lunedì 23 giugno 2014

al prossimo sinodo

Dopo il Sinodo il Papa tornerà a indossare le scarpette rosse



(di p. Ariel S. Levi di Gualdo su Riscossa Cristiana) Noi parliamo una lingua che si fonda sul mistero di Cristo Dio incarnato, morto e risorto, che ci ha donato l’Eucaristia ed i Sacramenti di grazia, che ci ha inviato lo Spirito Santo, che siede oggi alla destra del Padre e che tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti.Oggi però questa lingua pare non essere più comprensibile, perché il mondo parla linguaggi vuoti e vaporosi che negano l’idea stessa di cristocentrismo cosmico in nome di un omocentrismo terreno senza memoria storica, ma soprattutto senza Dio. Dunque il problema non è, quanto o meno sia il caso di rivestirci di “parole nuove” costruite sulla parola eterna e immutabile di Dio, per andare incontro al mondo ed essere infine assorbiti dalla mondanità evanescente, bensì quanto non si possa correre il rischio di rinunciare alla nostra lingua che ha una sua profonda struttura metafisica, per andare incontro al mondo e compiacere il mondo, per compiacersi nel mondo ed essere infine compiaciuti dal mondo, dimentichi del monito: «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi, perché i padri loro facevano lo stesso con i falsi profeti» [testo consultabile qui].
Rispondendo tempo fa all’intervistatore de La Civiltà Cattolica il Santo Padre rispose: «Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante» [qui].
Letta questa frase che non è un manifesto ma una sintesi di manifesti, rassicurai così me stesso: si tratterà di un’espressione attribuita al Santo Padre da persone che — fin quando a loro va bene — cercano di farti dire ciò che vogliono sentirsi dire; se però cominci a dire ciò che non vogliono sentirsi dire, a quel punto ti massacrano dopo averti fatto terra bruciata attorno alle spalle. Cosa che espressi a un teologo anziano che mi rispose: «Apprezzo il tuo ottimismo, perché pensare sempre bene del Santo Padre, cercare in lui solo il bene, dare interpretazioni sempre positive alle sue parole e imputare la colpa agli altri se afferma cose che potrebbero prestarsi a interpretazioni ambigue, ti fa onore come prete e come teologo, ma … ».
E troncata la frase cambiò discorso.
Rimasi con quel «ma …» sospeso tra cielo e terra che reclamava da parte mia una risposta da trovare in quella mia coscienza soggettiva che nella dimensione metafisica e fisica deve necessariamente sposarsi con la coscienza oggettiva, con la realtà delle cose, nel più profondo ossequio al deposito della fede rivelata del Verbo di Dio fatto uomo.
Trovare una risposta, perlomeno parziale, forse è possibile esaminando questa frase riportata dall’autorevole fonte della Civiltà Cattolica, non certo da un sito “cattolico” di gossip&scoop.
Per quanto riguarda le soluzioni disciplinari val la pena ricordare ch’esse son dettate dal Vangelo che ci spiega persino in che modo e in che misura devono essere applicate, facendo capire senza pena d’equivoco che la disciplina, applicata con virile carità, può essere l’atto più perfetto di misericordia [Mt 18: 15-17, testo consultabile qui]. Una disciplina che il Redentore stesso applicò sulla pelle dei mercanti che aggredì di sua mano a frustate mentre trafficavano dentro il Tempio di Gerusalemme [Mc 11, 15-19. Mt 21, 12-17. Lc 19, 45-48, testo consultabile qui].
In nome della vera carità, che come tale deve produrre giustizia nella verità — perché da questo procede la vera misericordia — all’occorrenza il Vangelo leva chiari moniti che presuppongono la coerente applicazione di pene severe: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» [Mc 9, 42, testo consultabile qui].
Portando poi come esempio il corpo, che sottintende chiaramente il Corpo Mistico della Chiesa, nei paragrafi successivi del Vangelo di San Marco il Verbo di Dio fatto uomo prosegue: «Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo. È meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna» [Mc 9, 47].
