Papa Francesco, figlio di Sant’Ignazio di Loyola
da Daniele FazioPapa Francesco in un sol colpo ha condensato su di sé tre primati: è il primo a prendere il nome del Santo d’Assisi, patrono d’Italia, il primo Vescovo di Roma a provenire da un paese extra-europeo, l’Argentina, e il primo ad appartenere alla Compagnia di Gesù. Se sui primi due primati fiumi di parole sono state scritte, il terzo primato – quello dell’appartenenza alla schiera dei figli di Sant’Ignazio – è quello che patisce più di tutti silenzio od è oggetto di fugaci riferimenti. Eppure per chi non vuole restare alla superficialità della valanga di notizie di cui ci inondano i media – dalla fidanzatina dodicenne del ragazzetto Jorge Mario alla telefonata del Papa all’edicolante con cui lo prega di non conservargli più il quotidiano – “orpelli” che più che esaltare il messaggio vero di questo Pontefice lo nascondono considerevolmente, facendoci arrestare solamente alla soglia della sua mentalità – è proprio alla sua radice formativo-spirituale che dobbiamo andare, ovvero alla spiritualità ignaziana, per vedere come ogni sua parola abbia a riferimento la più genuina e fedele forma mentis gesuitica. Certo, sono stati ricordati alcuni passi decisivi della sua vita, come quello ripreso dal libro intervista Il gesuita, in cui l’allora Cardinale Bergoglio spiega la sua scelta della Compagnia con queste parole: «fui attratto dal loro essere una forza di avanzata della Chiesa, perché nella Compagnia si usava un linguaggio militare, perché c’era un clima di obbedienza e disciplina. E perché era orientata al compito missionario». E ancora viene ricordato il suo dissenso nei confronti dell’ubriacatura che la teologia della liberazione prese molti suoi confratelli, opponendolo al Preposito Generale di allora padre Pedro Arrupe. E non può sfuggire altresì il simbolo “IHS” della Compagnia messo in bella vista nel suo stemma episcopale ed ora pontificio. Fatti interessanti e significativi, ma che non vanno al “cuore” se così possiamo dire dell’esser gesuita. La straordinaria consegna, suscitata dallo Spirito Santo, che il santo ex-militare di Loyola fa alla Chiesa del suo tempo, ma anche alla Chiesa dei secoli avvenire è un libretto, scarno ed essenziale, chiamato Esercizi spirituali. La forza del manipolo di Cristo che ha da lottare contro le ciurme di Satana, sta tutto in quel testo che più che esser raccontato va svolto.
Gli Esercizi, infatti, sono una palestra spirituale, una grande scuola di preghiera e conversione, che ci permettono nel silenzio di ascoltare la voce di Dio e di vederci come Egli ci vede e quindi di scoprire cosa è veramente fondamentale nella vita dell’uomo.
Quando nel XVI secolo lo spirito “mondano” dell’Umanesimo e del Rinascimento era penetrato a tal punto nella Chiesa che la Sede di Pietro era diventata come una qualsiasi corte dell’epoca, la necessità della riforma era straordinariamente visibile. Non si trattava tanto di un’opera di restyling curiale, ma di affrontare la problematica in radice.
Papa Paolo III insieme ai suoi collaboratori avevano preso sul serio l’opera di una Riforma cattolica e fu proprio in quel tempo, come racconta lo storico Christopher Dawson, che «apparve a Roma un gruppetto di pellegrini spagnoli e savoiardi, ex studenti di Parigi, guidati da un ex soldato della Navarra, venuti ad offrirsi come volontari per servire la Chiesa e il Papato dove e come fosse più necessario. Essi incontrarono la stessa opposizione subita dai cardinali riformatori e proprio attraverso lo stesso cardinal Contarini le loro proposte di una nuova società furono sottoposte al Papa» (cfr. La divisione della cristianità occidentale, Fondazione d’Ettoris, Lamezia Terme 2009, p. 158).
