo desidero ardentemente per me. Spero che qualcuno di voi lo desideri, con me, per sé.      

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.

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