Per quanto riguarda le esagerate “sicurezze” dottrinali, va detto che il Verbo fatto Carne è chiaro senza pena di equivoco nel porsi come divino ed eterno assoluto: «Io sono la via, la verità e la vita», non si pone certo come un tutto relativo. E senza nulla temere presenta il cristocentrismo cosmico, essendo Egli la ricapitolazione di tutte le cose, nei cieli e sulla terra [Ef, 10, testo consultabile qui]. Chiarisce anche che «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» [Gv 14,6 testo consultabile qui] e che tutto è messo sotto il suo nome.
Il cristocentrismo cosmico è quindi un assoluto che non dovrebbe irritare certi teologi à la page, come spiega la dichiarazione Dominus Jesus chiarendo l’ovvio e corretto senso teologico di assolutezza della fede rivelata [testo consultabile qui].
In nessuna riga del Vangelo troviamo invece scritto, per esempio, che Christi fideles e pagani adorano lo stesso Dio, né che l’antica religio dei romani, così spicci nel crocifiggere i loro nemici o ad impiegarli come carne da macello nei ludi gladiatorî, malgrado certe sanguinarie apparenze erano comunque ambedue figli di una religione d’amore con la quale dialogare a tutti i costi e costi quel che costi.
Celebrando poi la Festa della Santissima Trinità abbiamo proclamato il Vangelo dando voce a queste parole: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» [Gv 3, 16-18 testo consultabile qui].
Dinanzi alla Parola di Dio che parla sì di misericordia e salvezza, ma al tempo stesso di libero rifiuto della salvezza da parte dell’uomo, annunciando che in tal caso la sua condanna è già comminata, come intendono regolarsi taluni predicatori di quel vaporoso misericordismo odierno che pare avere soppiantato il mistero della divina giustizia sulla quale si regge il mistero di quella divina misericordia sigillata sulle righe del divino Vangelo?
Questo è ciò che afferma il Signore attraverso la sua parola e questo è ciò che noi siamo chiamati ad annunciare, se però qualcuno è più buono e più misericordioso dello stesso Verbo di Dio fatto uomo, che si faccia avanti perché aneliamo conoscerlo, soprattutto per verificare se procede dalla grazia di Dio o dall’abilità del Maligno.
Per quanto riguarda coloro che sono accecati da una visione statica e involutiva che li induce a cercare ostinatamente di recuperare il passato perduto, posso dire che nessuno dei laici cattolici, sacerdoti e teologi che frequento, coi quali vivo in contatto e che sono comprensibilmente preoccupati per la crisi odierna della Chiesa, vive paralizzato nel «passato perduto», perché il nostro è un Popolo che ha cominciato il proprio cammino nel cenacolo nella Pentecoste dello Spirito Santo.
Da questo concetto di cammino, rifacendosi anche all’esperienza dei suoi viaggi apostolici, il Venerabile Pontefice Paolo VI dette vita alla sua enciclica Populorum progressio [qui], chiarendo che non solo, la Chiesa, non teme il progresso, ma intende concorrere a realizzarlo tra i popoli del mondo. Cosa diversamente ribadita dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II nella sua Fides et ratio [testo qui] dove parla del rapporto tra fede e ragione rifacendosi ad un altro grande documento promulgato dal Beato Pontefice Pio IX: la costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I [Cap. IV su fede e ragione — testo qui].
Ribadisco quindi che nessuno dei fedeli cattolici, dei confratelli sacerdoti o dei teologi che io conosco, coi quali vivo in contatto e che sono comprensibilmente preoccupati per la crisi odierna della Chiesa, è per niente paralizzato nel «passato perduto». Semmai è chiaro e da noi tutti condiviso in che misura chi non conosce il proprio passato è destinato a non vivere bene, ma soprattutto a non vivere con reale pienezza il proprio presente, perché senza memoria storica si vive un presente alterato e falsato. Perché è sì vero che negli anni Sessanta del Novecento c’è stato un concilio ecumenico, ma prima ce ne sono stati altri venti, senza i quali mai si sarebbe potuto celebrare un Vaticano II.
Per questo San Giovanni Paolo II apre la sua enciclica Fides et Ratio ricordando «Il monito Conosci te stesso che si trovava scolpito sull’architrave del tempio di Delfi, a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato, qualificandosi come “uomo” in quanto “conoscitore di se stesso”».
