L’Anticristo, una persona perbene.
La lezione (inascoltata) del grande
Solov’ëv spiegata da Biffi
Il 31 luglio del 1900 (13 agosto secondo il calendario gregoriano)
moriva Vladimir Sergeevic Solov’ëv, teologo e filosofo, da molti considerato il
pensatore più importante della storia russa. Quello che segue è l’intervento
pronunciato a Bologna nel centesimo anno dalla scomparsa dall’allora
arcivescovo della città, Giacomo Biffi. Il cardinale, venuto a
mancare sabato 11 luglio, è stato un profondo
conoscitore ed estimatore del pensiero di Solov’ëv.
Questo testo, pubblicato
per la prima volta nel numero 3/2000 de La Nuova Europa, è riproposto nel numero di Tempi in edicola e fa parte
della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e
della Fondazione Tempi (una proposta che si può
sottoscrivere in questa pagina).
Vladimir Sergeevic Solov’ëv è morto cento
anni fa, il 31 luglio (13 agosto secondo il calendario gregoriano) dell’anno
1900. È morto sul limitare del secolo Ventesimo: un secolo del quale egli, con
singolare accuratezza, aveva preannunciato le vicissitudini e i guai, un secolo
che avrebbe però tragicamente contraddetto nei fatti e nelle ideologie
dominanti i suoi più rilevanti e più originali insegnamenti. È stato dunque, il
suo, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente
inascoltato.
Un magistero profetico
Al tempo del grande filosofo russo, la mentalità più diffusa – nell’ottimismo
spensierato della belle époque – prevedeva per l’umanità del secolo che stava
per cominciare un avvenire sereno: sotto la guida e l’ispirazione della nuova
religione del progresso e della solidarietà senza motivazioni trascendenti, i
popoli avrebbero conosciuto un’epoca di prosperità, di pace, di giustizia, di
sicurezza. Nel ballo Excelsior – una coreografia che negli ultimi anni del
secolo XIX aveva avuto uno straordinario successo (e avrebbe poi dato il nome a
una serie innumerevole di teatri, di alberghi, di cinema) – questa nuova
religione aveva trovato quasi una sua liturgia.
Victor Hugo aveva profetizzato: «Questo secolo è stato grande, il prossimo secolo sarà felice». Solov’ëv invece non si lascia incantare da quel candore laicistico e anzi preannunzia con preveggente lucidità tutti i malanni che poi si sono avverati.
Già nel 1882, nel Secondo discorso sopra Dostoevskij, egli parrebbe aver presagito e anticipatamente condannato l’insipienza e l’atrocità del collettivismo tirannico che qualche decennio dopo avrebbe afflitto la Russia e l’umanità: «Il mondo – afferma – non deve essere salvato col ricorso alla forza (…). Ci si può figurare che gli uomini collaborino insieme a qualche grande compito, e che a esso riferiscano e sottomettano tutte le loro attività particolari; ma se questo compito è loro imposto, se esso rappresenta per loro qualcosa di fatale e di incombente, (…) allora, anche se tale unità abbracciasse tutta l’umanità, non sarà stata giusta l’umanità universale, ma si avrà solo un enorme “formicaio”», quel «formicaio» che in effetti sarebbe stato poi attuato dall’ideologia ottusa e impietosa di Lenin e Stalin.
Nell’ultima pubblicazione – I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900 – è impressionante rilevare la chiarezza con cui Solov’ëv prevede che il secolo XX sarà «l’epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni». Dopo di che – egli dice – tutto sarà pronto perché perda di significato «la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiano gli ultimi resti delle antiche istituzioni monarchiche». Si arriverà così alla «Unione degli Stati Uniti d’Europa».
Soprattutto è stupefacente la perspicacia
con cui descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi
decenni del Novecento. Egli la raffigura nella icona dell’Anticristo,
personaggio affascinante che riuscirà a influenzare e a condizionare un po’
tutti. In lui, come è qui presentato, non è difficile ravvisare l’emblema,
quasi l’ipostatizzazione, della religiosità confusa e ambigua di questi nostri
anni: egli – dice Solov’ëv – sarà un «convinto spiritualista», un ammirevole
filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un
animalista determinato e attivo.
Sarà, tra l’altro, anche un esperto
esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea «honoris
causa» della facoltà di Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente
ecumenista, capace di dialogare «con parole piene di dolcezza, saggezza ed
eloquenza». Nei confronti di Cristo non avrà «un’ostilità di principio»; anzi
ne apprezzerà l’altissimo insegnamento. Ma non potrà sopportarne – e perciò la
censurerà – la sua assoluta «unicità»; e dunque non si rassegnerà ad ammettere
e a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo.