Fu così che gli Esercizi spirituali apparvero come il più urgente progetto di riforma della Chiesa e della cristianità. Da quel momento chiunque, chierico o laico che fosse, impegnato nell’opera del rinnovamento inaugurata dal Concilio di Trento, fece gli Esercizi. L’ottica sulla riforma così cambiò totalmente, non si trattava di un problema di struttura, ma di “cuore” e gli Esercizi puntano proprio al centro della persona per muoverla per Cristo, liberandola da qualsiasi altro impedimento, incitandola alla sua sequela nel contesto di una visione militante della vita spirituale. Senza contemplazione non c’è riforma. Al tempo la ricetta diede i risultati sperati tanto che «ciò fu sufficiente a mutare le vite degli uomini e ad apportare cambiamenti di lunga portata nella società e nella cultura» ( Ivi, p. 160). Da allora gli Esercizi si diffusero in tutta la Chiesa, raccomandati da tutti i papi, divennero la “fucina” in cui si forgiarono numerosi santi.
La Meditazione iniziale detta Principio e fondamento, quella dei Due stendardi e della Regalità di nostro Signore, sono veramente decisive e muovono l’animo verso l’essenziale della vita cristiana: la salvezza dell’anima e la maggior gloria di Dio. Per conseguire ciò occorre che si abbia la forza di abbandonare tutto ciò che in questo cammino ci è di ostacolo e abbracciare tutto ciò che concorre verso l’obiettivo finale, al di là della contingenze in cui la persona può trovarsi: salute, malattia, ricchezza, povertà. In questo combattimento spirituale l’opzione è tra due: o la stirpe della Vergine o la stirpe del serpente, tertius non datur.
Qui nasce l’entusiasmo della sequela del Signore, che passa a chiamarci nonostante le nostre miserie usandoci misericordia. È il Re crocifisso che ci promette non solo le stesse sue sofferenze, ma anche la sua stessa gloria.
Secondo fonti non ufficiali, ma attendibili il Papa nell’Omelia che ha tenuto nella Messa del 15 Marzo, celebrata nella cappella della Domus Sanctae Martae, è andato proprio agli Esercizi spirituali ricordando un principio essenziale del cosiddetto discernimento degli spiriti ignaziano. Secondo quanto riferisce un Cardinale presente, Francesco – spiegando la Prima Lettura del giorno tratta dal Libro della Sapienza in cui si evidenza il fatto che gli empi vogliono mettere alla prova il giusto “con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione”, ma essi “non conoscono i misteriosi segreti di Dio, né credono a un premio per una vita irreprensibile” – ha ricordato ai presenti la regola ignaziana: “nel tempo della desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano nel tempo della consolazione”. Altrimenti – ha aggiunto –, se si cede e ci si allontana, quando il Signore torna a rendersi visibile "rischia di non trovarci più" (cfr. Sandro Magister, Il nome di Francesco, la regola di sant'Ignazio e l'esempio di Giona, in www.chiesa.espresso.repubblica.it).
Torniamo allora ai primi insegnamenti ufficiali di Papa Francesco. Nella prima Omelia ai fratelli Cardinali che lo hanno eletto ha offerto un quadro tipicamente, se così possiamo esprimerci, ignaziano. Nella vita cristiana bisogna camminare, edificare, confessare. Ma come? Tenendo gli occhi puntati su Cristo e Cristo crocifisso: unica nostra gloria. Non cammina, non edifica e non confessa Cristo, colui che non lo vede come il crocifisso. Qui scatta subito la polarizzazione, o Cristo o Satana: «quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio» (Papa Francesco, Omelia Santa Messa con i Cardinali, Cappella Sistina 14.03.2013).
E ancora il giorno dopo nell’Udienza concessa agli stessi li ha incoraggiati a non cedere al “pessimismo” e “all’amarezza” che il diavolo offre ogni giorno. Parole queste che sicuramente hanno guastato la festa degli esponenti del progressismo teologico o di qualche laicista intento ad arruolare Papa Bergoglio in paradigmi rivoluzionari e modaioli e che da tempo avevano rubricato il demonio e la sua azione come “ignoranza medievale”.
Ma, visto il nocciolo del problema, ovvero quel combattimento spirituale continuo contro l’aggressione del maligno, non è finito affatto il respiro ignaziano di Papa Francesco. Per ben incominciare è necessario pregare e per pregare è necessario mettersi alla presenza di Dio. Come? Con il silenzio. Ignazio sovente negli Esercizi fa appello al silenzio per mettersi alla presenza di Dio e farsi riempire da Lui. Sono questi i “primi due esercizi” che il neoeletto Vescovo di Roma ha fatto compiere al popolo che lo acclamava, quasi a sottolineare che in ogni situazione e contesto è necessario cercare la gloria di Dio, come il santo di Loyola sulla scia di San Paolo, gli ha insegnato.