E per conoscere noi stessi è indispensabile conoscere da dove veniamo, chi siamo e verso cosa siamo proiettati in una cristologica prospettiva escatologica attraverso una parola viva ed eterna.
Ciò che invece spaventa alcuni di noi cattolici laici, sacerdoti e teologi, per niente ostinati a «recuperare il passato perduto» poiché affetti da «una visione statica e involutiva», è ben altra cosa: la paura che gli accidenti esterni che concorrono a supportare il mistero della Chiesa e che come tali sono e devono essere mutevoli, finiscano invece per prendere il sopravvento e intaccare la percezione stessa della sostanza eterna e immutabile di Dio; una sostanza che essendo causa di se stessa è di per sé invariabile. O per dirla schiettamente: nella stagione di quel post concilio che attraverso un terribile golpe ha divorato il Concilio Vaticano II, gli accidenti dei peggiori teologi — Karl Rahner in testa — hanno cominciato non solo a mutare, ma peggio: a corrodere la sostanza dando appresso vita a una sostanza alterata e falsata. Sono ormai quattro decenni, infatti, che dentro le disastrate facoltà teologiche si partoriscono e si allevano come polli in batteria nipotini rahneriani nutriti dalla teoria dei “cristiani anonimi” che vanifica in modo velenoso il mistero della salvezza [si rimanda all’intervista di Giovanni Cavalcoli (RC, 2010), qui].
Ciò che il Santo Padre Francesco afferma come dottore privato può e deve essere legittimo oggetto di critica, tanto più se l’oggetto è un pontefice che si premura di rassicurare egli stesso quanto non si debbano cercare sempre «soluzioni disciplinari», perché quelle riguardano solo i Francescani dell’Immacolata, per tutti gli altri è cominciata invece l’èra del bengodi nel Paese dei Balocchi, col meglio del peggio dei modernisti in rosse vesti che perlomeno — sia lodato Gesù Cristo! — hanno smesso di fingere e di celarsi ed oggi sono venuti tutti quanti allo scoperto, aggressivi e coercitivi più che mai, pronti a scagliarsi con ferocia distruttiva contro chiunque osi non pensarla come questi maestri del più dialogo, più collegialità, più democrazia …
Facendo una profonda analisi lucida e rispettosa, emergerà che il dottore privato Francesco ha mostrato in più occasioni di stare solo da una parte e trascurare l’altra, apparendo il tal modo sbilanciato e parziale. Parla del progresso ma non parla della tradizione, se la prende con l’immobilismo ma non con lo storicismo, sottolinea il concreto ma non l’universale, parla della coscienza soggettiva ma non di quella oggettiva, della prassi ma non della dottrina, del Popolo di Dio ma non della sua gerarchia divinamente istituita, della verità ma non dell’eresia, della Parola di Dio ma non del dogma, dell’ecumenismo ma non dei difetti dei fratelli separati, della misericordia ma non della giustizia. Cita il Vaticano II ma non cita il Vaticano I o il Concilio di Trento … e così via dicendo.
Se però, come sembra, l’equivoco continuerà ad aumentare, ed assieme ad esso lo smarrimento tra le membra vive del Popolo di Dio, il Santo Padre dovrà infine chiarire il tutto. A quel punto, i laicisti e gli ultra progressisti cattolici che oggi lo esaltano, gli si scaglieranno contro in modo feroce, perché si sentiranno traditi nelle loro aspettative: i primi, perché credevano di poter distruggere la Chiesa da dentro; i secondi, perché erano convinti di poterla reinventare a proprio uso e consumo attraverso una nuova ecclesiogenesi, per usare una terminologia tanto cara all’eretico Leonard Boff capofila della teologia della liberazione [vedere quiqui].
Non è infatti neppure pensabile — checché ne dicano sedevacantisti e pessimisti apocalittici di varia fatta — che il Sommo Pontefice tradisca la dottrina di Cristo. Potrebbe essere persino un opportunista, un furbo, un autocrate celato dietro aloni di liberal-collegialismo, un imprudente … ma non potrà mai tradire  la sposa di Cristo, perché è scritto nel deposito della nostra fede: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli » [Mt 16, 18-19, testo consultabile qui]. 
