sabato 29 agosto 2015

sono una donna ma “sento” di essere un uomo

Manuale di sopravvivenza al tempo 


del gender / primo capitolo




Con l’espressione “teoria del gender” chi scrive intende quegli orientamenti  culturali, quelle correnti di pensiero per le quali essere uomini o donne non è un fondamentale tratto identitario di ogni essere umano, determinato già nell’embrione a una sola cellula e rilevato alla nascita – è un bambino, è una bambina - ma qualcosa che si può modificare, sia fisicamente, con interventi chirurgici, sia dal punto di vista del riconoscimento anagrafico e sociale, a seconda delle percezioni, dei sentimenti e dei convincimenti personali – sono una donna ma “sento” di essere un uomo.

In quest’ottica non esiste più neppure il modello binario “maschile-femminile”: l’identità sessuale è determinata non solo dal corpo sessuato – sono un uomo, sono una donna - ma anche dal cosiddetto “orientamento sessuale” – sono omosessuale donna, cioè lesbica, sono omosessuale uomo, quindi gay, sono attratta sia da uomini che da donne, e quindi sono bisexual, e così via: di conseguenza si può essere LGBTIQ (lesbica, gay, bisessuale, transessuale, intersessuale, queer). Tutte identità fluide che possono anche mutare nel corso della vita.

Il punto di arrivo è l’eliminazione della differenza sessuale come caratteristica costitutiva dell’umanità, finora universalmente caratterizzata da maschi e femmine, indipendentemente dalle relazioni sessuali personali: nell’ottica della  “teoria gender” siamo individui il cui corpo sessuato ha la stessa importanza della corporatura, del colore dei capelli, di altre caratteristiche che contribuiscono a descrivere una persona, ma che non ne definiscono in modo univoco l’identità, assegnando un’appartenenza al maschile o al femminile.

La letteratura che tratta di questo argomento è praticamente sterminata, e non è questa certo la sede per citarla, anche solo per sommi capi.  Non bisogna pensare comunque alla  “teoria del gender” come fosse la “teoria della relatività”, cioè con enunciazioni di ben definiti modelli, risultato di ipotesi speculative e osservazioni sperimentali, né tantomeno con un unico “padre” di riferimento che l’ha formulata. E d’altra parte questa corrente di pensiero sarebbe probabilmente rimasta nella aule universitarie, destinata agli addetti ai lavori, se non si fossero verificati eventi che hanno consentito di diffonderla.

Il 25 luglio 1978 nasce Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta. Ed è questa la data spartiacque. Con le tecniche di fecondazione in vitro per la prima volta nella storia dell’umanità è possibile che una donna partorisca un figlio non suo dal punto di vista genetico: avviene con la fecondazione eterologa, quando l’embrione che si forma viene trasferito nel corpo di una donna diversa da quella che ha fornito l’ovocita. La scissione della maternità è il primo fondamentale pilastro della rivoluzione antropologica che segna il nostro tempo. Da Louise Brown in poi servono gli aggettivi per identificare le tipologie diverse di madri: genetica, che dà l’ovocita e il suo patrimonio genetico al nascituro, gestazionale, che porta avanti la gravidanza e partorisce, sociale, che alleva il bimbo e lo riconosce. Non c’è un criterio per stabilire se una madre sia “più madre” dell’altra, se non quello dell’accordo contrattuale, che decide quale sia la madre “legale” (che tra l’altro non sempre coincide con una delle due biologiche, e può essere una terza figura).

Ma soprattutto, per quel che ci riguarda, con queste tecniche è possibile fare finta che due uomini o due donne abbiano un figlio proprio: è sufficiente procurarsi quel che manca in un centro di fecondazione assistita. Due donne avranno bisogno “solo” di un’aliquota di liquido seminale, senza neppure conoscere chi l’ha fornita, e analogamente due uomini possono acquistare ovociti da una donna e pagarne un’altra diversa per farle portare avanti la gravidanza e partorire, per quel percorso noto come “utero in affitto”. Se il concepimento avviene in laboratorio, si può fare finta che l’uomo che vende il suo liquido seminale o la donna che vende i propri ovociti abbiano un ruolo del tutto marginale, siano un contributo “meramente biologico”, tutto sommato un po’ di cellule, preziose e importanti, ma sempre e solo cellule. Per quanto riguarda la donna che affitta l’utero, è destinata a scomparire dopo il parto; spesso non ne rimarrà traccia neppure nei documenti anagrafici.

Facciamo un esperimento mentale: se una donna e un uomo stessero insieme solo per il tempo di un rapporto sessuale, anche se non conoscessero neppure il nome l’uno dell’altra, e se poi non si vedessero più, e la donna rimanesse incinta e portasse avanti la gravidanze e partorisse, lei non potrebbe dire al figlio: non hai un padre. La fisicità del rapporto vissuto, l’oggettività di averlo consumato lo impedirebbe.

Ma quando il rapporto sessuale non c’è, sostituito dalle mediazioni legali e mediche, per una donna il contributo maschile, se non viene dal suo compagno, può essere facilmente ignorato, dimenticato, confinato in una anonima fiala di sperma compresa nel prezzo dell’intero “trattamento”. Quel figlio è di chi lo ha desiderato – per esempio lei e la sua compagna, le “due mamme” – e non di chi lo ha effettivamente generato – lei e chi ha dato il liquido seminale. Altrettanto avviene con una coppia maschile, anche se in questo caso il contatto con la donna che presta il suo utero per la gravidanza deve essere per forza di cose anche personale.