Questa ricerca della gloria di Dio è stata declinata, innanzitutto, come un “custodire” l’opera che Lui ha compiuto: dall’uomo al creato, con una particolare attenzione alla custodia del disegno di Dio inscritto nella natura – e basterebbe questo per comprendere quanto è distante l’ottica del Pontefice da quelli che troppo facilmente lo vogliono, d’altronde come san Francesco, un tesserato del WWF piuttosto che di qualsivoglia sigla ambientalista – e alla custodia di se stessi che è «vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono» (Papa Francesco, Omelia S. Messa d’inizio Pontificato, 19.03.2013).
La natura è la traccia del Creatore sia intesa come natura umana che come ambiente geofisico. I biografi di Ignazio concordano nel rilevare che le creature e la natura lo elevavano a Dio, il Padre Nadal testimonia che riusciva a vedere la Trinità in una foglia di arancio.
Ma, per vincere nel nostro cuore la battaglia e discernere il bene dal male, ovvero per saperci “custodire”, dobbiamo far regnare Cristo, su Lui deve essere fisso il nostro sguardo. Questo la Chiesa ha sempre insegnato, rilanciandolo con il Concilio Vaticano II di cui quest’anno si celebra il cinquantesimo anniversario e per cui Papa Benedetto XVI ha dedicato uno speciale Anno alla Fede, che Francesco vede, sulla sua scia, come «una sorta di pellegrinaggio verso ciò che per ogni cristiano rappresenta l’essenziale: il rapporto personale e trasformante con Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza» (Papa Francesco, Udienza ai delegati fraterni, 20.03.2013).
Questa verità va detta a tutti e portata fino agli estremi confini della terra. Torna ancora Ignazio e il suo ardente desiderio di essere l’avanguardia dell’evangelizzazione in tutto il mondo. Il più grande missionario dei tempi moderni esce dalle fila dei gesuiti ed è formato direttamente dal fondatore. Infatti, è lo stesso Ignazio che intercettando Francesco Saverio tra i banchi dello studio teologico di Parigi lo “inchioda” alla considerazione del fine ultimo e gli dedica più di quaranta giorni di Esercizi spirituali. Dopo questi Francesco Saverio partirà per l’Estremo Oriente spendendosi per la propagazione del Vangelo. Anche Bergoglio aveva a quanto pare insistito perché potesse essere mandato missionario in Giappone, ma motivi di salute, hanno portato al diniego da parte dei superiori, non per questo ha spento in sé l’ansia missionaria, messa in atto nella sua terra natale. Si aggiunga a questo la particolare devozione che nutre nei confronti di Teresa di Lisieux, la santa carmelitana claustrale, patrona proprio della missioni.
La terra natale di Bergoglio è stata oggetto della grande evangelizzazione che soprattutto i gesuiti compirono nel Centro e Sud America, facendo nascere dall’incontro tra le culture e la buona Novella quella cristianità ispanoamericana che a pieno titolo entra a far parte di quella che è stata definita con una metafora suggestiva “Magna Europa”.
Quest’ansia missionaria – la cui derivazione non può che essere evangelica – propria dei gesuiti e del cuore di Papa Francesco sin dalle prime parole che Egli ha rivolto ai fedeli della diocesi di Roma e del mondo è apparsa evidente: «vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo […], sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella»(Papa Francesco, Benedizione apostolica Urbi et Orbi, 13.3.2013). E ancora ai Cardinali in udienza: «Pastori e fedeli, ci sforzeremo di rispondere fedelmente alla missione di sempre: portare Gesù Cristo all’uomo e condurre l’uomo all’incontro con Gesù Cristo Via, Verità e Vita, realmente presente nella Chiesa e contemporaneo in ogni uomo. Tale incontro porta a diventare uomini nuovi nel mistero della Grazia, suscitando nell’animo quella gioia cristiana che costituisce il centuplo donato da Cristo a chi lo accoglie nella propria esistenza» (Papa Francesco, Udienza ai Cardinali, 15.03.2013).