Merita pertanto ribadire a pessimisti cosmici, sedevacantisti e cacciatori di “eresie pontificie” che di sito in sito si moltiplicano giorno dietro giorno nella foresta della rete telematica, un dato di fatto incontrovertibile: sino ad oggi, dal Santo Padre Francesco e dai suoi più stretti collaboratori, sul piano della dottrina ufficiale non è mai venuto nulla che fosse obbligante o vincolante per tutti i cattolici, che si ponesse in qualche modo in contrasto con la tradizione cattolica. Restano pertanto vigenti e del tutto inalterati i dogmi di fede, il Catechismo della Chiesa Cattolica ed il Codice di Diritto Canonico che regola la vita interna della Chiesa.
Possiamo lamentare — ed è un libero diritto di coscienza farlo — che la prassi lascia di giorno in giorno sconcertati, basti pensare alla teologa Suor Fernanda Barbiero alla quale il Cardinale João Braz de Aviz ha affidato il commissariamento delle Francescane dell’Immacolata [vedere Corrispondenza Romana,qui]; ma il deposito della fede — al di là di certe prassi molto discutibili — rimane inalterato e nessuno, a partire dal Sommo Pontefice, lo ha mai intaccato.
Pertanto, anziché andare a caccia di improbabili e impossibili “eresie pontificie”, sarebbe opportuno fare come suggerisce Dante Alighieri: «Non ti curar di lor ma guarda e passa». Incentrandosi quanto più possibile sulla solida certezza di fede dogmatica del «Tu sei Pietro».
Dicendo «tu sei Pietro» ho espresso la “mia” teologia della speranza, che nel corso dell’ultimo anno ho sviluppato dopo averla acquisita in modo stimolante da due miei confratelli anziani e membri illustri della nostra “Riserva Indiana”, il teologo Antonio Livi [vedere qui] ed il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli [vedere qui], coi quali spesso interloquisco e dai quali apprendo, vivo e condivido situazioni intra ed extra ecclesiali [vedere qui]. E siccome, le nostre speculazioni teologiche si basano sulla fede e sui misteri della fede del Verbo di Dio, senza mai rimanere fossilizzate su mere speculazioni intellettuali ma calandosi invece nel concreto quotidiano, essere pessimisti è per noi impossibile, sia come sacerdoti sia come teologi: realisti sì, sempre, ma pessimisti no, mai.
Il pessimismo, anche quello che potrebbe apparire umanamente giustificato, al di là di tutte le migliori intenzioni rischia di produrre un effetto deprimente-distruggente, sino ad annichilire — in modo semmai inconsapevole, ma non per questo meno devastante — quella virtù teologale che si trova nel mezzo tra la fede e la carità: la speranza.
Quanto più grave e pericoloso è il momento storico tanto più alta deve essere la speranza, che non vuol dire illudersi, illudere ed evadere dal reale, tutt’altro. Vuol dire vivere un corretto e realistico rapporto cristologico con quella fede e con quella carità che tengono entrambe stretta per mano la speranza.
Il Santo Padre Francesco può dunque piacere o non piacere, cosa del tutto legittima, ma per divina volontà e per divina istituzione rimane il clavigero, oggetto e soggetto come tale della nostra fede e della nostra speranza: «Tu sei Pietro», quindi della nostra autentica e inesauribile devozione per il mistero che egli incarna.
Credo che l’intero palio si giocherà tutto al prossimo sinodo sulla famiglia, considerando quanto sconcertanti siano state molte risposte ai questionari giunte sino ad oggi dal Nord dell’Europa e da varie altre parti del mondo. Pare infatti che interi episcopati nazionali siano in mano alle peggiori derive dottrinali e che intere fette di Chiesa Cattolica siano ormai non più cattoliche.
Eppure certi risultati sfavillano alla pubblica luce del sole, basterebbe solo domandarsi: che fine hanno fatto molti gruppi protestanti e anglicani, dopo essersi aperti a tutto ciò verso il quale una congregazione cristiana veramente moderna doveva aprirsi a loro dire nel mondo moderno?
