martedì 20 agosto 2013

canto gregoriano

Riflessioni essenziali sul canto gregoriano Mattia Rossi. 





Quello dell’oblio del canto gregoriano dal Novus Ordo («Come cantare i canti del Signore in terra straniera?», Sal 136, è ormai, realtà!) è un problema oggettivo che, date alcune velate e sottaciute ambiguità, deve essere inquadrato con l’ausilio di qualche nozione tecnica.

Innanzitutto il canto gregoriano non è solamente canto. La vera natura del canto gregoriano è esegetica prima ancora che musicale: la totale consustanzialità tra parola e neuma, la dipendenza dell’andamento musicale-ritmico dal senso esegetico che di quel testo si vuol dare, gli espedienti retorici, dei quali la composizione gregoriana si serve, sottolineano, per mezzo del fenomeno sonoro, un preciso significato che, in definitiva, corrisponde ad una precisa interpretazione scritturale. Questo è il senso di quel bagaglio di segni (i neumi) che accompagnano i testi nei manoscritti. Se vogliamo, il gregoriano è lectio divina in musica: è per questo che la Chiesa l’ha sempre additato come “proprio”. È il canto della Chiesa perché della Chiesa è l’interpretazione delle Scritture.

Il discorso è un tantino tecnico. Cercherò, per questo, di fornire un esempio. Spero di chiarire meglio  …
Prendiamo il communio della II domenica di Pasqua “Mitte manum” nel quale si riportano le parole che Gesù rivolse all’incredulo per antonomasia, san Tommaso: «Mitte manum tuam et cognosce loca clavorum, alleluia. Et noli esse incredulus sed fidelis, alleluia, alleluia» (“Metti la tua mano e senti il segno dei chiodi, alleluia. E non essere incredulo, ma credente, alleluia, alleluia”). Un brano musicalmente molto semplice che, però, inizia subito con tre termini molto forti e ognuno dei quali risulta, a suo modo, sottolineato dall’andamento ritmico. «Mitte», metti: è l’invito che Gesù rivolge a Tommaso, è l’azione grazie alla quale l’apostolo incredulo può credere, è la porta, per Tommaso, della fede e viene rimarcata con un forte stacco alla prima nota. «Manum», la seconda parola, è lo strumento con cui Tommaso approda alla fede: una grande liquescenza sulla seconda sillaba (-num) ingrandisce il termine e lo sottolinea unendolo a quello che segue. «Tuam», metti la tua mano: è l’invito che Gesù, oggi, rivolge all’incredulo Tommaso che c’è in ciascuno di noi. Sulla seconda sillaba di «tuam» c’è un neuma speciale di sottolineatura: «Mitte manum tuam» tre parole distintamente sottolineate, ma che formano un’unica frase, un'unica esortazione ad aprirsi alla fede. Anche la congiunzione che segue, «et», è fortemente allargata a creare l’attesa per la frase seguente: «cognosce loca clavorum». Un «et» molto sospensivo che, però, prelude alla dichiarazione disarmante di Gesù: “senti il segno dei chiodi!”.

Straordinaria, però, per la comprensione di cosa sia realmente il canto gregoriano, è la seconda parte del brano, «Et noli esse incredulus, sed fidelis»: essa ha la stessa, identica, melodia di «et linivit oculos meos» del brano “Lutum fecit”, il communio della domenica quaresimale detta del cieco nato. Che magnifica retorica!: in due brani apparentemente distinti fra loro (uno a metà quaresima, l’altro all’inizio del tempo pasquale) sono, in realtà, fortemente collegati da una stessa medesima melodia. È chiaro che l’intento del compositore gregoriano è squisitamente retorico: collegare e rimandare tra di loro i due brani in quanto appartenenti ad un unico ‘argomento’, la fede. Questo è il gregoriano: per usare un’immagine di Fulvio Rampi, non è una raccolta di canti, è l’immagine sonora del “corpo” paolino nel quale ogni brano, ogni membra, vive solamente in funzione e nella proiezione di un altro e al servizio dell’intero corpo.

Ecco cosa si intende per designare il gregoriano come interpretazione sonora della Parola. E qui possiamo trarne un primo dato: una Chiesa che abbandona il munus docendi, una Chiesa che “riforma” la propria liturgia elevando la “mensa della Parola” alla stregua di quella “dell’Eucarestia”, una Chiesa che, al contempo, banalizza quotidianamente la “Liturgia della Parola” attraverso, dapprima l’introduzione dei lettori laici, e poi attraverso la gaudente incentivazione di lettori all’apparenza semianalfabeti, ecco, in tutto questo che spazio può avere una lectio divinaaddirittura cantata?

Il secondo dato che vorrei porre alla vostra riflessione è, più precisamente, una domanda: che idea abbiamo del gregoriano?
Nell’ambito delle note dispute odierne sulla musica liturgica postconciliare, mi pare di poter rilevare, con sufficiente convinzione, quanto, intorno al canto gregoriano, si sia creato un dibattito fondato sostanzialmente su un equivoco, sul nulla. C’è la Chiesa, da un lato, che ha un’idea distorta e antiquata, potremmo dire ottocentesca, del gregoriano (basta ascoltare certe esecuzioni…), lo vede come del vecchio ciarpame impolverate e arrugginito che ormai non più funzionante al quale spetta, solamente, un posto nei programmi da concerto. Dall’altro lato, ci sono schiere di “tradizional-isti”, che del gregoriano hanno una conoscenza, nel migliore dei casi, superficiale e banale limitata a qualche brano che, magari, gregoriano non è. Si tende, cioè, a far coincidere il gregoriano con quella parte del repertorio più popolare e tardivo ancora in uso che, però, del gregoriano propriamente detto conserva ben poco: Salve Regina e Regina coeli, il Pange lingua, ilVeni creator, l’Adoro te devote e i brani dell’Ordinarium (KyrieGloriaCredoSanctus e Agnus Dei). Solamente un esempio: la tanto celebre “Missa de Angelis” è nata, in realtà, in epoca rinascimentale (la sua impostazione è, ormai, chiaramente tonale: le prime quattro note del Kyrie, ad esempio, contengono le tre note di un accordo maggiore).