E ancora: «abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr At 1,8). La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande espansione missionaria del Vangelo» (Ibidem).
Una suggestiva metafora ci viene proprio dalle terra natale di Papa Francesco ed è stata formulata dal filosofo argentino Alberto Caturelli, nonché rilanciata in un libro di Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica. Caturelli ci parla del “quinto viaggio di Colombo”. Il riferimento è all’Ammiraglio genovese che con la sua grandiosa scoperta dell’America consentì l’espansione del Vangelo in quelle nuove terre. In tutto Cristoforo Colombo (il cui nome significa “portatore di Cristo”), compì quattro viaggi verso il nuovo mondo. Caturelli, considerando il clima di secolarizzazione della Vecchia Europa s’immagina una “restituzione” in qualche modo del dono dell’evangelizzazione contratto più di cinquecento anni fa.
Ecco Caturelli: «Benché il corpo dell’Ammiraglio riposi in terra di Spagna, lo spirito colombiano, prendendo la rotta del secondo Mediterraneo o del mare Oceano, deve dare inizio ad un nuovo viaggio, che ha come punto di partenza il Nuovo Mondo. Sarebbe non un viaggio di scoperta, bensì di ritorno; l’Ammiraglio non pianterà la croce a Guanahaní, bensì sulle spiagge dell’Iberia e del Vecchio Mondo. Nel 1492 partì verso l’ignoto [...] e scoprì il Nuovo Mondo [...]; ritornando, l’Ammiraglio Cristoforo avrà compiuto la sua missione, poiché, come diceva [...], Dio “concede a tutti coloro che percorrono i suoi sentieri di ottenere ciò che appare impossibile”. E l’impossibile non sarà la scoperta, ma la riconversione del Vecchio Mondo a Cristo. Perciò “la cristianità del Nuovo Mondo” [...] nel mondo d’oggi deve compiere due missioni essenziali analoghe a quelle che portarono a termine i missionari del secolo XVI» (Cfr., Il nuovo mondo riscoperta. La scoperta. La conquista. L’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it. Pier Paolo Ottonello, Ares, Milano 1992, pp. 368-370)
Giovanni Cantoni nel testo Per una civiltà cristiana nel Terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo (Sugarco 2008) individuava alcuni pensatori cattolici quali protagonisti di questo viaggio e in qualche modo proseguendo la suggestiva metafora vogliamo pensare che questo “viaggio di ritorno” abbia nell’argentino Papa Francesco oggi il principale protagonista di quella nuova evangelizzazione che non può non essere l’inizio embrionale di una nuova cristianità, anche nella vecchia e stanca Europa, vessata dalla secolarizzazione.
Eppur si chiama Francesco, qualcuno potrà giustamente pensare. Anche questa peculiarità sorprendentemente può esser considerata una scelta pienamente ignaziana. È proprio il fondatore dei gesuiti che nel letto della convalescenza – come spiega sapientemente Hugo Rahner S.I. – ha davanti a sé due esempi: Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Leggendo le loro imprese si ripete: «Domenico ha fatto questo, ebbene devo farlo anche io; san Francesco ha fatto questo; ebbene devo farlo anch’io» (Autobiografia, 7). Possiamo dire allora che Francesco d’Assisi è uno dei decisivi “motivatori” vocazionali di Ignazio di Loyola, il cui esempio e ardore resteranno sempre impressi nella sua mente. Proprio il logo della compagnia “IHS” Ignazio lo ha mutuato, se così possiamo dire da ambiente francescano, in quanto conosciuto grazie al largo utilizzo che un frate minore, San Bernardino da Siena, ne aveva fatto nella sua predicazione.
Esercitato ad essere un contemplativo in azione, siamo certi che gli esempi e l’ardore del Santo d’Assisi saranno impressi anche nella mente e nel cuore di Papa Franscesco, figlio di Sant’Ignazio di Loyola che, tra tutti i gesuiti che si sono succeduti nei secoli, per la prima volta nella storia, ha avuto la provvidenziale ventura di ricoprire il ministero petrino, cui la Compagnia di Gesù è sin dai suoi albori costitutivamente legata per via di quel quarto voto che indica esplicitamente obbedienza al Papa.
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