Luterani per un verso e anglicani per altro verso sono arrivati a tali aberrazioni da far prendere le distanze persino agli abitanti di Sodoma e Gomorra. Donne prete e poi donne vescovo sono solo ricordi lontani, perché ben oltre si sono spinti. Oggi i luterani e gli anglicani hanno tra le proprie fila donne-vescovo lesbiche, fiere e aggressive attiviste omosessualiste, che “ordinano” sacerdoti gay che a loro volta “benedicono” i matrimoni farsa delle coppie omosessuali.
Il tutto con quali risultati? Questi: il Sommo Pontefice Benedetto XVI dovette intervenire con l’apposita costituzione apostolica Anglicanorum coetibus [testo della costituzione consultabile qui] per regolare l’accoglimento di anglicani che chiedevano sempre più numerosi di entrare nella Chiesa Cattolica e per concedere la valida ordinazione agli ex sacerdoti anglicani, che sacerdoti non erano, essendo stati ordinati da vescovi invalidi perché non legati alla successione apostolica. Il tutto ci è noto sin dai tempi del Sommo Pontefice Leone XIII che questa spinosa questione la chiarì con la bolla Apostolicae curae del 18 settembre 1896, dove dichiarò che le ordinazioni anglicane sono assolutamente invalide. Oggi, a leggere certi questionari che stanno giungendo in risposta alla preparazione del sinodo sulla famiglia, capiamo però in che misura certi cattolici resi sordi e ciechi dalle proprie ideologie superiori allo stesso Verbo che era in principio e che era presso Dio e che era Dio [Gv 1], vogliano ostinarsi a mettere in discussione anche delle tematiche che altrove applicate hanno prodotto il disastro, il fallimento totale, la fuga dei fedeli e dei loro stessi ministri di culto.
Le aspettative della stampa laicista che a detta di certi ecclesiastici sarebbe colpevole di interpretare male le parole, ma soprattutto quelle dei cattolici che hanno risposto ai questionari, sono tante e tali che il Santo Padre pare che si sia messo in un vicolo cieco dal quale potrà uscire solo dicendo in modo chiaro e deciso “si” o “no”. Quando infatti saranno tirate le somme di quel sinodo, non sarà più possibile lasciare intendere che potrebbe essere si ma anche no, o forse un po’ si e un po’ no, perché molti dei quesiti posti hanno a che fare col mistero di quella sostanza eterna e immutabile che nessun accidente esterno potrà variare, perché è l’uomo che deve piegarsi liberamente e coscientemente alla volontà di Dio, non è certo Dio eterno e immutabile che può essere piegato alla volontà dell’uomo, tanto meno in nome della “prassi” portata avanti dai capofila di certe correnti teologiche teutoniche.
Quando il Santo Padre non potrà più muoversi in modo vago, quando non sarà più possibile avere la botte di vino piena e la moglie ubriaca, si ritroverà dinanzi a un bivio che comporterà l’obbligo di dire in modo chiaro e inequivocabile cosa è giusto e cosa è sbagliato, mentre su di lui incomberà grave e solenne il divino monito: «Il vostro parlare sia si quando è si e no quando è no, perché il di più proviene dal maligno» [Mt 5: 33-37].
A quel punto, coloro che ancora piagnucolano per certi abiti dismessi, potranno tornare gioire, perché dal vecchio guardaroba pontificio saranno tirate fuori di nuovo le scarpe rosse e saranno usate per ciò che realmente simboleggiano: il martirio di Pietro che coi piedi sanguinanti salì sul colle Vaticano per essere crocifisso.
Dinanzi a ciò che l’uomo non può mutare, perché scritto nelle leggi eterne e immutabili di Dio, Pietro dovrà dire di no — e lo dirà — perché lui è la pietra edificante e perché le porte degli inferi non prevarranno mai sulla Chiesa di Cristo.