La separazione di sessualità e procreazione, iniziata con la contraccezione – sesso senza figli – si completa con la fecondazione assistita – figli senza sesso - : se i figli sono di chi li desidera e non di chi li genera fisicamente, ecco che si può fare finta che due uomini o due donne possano avere un figlio.
 Ma dobbiamo ricordare a questo punto che la fecondità è la massima espressione della differenza sessuale, perché un bambino può nascere solo dall’unione di un gamete maschile e uno femminile, e siccome i primi vengono dagli uomini e i secondi dalle donne, ancora dobbiamo dire che, qualsiasi cosa avvenga in laboratorio, per fare un bambino la differenza sessuale è necessaria. Al giorno d’oggi, piaccia o meno, i bambini nascono da un uomo e una donna.

Ma se con le nuove tecniche di fecondazione assistita è possibile fare finta che anche due uomini o due donne (o un uomo da solo, o una donna da sola) possano avere un bambino, perché quel che serve è solo la volontà di averlo, e quel che manca ognuno se lo procura in laboratorio, ecco che la differenza sessuale è cancellata, non è più necessaria.

Per questo la “teoria del gender” trova la sua conferma, e anche la sua diffusione, con le tecniche di fecondazione artificiale di tipo eterologo, e d’altra parte è proprio per questo che solo adesso si discute e si legifera sul matrimonio omosessuale.

Negli anni ’70, quando nascono i primi movimenti omosessuali, le rivendicazioni riguardavano la libertà sessuale, la libertà di avere rapporti sessuali con chi si amava, senza dovere per questo andare in galera (come è avvenuto a lungo in Inghilterra) o doversi nascondere. Se aveste domandato a un omosessuale negli anni ’70 se desiderasse metter su famiglia e sposarsi per avere dei figli con un altro omosessuale, vi avrebbero preso per matti.

Con le tecniche di procreazione assistita si è affermata l’idea del “diritto al figlio”  (ormai sancito dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza sull’eterologa) che, nel caso delle coppie omosessuali, diventa la  legittimazione del matrimonio: se due persone sono legalmente genitori di un bambino, indipendentemente dal fatto di essere un uomo e una donna, due uomini o due donne, la differenza sessuale non conta più.

Per questo si afferma la richiesta del riconoscimento delle unioni omosessuali, e, ancor più, del matrimonio omosessuale: è con le nozze che si accede ai figli (per esempio per l’adozione), e poter avere figli  in quanto coppia stabilisce l’equiparazione fra coppie omosessuali ed eterosessuali, tra l’altro consolidando l’idea per cui la differenza fra esseri umani, quando c’è, è fra omo ed eterosessuali, e non fra uomini e donne.

Una madre e un padre, due madri, due padri: per me pari sono. Questo il risultato finale.

Dire “stop al gender” quindi, equivale a rifiutare questa visione dell’umanità, e non ha niente a che fare con questioni di morale e di comportamenti sessuali. Non è in gioco la libertà personale di vivere la propria sessualità e i propri affetti come meglio si crede, purché fra adulti consapevoli e consenzienti. Tantomeno sono in discussione le abitudini e le preferenze sessuali dei singoli, che appartengono e devono continuare ad appartenere all’ambito del privato, delle scelte personali che riguardano la coscienza e la vita intima di ciascuno.

Se avessi un figlio omosessuale, diventerei una tigre per difenderlo se qualcuno per questo gli negasse il lavoro o la casa, o, peggio ancora, si permettesse di aggredirlo, a livello fisico o verbale.

Dire no alla “teoria del gender” non significa quindi affermare un giudizio morale negativo sull’omosessualità, ma significa dire no a chi vuole negare le differenze sessuali quando si parla di avere bambini, significa dire no a chi vuole negare a un bambino il diritto a una mamma e un papà, il diritto a vivere con chi lo ha effettivamente generato. Per questo dire no alla “teoria del gender” implica dire no al matrimonio fra persone dello stesso sesso. E per questo significa dire a no alla diffusione di progetti, iniziative in ambito scolastico, educativo, mediatico, specie se da parte di istituzioni pubbliche che hanno comunque un ruolo formativo – in primis il Ministero dell’Istruzione, ma anche regioni, comuni, Asl, tanto per fare qualche esempio – che affermino questo tipo di visione dell’umanità, dove per esempio i bambini possono avere due padri o due madri: semplicemente non è vero. Ogni bambino ha un padre e una madre (e casomai due madri biologiche).

Diffondere la “teoria del gender” significa diffondere una visione dell’umanità sessualmente indifferenziata nel senso che abbiamo detto finora, ed è funzionale a far accettare socialmente il matrimonio omosessuale, cioè il secondo pilastro della rivoluzione antropologia in atto.

Una volta entrato nell’ordinamento giuridico il matrimonio fra persone dello stesso sesso, la rivoluzione antropologica è compiuta, perché si sono messe le basi per una nuova umanità, fondata su due nuovi paradigmi: il primo, quello per cui l’identità sessuale non è determinata dal corpo sessuato e non è binaria uomo-donna; il secondo, quello per cui i figli non sono di chi fisicamente li ha generati ma di chi li ha ottenuti attraverso pratiche di laboratorio, contratti, reperendo quello che biologicamente manca sul nuovo mercato globale dei corpi umani.

http://www.loccidentale.it/node/137801

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