lunedì 2 giugno 2014

Ne vedremo delle belle...

Chi sono io per giudicare?

Un numero della rivista Concilium per discutere (molto criticamente) di ortodossia

FABRIZIO MASTROFINI





L’idea di questo numero di Concilium è affascinante: suggerisce l’ipotesi che l’ortodossia non sia necessaria. A partire dalla famosa frase di Papa Francesco sull’omosessualità: chi sono io per giudicare una persona, pronunciata in aereo di ritorno dal Brasile. I vari saggi del fascicolo percorrono in lungo e largo l’idea dell’ortodossia come si è stabilita nel corso di due millenni di cristianesimo e la necessità di fare spazio a qualcosa di radicalmente diverso. Andres Torres Queiruga si esprime così: «è innegabile che in qusto campo negli ultimi tempi si è imposto uno spirito di ortodossia escludente, che pastoralmente si è trasformato in sfiducia cronica e in atteggiamento condannatorio verso qualsiasi tentativo di rinnovamento; e teoricamente ha portato all’enorme confusione tra il pastorale e il teologico che ha indotto a trasformare un ‘catechismo’ in norma ultima per giudicare i progressi della teologia».

Più chiaro di così è anche il saggio del teologo David Tracy, secondo il quale una visione critica dell’ortodossia è possibile. Dobbiamo essere consapevoli che l’ortodossia è stata stabilita a partire da una visione europea o occidentale della teologia. In questo senso Tracy legittima l’importanza di una «ermeneutica del sospetto» cioè un approccio che ponga prima di tutto la domanda su quanto i nostri punti di vista culturali di partenza influenzino la lettura che si compie rispetto al sapere e alle impostazioni degli altri. Se incrociamo questo dato con la misericordia di Dio – che la Chiesa predica molto con Papa Francesco –  allora a cosa serve l’affermazione dell’ortodossia? A niente, è la risposta, anche se in questo numero di Concilium non viene espressa in maniera tanto brutale. Jon Sobrino, ad esempio, il gesuita che è considerato un esponente di spicco della teologia della liberazione, nota che la misericordia di Gesù e la Croce vengono poco considerate quando si parla di ortodossia.

E ad un esame più attento scopriamo che i dogmi sono molto meno stabili di quello che sembri. Norman Tanner, gesuita britannico, analizzando la formula del Credo di Nicea e di Calcedonia, dimostra in un acuto saggio come i primi Concilii ecumenici abbiano speso molto tempo e molta sapienza teologica nel precisare e correggersi. Dunque se lo hanno fatto in quell’epoca, perché non oggi? In pratica le definizioni dogmatiche che consideriamo immutabli non lo erano al tempo in cui furono determinate e per molti decenni sono state riviste e rielaborate. «L’aggiornamento – nota Tanner – è stato una tradizione costante nella Chiesa». E servirebbe anche oggi con buona pace dei troppo rigidi custodi dell’ortodossia. Perché, come nota Queiruga citando il teologo Otto Karrer, si deve sempre supporre (nelle persone e) nei teologi la «buona fede». Anche questo numero di Concilium dunque è un contributo indiretto e prezioso nella direzione di una «Riforma» della Chiesa.

Concilium 2/2014, Dall’«anathema sit» al «Chi sono io per giudicare?», Queriniana, pp. 200, euro 15; www.queriniana.it

2 commenti:

  1. Siamo alle solite, il dogma diluito nel progresso della Storia in salsa hegeliana. Possiamo fare a meno del contenuto della Rivelazione? Certo che no! È fissa? La dottrina sostanzialmente è la stessa ma viene espressa in modo rinnovato in base alle sfide dei tempi, è organismo che cresce sempre ma non muta la sostanza.
    Concilium ci porta ai funesti anni settanta e alla teologia del dissenso! Per carità, Duo ci liberi degli anni settanta!

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  2. Dio ci liberi degli anni Settanta! (Scusate refuso precedente)

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