Il momento è drammatico perché potremmo andare incontro ad una vera e propria spaccatura. Già alcuni anni fa, in un mio libro, facendo una analisi sulla situazione della Chiesa Cattolica tedesca e di quella olandese parlavo di “scisma di fatto” [cf. E Satana si fece Trinoqui]. Pertanto, se con artifizi legati a criteri di “prassi” certi capofila non riusciranno a mutare dottrine della Chiesa che non possono essere mutate perché fondate sul deposito della Rivelazione e sulla Parola di Dio, ecco che dall’Austria sino all’Olanda passando per la turbolenta Germania sarà fatto il cosiddetto diavolo a quattro. Se invece, in nome della “prassi”, saranno alterate dottrine fondate sul deposito della Rivelazione e sulla Parola di Dio, persino dall’attuale scenario desolante potrebbe uscire fuori anche un piccolo Atanasio di Alessandria, ed in diversi lo seguiranno, perché come a rigore storico ricordiamo, a salvare la Chiesa dall’eresia ariana fu il vescovo alessandrino, oggi santo e dottore della Chiesa, all’epoca condannato, perseguitato, esiliato e seguito solo da un piccolo pugno di uomini. [rimando all’opera di Leonardo Grazzi: quiqui].
La situazione e così delicata che dopo le illusorie aspettative che s’è lasciato prendessero vita alle porte del prossimo sinodo, il Santo Padre rischia di ritrovarsi in una condizione nella quale la vicenda di cui diremo avanti, quella legata alla storia del Venerabile Pontefice Paolo VI con la Humanae vitae e con gran parte degli episcopati europei che gli si rivoltarono contro, a confronto sarà nulla, rispetto a ciò che potrebbe accadere al Santo Padre Francesco quando infine dovrà dire “no”, dopo avere inaugurato un giorno di baldoria conquistando tutti, urbi et orbi, affermando sorridente: «Quanto vorrei una Chiesa povera per i poveri» [filmato qui]. Mandando in autentico delirio soprattutto le elites dei laicisti anticattolici multimilionari, che da una parte sfruttano senza scrupoli tutto lo sfruttabile possibile e immaginabile in risorse umane e in risorse materiali, ma dall’altra plaudono il Pontefice e  pretendono una Chiesa non solo povera, ma proprio miserabile, con le toppe cucite addosso, possibilmente sopra ai suoi vestiti divorati dai topi.
E dinanzi ad un inevitabile “no” che all’interno della Chiesa gli costerà il martirio bianco e al di fuori di essa l’odio universale di tutti i mass media laicisti che lo faranno a pezzi accusandolo di tradimento per non aver voluto alterare dottrine della Chiesa immutabili perché fondate sulla Rivelazione, a difenderlo non ci saranno i Carlo Maria Martini, i Walter Kasper, i Bruno Forte, gli Óscar Maradiaga, gli João Braz de Aviz, i Gianfranco Ravasi con tutta quanta l’allegra brigata degli atei devoti del Cortile dei Gentili e suvvia dicendo.
Non ci saranno neppure a difenderlo coloro che oggi, sebbene consapevoli dei pericoli che stiamo correndo, tacciono per insopprimibili ambizioni di carriera ecclesiastica, perché fino a 74 anni e 11 mesi seguiteranno a sperare in una prestigiosa sede arcivescovile e per tutta la loro vita in quello straccetto rosso porpora che invece non ha età e che a qualsiasi età può essere assegnato. Solo per questo tacciono, non per auriga virtù di somma prudenza, come vorrebbero far credere, ammonendo semmai il sottoscritto che «in discussione non è la fondatezza delle verità che dici, ma il fatto che ciò che dici non è opportuno». E siccome, questa frase in sé e di per sé non fu reputata abbastanza assurda dal vescovo che me la lanciò addosso, ecco che quel “buon pastore” reputò bene aggiungere: «Se poi la Chiesa Cattolica non ti va bene, che problema c’è? Escine fuori!». E dopo avermi liquidato passando dall’assurdo al grave insulto, andò a cercare nell’aula consiliare della Conferenza Episcopale Italiana il vescovo che lo aveva succeduto nella sua precedente diocesi, per perorare la causa di un suo presbitero che dopo aver lasciata incinta una ragazza, dopo essere divenuto padre di un bambino e dopo aver creato tutti i pubblici scandali del caso nel Popolo di Dio, andava giustamente e soprattutto opportunamente sistemato e protetto, dato che seguitava senza problemi di sorta ad esercitare il ministero sacerdotale. Il tutto senza che il vescovo si fosse mai premurato di dirgli, non dico di lasciare la Chiesa cattolica — per carità, giammai! — ma perlomeno di lasciare il sacerdozio e di assumersi tutte le sue responsabilità nei confronti di quella donna e di quella creatura venuta al mondo.