Si delinea qui, come si vede, e viene
criticato, un cristianesimo dei «valori», delle «aperture» e del «dialogo»,
dove pare che resti poco posto alla persona del Figlio di Dio crocifisso per
noi e risorto, e all’evento salvifico. Abbiamo di che riflettere. La militanza
di fede ridotta ad azione umanitaria e genericamente culturale; il messaggio
evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con
tutte le religioni; la Chiesa di Dio scambiata per un’organizzazione di
promozione sociale: siamo sicuri che Solov’ëv non abbia davvero previsto ciò
che è effettivamente avvenuto, e che non sia proprio questa oggi l’insidia più
pericolosa per la «nazione santa» redenta dal sangue di Cristo? È un
interrogativo inquietante e non dovrebbe essere eluso.
Un magistero
inascoltato
Solov’ëv ha capito come nessun altro il secolo Ventesimo, ma il secolo Ventesimo non ha capito lui. Non è che gli siano mancati i riconoscimenti. La qualifica di massimo filosofo russo non gli viene di solito contestata. Von Balthasar ritiene il suo pensiero «la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna» e arriva perfino a collocarlo sullo stesso piano di Tommaso d’Aquino. Ma è innegabile che il secolo Ventesimo, nel suo complesso, non gli ha prestato alcuna attenzione e anzi si è puntigliosamente mosso in senso opposto a quello da lui indicato.
Solov’ëv ha capito come nessun altro il secolo Ventesimo, ma il secolo Ventesimo non ha capito lui. Non è che gli siano mancati i riconoscimenti. La qualifica di massimo filosofo russo non gli viene di solito contestata. Von Balthasar ritiene il suo pensiero «la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna» e arriva perfino a collocarlo sullo stesso piano di Tommaso d’Aquino. Ma è innegabile che il secolo Ventesimo, nel suo complesso, non gli ha prestato alcuna attenzione e anzi si è puntigliosamente mosso in senso opposto a quello da lui indicato.
Sono lontanissimi dalla visione
solov’ëviana della realtà gli atteggiamenti mentali oggi prevalenti, anche in
molti cristiani ecclesialmente impegnati e acculturati. Tra gli altri, tanto
per esemplificare: l’individualismo egoistico, che sta sempre di più segnando
di sé l’evoluzione del nostro costume e delle nostre leggi; il soggettivismo
morale, che induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in
campo legislativo e politico posizioni differenziate dalla norma di
comportamento alla quale personalmente ci si attiene; il pacifismo e la non-violenza,
di matrice tolstoiana, confusi con gli ideali evangelici di pace e fraternità,
così che poi si finisce coll’arrendersi alla prepotenza e si lasciano senza
difesa i deboli e gli onesti; l’estrinsecismo teologico che, per timore di
essere tacciato di integrismo, dimentica l’unità del piano di Dio, rinuncia a
irradiare la verità divina in tutti i campi, abdica a ogni impegno di coerenza
cristiana.
In special modo il secolo Ventesimo – nei
suoi percorsi e nei suoi esiti sociali, politici, culturali – ha contraddetto
clamorosamente la grande costruzione morale di Solov’ëv. Egli aveva individuato
i postulati etici fondamentali in una triplice primordiale esperienza,
nativamente presente in ogni uomo: vale a dire nel pudore, nella pietà verso
gli altri, nel sentimento religioso. Ebbene, il Novecento – dopo una
rivoluzione sessuale egoistica e senza saggezza – è approdato a traguardi di
permissivismo, di ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra
non avere paragoni adeguati nella vicenda umana.
È stato poi il secolo più oppressivo e più
insanguinato della storia, privo di rispetto per la vita umana e privo di
misericordia. Non possiamo certo dimenticare l’orrore dello sterminio degli
ebrei, che non sarà mai esecrato abbastanza. Ma sarà bene ricordare che non è
stato il solo: nessuno ricorda il genocidio degli Armeni a cavallo della Prima
Guerra Mondiale; nessuno si avventura a fare il conto delle vittime sacrificate
inutilmente nelle varie parti del mondo all’utopia comunista.
Quanto al sentimento religioso, durante il
secolo Ventesimo in Oriente è stato per la prima volta proposto e imposto su
una vasta parte di umanità l’ateismo di Stato, mentre nell’Occidente
secolarizzato si è diffuso un ateismo edonistico e libertario, fino ad arrivare
all’idea grottesca della «morte di Dio».
In conclusione, Solov’ëv è stato
indubbiamente un profeta e un maestro; ma un maestro, per così dire, inattuale.
Ed è questa, paradossalmente, la ragione della sua grandezza e della sua
preziosità per il nostro tempo. Appassionato difensore dell’uomo e allergico a
ogni filantropia; apostolo infaticabile della pace e avversario del pacifismo;
propugnatore dell’unità tra i cristiani e critico di ogni irenismo; innamorato
della natura e lontanissimo dalle odierne infatuazioni ecologiche; in una
parola, amico della verità e nemico dell’ideologia. Proprio di guide come lui
abbiamo oggi un estremo bisogno.
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