Il dolore di tutte le madri del mondo nello straziante inno della Desolata di Canosa
di Enzo Garofalo
C’è un luogo nel cuore della Puglia nel quale ogni anno si rinnova un rituale collettivo, davvero unico nel suo genere, che è al tempo stesso atto di devozione religiosa ma anche di umanissima celebrazione di un sentimento impareggiabile, quello che intercorre fra una madre e il proprio figlio. E’ l’antico inno intonato su un ritmo di marcia funebre da ben 360 donne vestite a lutto (il numero più alto degli ultimi anni raggiunto nel 2013), alcune sono scalze, tutte hanno il volto coperto da un velo nero, nella toccante processione della Desolata che a Canosa di Puglia si celebra la mattina del Sabato Santo. Il testo – tratto dall’Inno della Desolata di Antonio Lotti (XVIII sec.), a sua volta basato sullo Stabat Mater di Jacopone da Todi (XIII sec.) – racchiude un senso devozionale di condivisione del dolore della Vergine, Madre per eccellenza, per la perdita del figlio immolatosi ad salvationem Hominis: “…Vedere un figlio, un Dio |che palpita, che muore |sì barbaro dolore |qual madre mai provò…” è infatti una delle frasi-chiave di tutto l’Inno. La dimensione di Figlio dell’Uomo, propria del Dio cristiano, offre però al tempo stesso l’occasione per un processo di identificazione che trova nel dolore causato dalla Morte un cruciale punto di contatto fra l’umano e il divino.
E’ una sensazione multiforme quella provocata da un corteo del genere, che avanza nel più assoluto silenzio squarciato solo dal lungo canto intonato su un registro vocale acutissimo, fatta eccezione per il verso di chiusura “qual madre…madre…mai provò” introdotto da un pianissimo che ha tutta la dolcezza del sentimento materno subito però “trafitto” dall’acuto finale. Un canto nel quale sembra incarnarsi il senso della tragedia più grande che possa colpire la vita di una persona, l’evento luttuoso per eccellenza dal quale non ci si riprende mai, se non apparentemente; una esperienza devastante che iberna l’anima nel gelo dell’annichilimento.
Un aspetto dell’evento, questo, che unitamente all’uniforme colore nero del corteo femminile che accompagna il simulacro della Vergine Addolorata, pare richiamare anche una dimensione più laica, quasi da tragedia greca (non dimentichiamo che siamo in uno dei principali centri dell’antica Magna Grecia), col gruppo di donne idealmente calato nel ruolo ‘narrante’ dell’antico Coro teatrale, oppure sembra riportarci alla tradizione delle lamentazioni funebri – sopravvissuta al Sud fino a metà ’900 - che affonda le radici nel compianto delle donne prèfiche di epoca greco-romana, compartecipi al dolore dei familiari del defunto. Suggestioni culturali che, da un punto di vista più strettamente liturgico, vanno a sommarsi ad altre radici, quelle bibliche del Libro delle Lamentazioni dell’Antico Testamento.
Musicato per banda dal clarinettista Domenico Jannuzzi (1862-1929) di Canosa di Puglia e da decenni diretto dal M° Mimmo Masotina, l’Inno della Desolata accompagna il passo della donne che alle 9.00 del mattino muovono dalla Chiesa dei Santi Francesco e Biagio. Ad aprire il corteo – che percorre le principali vie della cittadina per poi rientrare nella stessa Chiesa – sono numerose bambine vestite da piccoli angeli che recano in mano i segni della Passione di Cristo: la corona di spine, le funi, le fruste, la canna, il calice, i dadi, la tenaglia, i chiodi, etc. Segue la statua della Vergine Desolata, ispirata alla tela settecentesca del pittore Giuseppe De Musso di Giovinazzo che raffigura l’Addolorata, tra San Filippo Neri e San Sabino, Patrono di Canosa, custodita nella Cattedrale a lui intitolata.
Nell’effigie portata in processione la Madre di Dio compare vestita a lutto, impietrita accanto alla croce, sorretta da un angelo consolatore e circondata di fiori rossi, ed è accompagnata dal nero corteo di donne disposte su più file con le braccia intrecciate “a catena”, il volto coperto dal velo nero che in alcuni casi ne lascia trasparire i lineamenti. L’emozione è tangibile, a volte il canto si mescola al pianto e il simulacro della Vergine, della quale queste donne si sentono sorelle ‘in pectore’, sembra quasi trasfigurarsi in una vibrante vitale presenza.
L'impatto emotivo è assolutamente straripante e le lacrime scendono a fiumi; d'altronde si potrebbe reagire diversamente davanti al dolore della Croce????? Non conoscevo questa tradizione che trovo immensamente edificante. Grazie, don Luciano!
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