In questi brani, codificati piuttosto tardamente, e che hanno un testo fisso, non si assiste più a quei procedimenti retorici che caratterizzano il gregoriano autentico, che fanno l’esegesi di un passo scritturale. Sarò brutale: non c’è nulla di intrinseco (ripeto: di intrinseco, di consustanziale), a parte una questione di buon gusto, che separa un Kyrie o un Sanctus gregoriano da uno di Bonfitto o Machetta, giusto per citare due must, i primi (solamente per alcuni, però) saranno giusto più belli. Ho estremizzato per farmi capire: un graduale o un communio hanno una conformazione in sé che li rende autonomamente Parola.

Terza questione. Partiamo da un caso specifico: un graduale. Il graduale, che veniva cantato dopo la lettura (il salmo responsoriale nel N.O.), è una delle forme gregoriane più complesse e virtuosistiche. È la forma nella quale, il gregoriano, gioca i suoi pezzi da novanta. I canti interlezionali, graduale e alleluia (che nel VO si susseguono) sono la risposta, il primo, e la preparazione, il secondo, alla Parola di Dio. Sono brani meditativi straordinariamente complessi, di una ricchezza incommensurabile. Bene: esistono graduali della durata di un quarto d’ora. È chiaro: sono brani che non accompagnano un rito (come un introito o un communio), ma che sono rito. Sono brani costruiti e modellati su una precisa forma rituale: quella del V.O. 

È impensabile proporre, in una messa N.O. (durata media: 45 min.) un salmo della durata di un terzo del tempo totale di una celebrazione. È impensabile (provare per credere) sottrarre ad un lettore il minuto di popolarità all’ambone per la lettura del salmo. È impensabile calare certe pietre miliari in una magari arruffata messa (già in nuce dimidiata), che senso avrebbe? Bartolucci ha detto: è come disegnare la Sistina su un francobollo. Certo, non vuol dire che non si possa cantare il gregoriano nel NO, anzi: è una portentosa deriva contro la banale sciatteria della musica liturgica corrente. Bisogna, però, osservare e tener presente un’anomalia di fondo che soggiace alla costituzione conciliare.

È vero, infatti, che la Sacrosanctum Concilium definisce il canto gregoriano come “proprio della liturgia romana”(1) al quale si deve riservare “il posto principale”, ma non si premura minimamente di andare oltre. Di per sé, questa frase (è il numero 116 del documento) vuol dire tutto e vuol dire nulla. Che tale passo non fosse così efficace è stato dimostrato ampiamente dalla deriva che il repertorio sacro ha subìto. Ma vi è un altro documento, l’Istruzione postconciliare “Musicam sacram”, che ancora una volta, tratta dell’argomento in termini altrettanto ambigui.

In “Musicam sacram” si stabilisce che vi sono tre gradi di priorità nella scelta delle musiche che vedono “al primo posto” le parti «spettanti al sacerdote ed ai ministri, cui deve rispondere il popolo o che devono essere cantate dal sacerdote insieme con il popolo» (I, 7), come, ad esempio, il saluto del celebrante, le orazioni, il prefazio con il dialogo, le formule di congedo, etc. «Il secondo e il terzo [grado], integralmente o parzialmente, solo insieme al primo» (III, 28). Per secondo grado si intendono le parti dell’OrdinariumKyrieGloriaAgnus Dei e Credo. Ma più interessante è il fatto che i canti processionali di ingresso, di comunione o di offertorio, i canti interlezionali, quelli che noi riteniamo più “indispensabili”, rientrino solamente nel terzo grado che perciò, oltre ad essere all’ultimo posto di priorità, non possono essere eseguiti se non a completamento degli altri due gradi. Ecco, dunque, svelato il trucco: si lascia, sì, il primo posto a un qualcosa genericamente definito come “canto gregoriano”, ma che, in realtà, col substrato e con l’essenza esegetica costitutiva di fondo del gregoriano non condivide alcunché.

Ecco perché mi sembra che, in conclusione, l’esclusione del canto “proprio” della chiesa dalla liturgia riformata sia piuttosto naturale e, purtroppo, corrispondente a quanto denunciava Joseph Ratzinger e che, da par nostro, non possiamo che condividere: “Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono modi diversi di concepire la Chiesa”.
Mattia Rossi
____________________________
Nota di Chiesa e post-concilio:
1. In effetti quando è stata redatta la Sacrosanctum Concilium la Liturgia Romana ancora esisteva. Dunque l'affermazione ha la sua pertinenza. Sono i "però" contenuti dal n.36 - che seguono le affermazioni di principio che tali sarebbero dovute rimanere per essere efficaci -, le fessure che hanno consentito l'irrompere della vis disgregatrice successiva culminata nel NO, che si discosta in diversi punti dalle affermazioni della SC, con una sorta di iconoclastia riservata anche alla musica sacra.

Nessun commento:

Posta un commento