Questi sono gli episcopi “prudenti” e “opportuni” ai quali la vita e … la morte di noi presbiteri è messa spesso, o meglio: totalmente in mano.

A difendere il Santo Padre non saranno questi schiavi condizionati dalle loro ambizioni che in altre stagioni difendevano in giro per l’Italia i “valori non negoziabili”, quando andavano di moda, solo perché calcando la loro onda già si vedevano vestiti di rosso. A difenderlo ci saremo noi, cristiani tutt’altro che anonimi, che abbiamo trascorso il tempo ad essere bastonati a sangue a destra ed a sinistra. E difendendolo saremo totalmente dimentichi degli infausti giorni di baldoria in cui persino l’organo ufficiale della massoneria lo elogiava come uomo che stava «rimodellando la Chiesa», presente all’incontro organizzato dal Grande Oriente d’Italia l’immancabile cristiano adulto Alberto Melloni — che come il prezzemolo spunta ovunque — e la civettuola Marinella Perroni, teologa femminista dell’ateneo catto-protestante Sant’Anselmo [vedere qui].
Difendendo il Santo Padre saremo totalmente dimentichi degli infausti giorni di baldoria in cui persino la storica rivista dei gay americani gli dedicava la copertina come persona dell’anno [vedere qui]. E mentre tutto questo accadeva, egli si rivolgeva a una fetta dei suoi figli devoti chiamandoli «pelagiani», «untuosi», «tristi», «spaventati dalla gioia», «cristiani pipistrelli» [qui] … mentre i peggiori laicisti anti-cattolici lo lodavano da ogni parte del mondo, inclusi i massoni, che è tutto dire, perché è davvero tutto dire quando si arriva al punto in cui persino i massoni lodano un Pontefice, le sue parole ed il suo operato nelle loro riviste e nei loro convegni ufficiali [vedere qui].
Siamo uomini di fede, speranza, carità e soprattutto di vera misericordia, per questo nulla di tutto ciò ricorderemo quando il Romano Pontefice avrà bisogno di noi che sempre lo difenderemo a qualsiasi prezzo, perché è lui la pietra, unica, legittima e vera sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa. E in cambio della nostra difesa del tutto dovuta perché strutturata sulla nostra fede fondata sulla teologia della speranza, non gli chiederemo mai in cambio né privilegi né prebende né la titolarità di un dicastero romano, perché il nostro essere e divenire cristiano, il nostro sacerdozio ministeriale, si regge interamente sulla gratuità.
Il Santo Padre Francesco sarà dunque difeso a spada tratta proprio da quelli che sino ad oggi ha bastonato con le parole e con le opere, strappando su di loro sorrisi con le sue ironie sui «cristiani tristi» e sui «cristiani pipistrelli» che vogliono difendere la Chiesa in modo anacronistico; battute con le quali ha indotto all’ilarità ed al plauso tutti quei laicisti, atei e massoni che invece la Chiesa vogliono distruggerla da sempre; e non credo che in tal senso abbiano cambiato idea e aspirazioni sotto il pontificato di Francesco.
Il Venerabile Pontefice Paolo VI, nato incendiario e morto pompiere, da chi fu difeso durante i lunghi anni del suo martirio bianco? Forse dai vescovi ultra progressisti della Germania, o da quelli dell’Olanda che gli recarono pubblico affronto dando alle stampe il loro eterodosso Catechismo?
Fu difeso con devozione profonda e con fede indefessa verso il mistero del primato di Pietro da uomini come Alfredo Ottaviani e Giuseppe Siri, che con santa umiltà si guardarono bene dallo spingere più a fondo la corona di spine che faceva sanguinare il capo del Vicario di Cristo, anche se avrebbero potuto dirgli: «Non ti avevamo forse avvisato, anni fa, su che cosa sarebbe accaduto, mettendo i piedi su certe strade, o lasciando trascorrere troppi anni prima di rispondere con la Humanae vitae, mentre certi episcopati supportati dalla stampa laicista pompavano aspettative che Pietro non avrebbe mai potuto avallare?». E avrebbero potuto aggiungere: «In un colloquio privato, non ti fu forse detto che se in certe situazioni ecclesiali legate al turbolento Nord dell’Europa non si interveniva subito con decisa autorità, entro pochi decenni quelle Chiese locali non sarebbero state più cattoliche?».
Siccome eravamo però agli inizi della grande ebbrezza del più dialogo, più collegialità più democrazia, forse egli valutò quelle parole come espressioni uscite dalle bocche di ammalati ostinati d’autorità e d’autoritarismo vecchio stampo pre-conciliare, pronti sempre a invocare «soluzioni disciplinari». E dal 25 luglio 1968, data della pubblicazione di quella enciclica, sino al 6 agosto 1978, data della sua morte, dovette trascinarsi con la croce sulle spalle lungo la via dolorosa, perché queste furono le evidenti conseguenze storiche: combattuto dentro la Chiesa e reso oggetto di dileggio dalla stampa mondiale. A questo si aggiunga che nei suoi successivi dieci anni di vita, il Venerabile Paolo VI, dopo la Humanae vitae non dette mai più alle stampe altre encicliche.
Studiare la storia e conoscere il passato insegna sempre, quando la superbia tipica dell’ignoranza non si frappone come valvola di chiusura.
Venerare Pietro e difendere il suo sacro ministero è scritto nella nostra fede, a prescindere da quelle che potrebbero essere le limitatezze di Jorge Mario Bergoglio, tutto sommato meno limitato e meno inadeguato di quanto dimostrò di esserlo quel Simone scelto personalmente dal Signore, che dinanzi alla mal parata si dette prima alla fuga e poi rinnegò il Cristo per tre volte; il tutto affinché persino nel divino mandato conferito dal Verbo di Dio a colui che prenderà il nome di Pietro fossero racchiuse tutte le fragilità e tutte le limitatezze della nostra natura umana. Fragilità e limitatezze cancellate in un solo colpo da quel Simone divenuto infine veramente e pienamente Pietro, giunto coi piedi sanguinanti sul colle Vaticano per glorificare il Cristo Dio incarnato, morto e risorto con la gloria del proprio martirio.
Perché il Vescovo Paolo non esitò a puntare il dito ed a rimproverare in toni duri il Pontefice Pietro ad Antiochia [vedere locuzione di San Giovanni Paolo II, qui] senza mai porre in discussione il suo primato, la sua autorità e il suo divino mandato, ed oggi, invece, in tutta l’orbe cattolica pare non esserci un solo vescovo che affronti all’occorrenza in altrettanto modo il Pontefice Francesco dinanzi a certe sue prassi, oppure ricordandogli, dinanzi a certi suoi modi esteriori di agire che in un anno appena hanno desacralizzato la figura di Pietro e il mandato a lui dato da Cristo in persona [vedere quiquiqui, ecc..], che la dignità che gli è stata conferita per servire la Chiesa non gli appartiene, gli è stata concessa solo in comodato d’uso per guidare alla fede e alla salvezza il Popolo di Dio?
Credo che la risposta a questo sia tanto vera quanto penosa: Paolo rimproverò Pietro perché non aspirava a diventare cardinale, né tanto meno era un pavido accidioso che voleva solo vivere sereno e tranquillo, senza tanti problemi, riverito e ossequiato — Eccellenza qua Eccellenza là … Eminenza sopra Eminenza sotto —  dentro e fuori dal proprio quieto palazzo vescovile, coprendo la sua codardia dietro al pretestuoso dito della falsa prudenza o di clericali criteri di opportunità.
Et portae inferi non praevalebunt adversus eam …
(di p. Ariel S. Levi di Gualdo su Riscossa Cristiana)

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